Il cavaliere di buon gusto/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Camera, in cui si prepara per il caffè ecc.
Brighella, Arlecchino ed altri Servitori.
Brighella. Animo, porte qua sta tavola, e parecchiemo el caffè e el rosoliti: mettè le luse1, perchè deboto2 l’è sera, (servi preparano il tutto) Via, sior Arlecchin, la fazza anca ela qualcossa.
Arlecchino. Mi, sior mistro de casa, ho fatto in cusina quel che aveva da far, e no vôi far altro.
Brighella. Come, no volè far altro? Cussì se responde a un mistro de casa?
Arlecchino. Comandeme quel che me tocca a far, e vederè se lo farò volentiera.
Brighella. Ti ha da far tutto quello che voio mi. Ti ha da aiutar a parecchiar sta tavola.
Arlecchino. Ma fin che fazzo sta cossa, no posso far quell’altra.
Brighella. Coss’ela mo quell’altra cossa che ti ha da far?
Arlecchino. Ghe zogo mi, che no savì quala sia la mia obbligazion.
Brighella. Pol esser che no la sappia. Dimmela, caro ti.
Arlecchino. Oh, se vede che sì grezzo! El mistro de casa, no sto ultimo, ma quell’altro passà3, lu el saveva comandar, e mi bisognava che l’obbedisse.
Brighella. Via, cossa te comandavelo?
Arlecchino. Quando andava a spender con lu la mattina, el me fava tor una sportella separada da quelle de casa. Co l’aveva tolto la carne, el vedèlo, el pollame e i frutti, de tutto el metteva una porzion in te la sportella, e el me diseva: Arlecchin, porta sta roba; indovine mo a chi?
Brighella. A chi?
Arlecchino. A so comare. Quando el cogo aveva fatto i pastizzetti, el ghe ne toleva una mezza donzena, e el me diseva: Arlecchin, porta sti pastizzetti. Savi mo a chi?
Brighella. A chi?
Arlecchino. A so comare. Fenida la tavola dei patroni, el taiava un pezzo de rosto, una mezza torta, un mezzo pastizzo; e subito: Arlecchin. Sior? Porta sta roba. Indovine mo questa a chi l’andava?
Brighella. A chi?
Arlecchino. A so comare. Dopo disnar, tutti i avanzi dei fiaschi e delle bottiglie, e dei fiaschi pieni, e delle bottiglie intiere, el piava4 su 5; e pò. Arlecchin. Sior? Porta sto vin. Oh, questo mo no ve imagineressi mai dove el lo mandava.
Brighella. Dove, caro ti?
Arlecchino. A so comare.
Brighella. Tutto a so comare?
Arlecchino. Sior sì, e mi l’obbediva con tutta fedeltà. Savì mo perchè? Perchè, co l’occasion della comare, anca mi robava col sior compare.
Brighella. Sto mistro de casa l’era un galantomo.
Arlecchino. Oh, el me voleva un gran ben! La mattina a bonora l’andava mi a desmissiar6.
Brighella. Dove dormivelo?
Arlecchino. In casa de so comare.
Brighella. Pulito.
Arlecchino. Una volta l’era ammalà, e se credeva che el morisse, che mi aveva un dolor terribile. Ho dà più maladizion a chi l’ha fatto ammalar.
Brighella. Chi l’ha fatto ammalar?
Arlecchino. So comare.
Brighella. Sto mistro de casa me l’arrecordo, che no l’è gran tempo che l’è andà via.
Arlecchino. Mi so per cossa che l’è andà via.
Brighella. Via mo, per cossa?
Arlecchino. Per so comare; e adesso so cossa che el fa.
Brighella. Cossa falò, caro ti?
Arlecchino. El batte l’azzalin7; e savìu8 a chi?
Brighella. A chi?
Arlecchino. A so comare.
Brighella. Oh vedistu mo, mi no gh’ho comare, mi no mando gnente a nissun, servo il mio padron onoratamente. La servitù la impiego in cosse lecite e oneste, e voio esser obbedio. Animo, tira avanti quelle careghe.
Arlecchino. Via, tira avanti quelle careghe. (a servitori)
Brighella. Digo a ti.
Arlecchino. E mi a ti.
Brighella. Come, tocco de sguattaro9 maledetto!
Arlecchino. Se me perderì il respetto, ricorrerò.
Brighella. A chi ricorrerastu?
Arlecchino. Ai mi protettori.
Brighella. E chi èli sti protettori?
Arlecchino. Ricorrerò a siora comare.
Brighella. Ti ricorrerà a siora comare? E questo intanto sarà sior compare. (gli dà un calcio)
Arlecchino. (Senza parlare va disponendo le sedie, e di quando in quando va dicendo a Brighella) Reverisso el sior compare. (E poste le sedie, replica) Fazzo una reverenza al sior compare. (parte)
Brighella. Sti baroni, quando i trova chi ghe fa far delle baronade, i xe tutti contenti. Me par che i padroni vegna.
SCENA II.
Il Conte Ottavio servendo Donna Eleonora, Florindo,
Clarice, Lelio, Beatrice, Pantalone, Dottore
e Brighella.
Ottavio. Oh, con i lumi ci vedremo meglio. Favorite d’accomodarvi. Beviamo il caffè. (siedono)
Pantalone. Dopo el vin de Canarie, xe necessario un poco de caffè.
Dottore. Ci vuol altro che caffè a smorzar i calori. Acqua vuol essere. Pantalone10.
Ottavio. Care le mie damine, quanto vi sono obbligato dell’onore che mi avete fatto questa mattina! (versa il caffè) Io non ho altro bene al mondo che l’allegria, la compagnia de’ buoni amici, l’onore che mi fanno queste adorabili dame. Cara Baronessina, questo è per voi. (a Clarice)
Clarice. Obbligatissima. Caffè non ne bevo quasi mai.
Ottavio. Eh via.
Clarice. Davvero, non mi conferisce.
Ottavio. Ve lo do io.
Clarice. Via, perchè me lo date voi, lo prenderò.
Eleonora. (Ha servito prima lei). (da sè)
Ottavio. A voi, la mia carissima mezza età. (ad Eleonora)
Eleonora. Orsù, io non voglio esser posta in ridicolo.
Ottavio. Che? L’avete per male?11
Eleonora. Io non sono qui per far ridere la conversazione.
Ottavio. Via, compatitemi, nol dirò più. Prendete questa tazza di caffè.
Eleonora. Non ne voglio. (irata)
Ottavio. Via, prendetelo.
Eleonora. Signor no.
Ottavio. Via, carina. (con grazia)
Eleonora. Siete un gran diavolo! (prende il caffè ridendo)
Ottavio. Fra voi e me far potremmo12 una bella razza di diavoli.
Clarice. (Quando parla con donna Eleonora, s’incanta, non la finisce mai). (da sè)
Ottavio. Signor Lelio, e voi non dite nulla?
Lelio. Io godo lo spirito di queste graziose dame.
Ottavio. Via, fino che godete lo spirito, mi contento.
Lelio. Che?13ci pretendete voi sopra di esse?
Ottavio. Non voglio dire in pubblico i fatti miei.
Lelio. Avvertite che sono due.
Ottavio. E per questo? Io non mi confondo.
Lelio. Volete tutto per voi?
Clarice. Il signor conte Ottavio non si può dividere in due.
Eleonora. È vero; sarà tutto della signora Baronessa.
Clarice. Eh, io non ho questo merito.
Ottavio. Orsù, signore mie, voglio svelarvi la verità. Ho già fissato qual debba esser la mia sposa. Lo dirò pubblicamente, e tutti saranno contenti.
Beatrice. Bisogna vedere se noi la conosciamo questa vostra sposa.
Ottavio. Se la conoscete? La mia sposa è a questa tavola.
Clarice. Come?
Eleonora. A questa tavola?
Ottavio. Senz’altro.
Clarice. | Chi è? | |
Eleonora. |
Ottavio. A suo tempo lo saprete.
Eleonora. (Ah, dubito sia la Baronessa!) (da sè)
Clarice. (Sarà donna Eleonora senz’altro). (da ss)
Eleonora. Vorrei dirvi una parola, ma non so come fare, (ad Ottavio)
Ottavio. Con permissione. (si copre il viso dalla parte di Clarice) Non abbiate gelosia. (a Clarice) Son qua, parlate, (ad Eleonora)
Eleonora. (Voi sposerete la baronessa Clarice).
Ottavio. (Se ho intenzione di sposarla, il diavolo mi porti).
Eleonora. (Dunque la sposa son io). (da sè)
Clarice. Signor Conte, potrei io aver la grazia di dirle una parola?
Ottavio. Volentieri. Con vostra buona licenza. (ad Eleonora, e fa lo stesso) Eccomi a voi. (a Clarice) Non prendete ombra. (ad Eleonora)
Clarice. (Lo so, che avete donato il cuore a donna Eleonora).
Ottavio. (Se sposo donna Eleonora, ditemi ch’io sono un cavaliere indegno).
Clarice. (Dunque posso lusingarmi d’essere io la prediletta), (da sè)
Beatrice. Signor cognato, giacchè oggi si costuma parlar nell’orecchio, potrei anch’io dirvi una parola?
Ottavio. Volentieri. Con permissione di queste dame. (s’alza, e va da Beatrice)
Beatrice. (Potrei sapere ancor io chi volete sposare di quelle due?)
Ottavio. (Nessuna).
Beatrice. (Eh via).
Ottavio. (No, da uomo d’onore).
Beatrice. (Ma se dite che la vostra sposa è a questa tavola?)
Ottavio. (È vero).
Beatrice. (E non è nessuna di queste due?)
Ottavio. (No, da cavaliere).
Beatrice. (Oh, questa è bella!)
Ottavio. (Fra poco lo saprete ancor voi). Vi occorre altro?
Beatrice. Niente altro.
Ottavio. Vado al mio posto.
Beatrice. (Questa è bellissima. Che avesse la pazzia in capo di credere di potere sposar la cognata?) (da sè)
Ottavio. Eccomi, garbatissime dame: compatite di grazia. Che vuol dire che mi parete sospese?
Clarice. Io vado pensando chi mai può essere questa vostra sposa.
Eleonora. Potreste dirlo, e levarci di pena.
Ottavio. Voglio un poco farmi pregare. Intanto favorite, beviamo il rosolio alla salute della mia sposa. (versa il rosolio, e tulli bevono alla salute della sposa)
Florindo. Signor zio, noi abbiamo bevuto alla salute della vostra sposa, e alla salute della mia non si beverà?
Ottavio. Avete ragione. Presto, subito. Alla salute della marchesina Rosaura14. Viva la sposa di mio nipote.
Tutti. Viva.
Beatrice. Che cos’è questa sposa? Che cos’è quest’istoria? Io non ne so nulla.
Ottavio. Eh via, signora cognata. Bevete ancor voi alla salute di vostra nuora.
Beatrice. Oh, questo poi no.
Florindo. Sì, cara signora madre, se mi volete bene, fatelo per amor mio.
Ottavio. Sì, sì; evviva. Bevete, bevete; evviva. (a Beatrice)
Florindo. Cara mamma, evviva.
Beatrice. Bricconi, bricconi quanti siete.
Ottavio. | Viva la sposa. | |
Florindo. |
Beatrice. Viva, viva. Siete contenti? (beve)
Ottavio. Maestro di casa?
Brighella. Lustrissimo.
Ottavio. Presto, andate subito a portar un’ambasciata alla marchesina Rosaura. Fatele sapere che tutta la conversazione ha bevuto alla sua salute, e specialmente la contessa Beatrice ha bevuto alla salute di sua nuora.
Beatrice. Io non ho detto...
Ottavio. Subito, subito. Fate l’ambasciata, e non pensate ad altro.
Brighella. La sarà servida. (parte)
Ottavio. Facciamo una cosa. Andiamo tutti a ritrovare la Marchesina. Che dite, signora donna Eleonora?
Eleonora. Per me sono tutti padroni.
Ottavio. Via, signora cognata, andiamo.
Beatrice. Voi mi volete mettere in qualche impegno.
Ottavio. Sì, in un impegno che in due parole si scioglie.
Florindo. Cara signora madre, se mi volete bene, andiamo.
Beatrice. Tu mi vuoi far fare ogni cosa a tuo modo.
Florindo. Via; viene, viene.
Ottavio. Brava, brava, andiamo. Anche voi, signora Baronessa.
Clarice. Io non ho confidenza colla Marchesina.
Ottavio. La contessa Beatrice è vostra cugina.
Eleonora. Se volete venire, mi farete onore. (Verrà a mortificarsi). (da sè)
Clarice. Accetterò le vostre grazie. (Poi le dispiacerà che vi sia andata). (da sè)
SCENA III.
Brighella e detti.
Brighella. Illustrissimo, la signora Marchesina ringrazia tutta sta nobile conversazion per i brindesi che ghe son sta fatti, e principalmente la ringrazia l’illustrissima signora contessa Beatrice del brindese cortesissimo che la gh’ha fatto, degnandose de chiamarla col nome de niora, e la protesta d’esserghe serva devota, e come fia obbediente.
Ottavio. Bravo; questa è un’ambasciata fatta con buonissima grazia. Il mio maestro di casa si porta bene. Che dite, signora cognata, siete contenta dell’espressioni, della Marchesina?
Beatrice. Ha poi ella detto veramente così? (a Brighella)
Brighella. Cussì, da omo d’onor, da mistro de casa onorato.
Ottavio. Fate avvisare la Marchesina, ch’or ora saremo tutti da lei. (a Brighella)
Brighella. Subito la servo. (parte)
Ottavio. Signora Baronessa, favorisca. (offre la mano a Clarice)
Eleonora. Signor Conte, a venir qui ha favorito me.
Ottavio. È vero, non posso disertare. Conte Lelio, servite voi la Baronessa.
Clarice. Qua, qua. Contino, favoritemi voi. (parte col Contino)
Lelio. (Sgarbata! senza civiltà! Mi tratta così, perchè non mi fo mangiare il mio). (da sè)
Ottavio. Via, servite mia cognata. Contessa, andiamo. (parte con Eleonora)
Lelio. Comanda? (a Beatrice)
Beatrice. Mi fa grazia.
Lelio. (Manco male. Da questa posso sperare quel che non posso sperar da quell’altra. In occasione di nozze si faranno de’ buoni pranzi). (parte con Beatrice; Pantalone e Dottore seguono)
SCENA IV.
Camera della marchesina Rosaura.
La Marchesina Rosaura ed il Paggio.
Rosaura. Venite qui, tornate a dire come ha detto il maestro di casa del conte Ottavio.
Paggio. Ha detto così, che il signor conte Ottavio riverisce la signora Marchesina, e le fa sapere che or ora sarà qui con tutta la conversazione.
Rosaura. Anche la signora contessa Beatrice?
Paggio. Non ha detto altro.
Rosaura. Presto, correte, domandategli se viene la contessa Beatrice.
Paggio. Signora sì. (vuol partire)
Rosaura. Sentite, domandategli se viene anche il Contino.
Paggio. Signora sì. (come sopra)
Rosaura. Ehi; sappiatemi dire se vi sono dame.
Paggio. La mi fa girar come un arcolaio15. (parte)
Rosaura. Io non so che cosa voglia dire questa novità. La contessa Beatrice mi ha fatto un brindesi, e ora vengono a ritrovarmi; il matrimonio mio probabilmente sarà concluso. Ne ho d’aver piacere o dispiacere? Eh così, così; mezzo e mezzo.
SCENA V.
Il Paggio e detta.
Paggio. Signora, signora, ho veduto dalla finestra le torce. Sono qui che vengono.
Rosaura. Vi è la contessa Beatrice?
Paggio. Signora sì.
Rosaura. Vi è il Contino?
Paggio. Signora sì.
Rosaura. (È fatta). (da sè) Chi dà mano a mia zia?
Paggio. Il conte Ottavio.
Rosaura. (Carina! sarà contenta che la serve il conte Ottavio). (da sè) Andate; fateli passare.
Paggio. Signora padrona, mi è stato detto ch’ella si fa sposa.
Rosaura. E per questo?
Paggio. Se si fa sposa, voglio sposarmi ancor io.
Rosaura. Di codesta età?
Paggio. Il mio cane si è sposato assai più giovine di me. (parte) Rosaura. Bella semplicità! Ma eccoli che vengono.
SCENA VI.
Conte Ottavio servendo Donna Eleonora, Florindo, Clarice,
Lelio e Beatrice, Dottore e Pantalone.
Ottavio. M’inchino alla Marchesina.
Eleonora. Buona sera, nipotina.
Florindo. Riverisco la mia adorabile Marchesina.
Clarice. Serva divota. Perdonate l’incomodo. La compagnia è stata causa.
Beatrice. Tutti, tutti da voi.
Lelio. Anch’io ho l’onore d’inchinarmi.
Dottore. Viva la signora Marchesina, viva centomila anni16.
Pantalone. Anca mi con tutto el cuor. El cielo la benediga.
Rosaura. Ih, ih, grand’allegria, gran brio! Il conte Ottavio infonde l’allegria in tutti.
Lelio. Sapete chi ci ha infusa l’allegria?
Rosaura. Chi mai?
Lelio. Dieci bottiglie di Canarie squisito.
Rosaura. Oh, non voglio credere che siate spiritosi per questa ragione.
Ottavio. No, ragazza mia, non siamo allegri per questo; abbiamo bevuto da uomini, e non da bestie. Quello che ci fa essere allegri, è la buona compagnia che abbiamo goduta. Una tavola parca e sobria, ma con buona armonia di tutti, e data veramente di cuore. Queste dame gentili, questi cavalieri brillanti, tutto ha contribuito a farci godere una buona giornata. Ma quello che ci colma di giubbilo, ed ora ci presenta a voi col riso sulle labbra, siete voi stessa, adorabile Marchesina. Abbiamo bevuto alla vostra salute. Mia cognata ha detto (testimoni tutti questi signori), ha detto: viva la Marchesina mia nuora. Ecco il contino Florindo, che vi offerisce la mano; ecco la contessa Beatrice, che come figlia vi accetta. Ecco un vostro servo, che onorerete col titolo di vostro zio.
Rosaura. Conte Ottavio, non posso rispondere alle vostre insinuazioni che coll’accettarle. Bacio la mano alla contessa Beatrice, che si degna di accettarmi per figlia. Giuro la mia fede al contino Florindo, e a voi, amorosissimo zio, rendo le più umili grazie, poichè mi ammettete all’onore di essere imparentata con voi.
Beatrice. Marchesina, non so che dire. Se il cielo ha destinato un tal matrimonio, è giusto che si faccia. Se amerete mio figlio, io amerò voi egualmente. (Ho detto di sì, senza avvedermi di dirlo). (da sè)
Rosaura. (Il complimento è curioso, ma non importa). (da sè)
Florindo. Amatissima sposa, vi accetto del più perfetto amor mio, e per assicurarvi della mia fede, vi giuro che non saprò mai distaccarmi dal vostro fianco.
Rosaura. (Troppe grazie). (da sè)
Eleonora. Nipote, mi rallegro con voi. Sarete contenta.
Rosaura. Credo che non anderà molto, che anch’io dovrò rallegrarmi con voi.
Eleonora. Chi sa? Può anch’esser17 di sì: conte Ottavio, vi ricordate del vostro impegno?
Ottavio. Di qual impegno, signora?
Eleonora. Avete promesso manifestare la vostra sposa.
Clarice. Sì appunto. Levateci questa curiosità.
Ottavio. Son galantuomo. Ho promesso, manterrò la parola.
Rosaura. Anche il signor Conte è sposo.
Ottavio. Sì, signora.
Rosaura. Due spose in una casa?
Ottavio. La mia sposa non vi darà fastidio.
Beatrice. Anch’essa vorrà il trattamento da dama, e qualunque ella siasi, compatitemi, signor cognato, è un’imprudenza il farlo.
Ottavio. È un’imprudenza?
Beatrice. Ma voi siete uno stolido? Non parlate? Non dite nulla? (a Florindo)
Ottavio. Via, dite anche voi la vostra ragione. (a Florindo)
Florindo. Io non saprei che dire.
Beatrice. Se non sapete che dire, vi suggerirò io qualche cosa. Dite al signor zio che la nostra casa è in disordine, che i suoi magnifici trattamenti l’hanno precipitata, e che altro non manca che il di lui matrimonio per terminare di rovinarla.
Ottavio. Avete inteso? Animo, dite su. (a Florindo)
Florindo. Ma... Se la cosa fosse così...
Eleonora. Eh, che il nipote non ha da impacciarsi negli affari del zio.
Clarice. Sarebbe bella che il zio avesse a dipendere dal nipote.
Beatrice. Queste due signore si riscaldano. Ognuna aspira a sì gran fortuna. Levatele di pena. Nominate la vostra sposa.
Ottavio. Orsù, vi vo’ dar a tutti questo sì gran piacere. Signor Pantalone, queste dame desiderano ch’io faccia loro conoscere la mia sposa; ho promesso di farlo, ed è giusto che lo faccia. Signore mie, la sposa che ho scelta la sposa ch’io amo, la sposa che ho sposata, sapete chi è? È una società18col signor Pantalone de’ Bisognosi: osservate il contratto delle nostre nozze.
Colla presente Scrittura ecc.
Resta stabilita una Società per dieci anni fra il nobile signor Conte Ottavio Astolfi e il signor Pantalone de’ Bisognosi, avendo posto il primo Ducati 40,000 di capitale, ed il secondo 20,000, acciò sieno questi impiegati in negozio, e l’utile sia a porzione de’ sopraddetti compagni; e perchè il signor Pantalone deve prestar il nome e l’assistenza al negozio, avrà di più sopra gl’intieri utili un dieci per cento.
Avete sentito? Ecco la mia sposa, ecco il mio contratto. In questa maniera si disingannerà chi parla di me con poco rispetto, e perchè mi vede spendere più di quel che rendono l’entrate della famiglia, crede ch’io dissipi, giudica ch’io rovini la casa; ecco la miniera, donde ricavo il modo di mantenere i miei onesti piaceri, senza pregiudizio del patrimonio. La mercatura non disdice ad un cavaliere, ma per ragione dei pregiudizi degli uomini, mi è convenuto trattarla segretamente. Dame mie riverite, vi chiedo perdono della graziosa burla che ho preteso di farvi. Non crediate già ch’io l’abbia fatto per mancanza di stima e di rispetto verso di voi, ma per rendere ameno il vostro divertimento. Io non vo’ moglie. Tratterò tutte egualmente; converserò con chi mi vorrà ammettere alla sua conversazione; ma in avvenire mi guarderò molto bene da dir parole che possano lusingare, mentre ho veduto per esperienza, quanto male possano produrre gli scherzi che si dicono nelle conversazioni.
Clarice. Io per me ho sempre riso delle vostre parole; le ho sempre prese per barzellette, e mi maravigliava di donna Eleonora, che si lusingava che parlaste per lei.
Eleonora. Io? Mi maraviglio di voi. Credete ch’io non conosca il conte Ottavio? Egli è avvezzo a burlare, ed io lo secondava per vedere la bella scena.
Ottavio. Lode al cielo, avendo queste dame perfettamente inteso ch’io scherzava, non ho verun rimorso d’aver loro recata alcuna lusinga. Signora cognata, siete anche voi disingannata ch’io sia la rovina di questa casa, ch’io abbia dilapidato il patrimonio di vostro figlio?
Beatrice. Caro cognato, vi chiedo scusa de’ miei cattivi giudizi, e raccomando a voi l’economia della casa.
Ottavio. Se altri vi sono che pensino come voi, ora resteranno della mia puntualità persuasi.
Lelio. Chi mai volete che pensi sinistramente di voi?
Dottore. Corpo di bacco! Io non posso tacere. Queste facce doppie non le posso soffrire. Sì, voglio parlare. Il signor Lelio è stato il primo a dire che il signor conte Ottavio fa di più di quello che far potrebbe, che è pieno di debiti e che anderà in rovina19.
Lelio. Mi maraviglio, non è vero.
Beatrice. Pur troppo è vero; l’ha detto anche a me, e che siete altiero e superbo.
Ottavio. Ingrato, incivile! Così parlate di chi vi fa padrone della sua tavola? Se fossi in casa mia, vi farei cacciar fuori dell’uscio da’ miei servidori.
Lelio. Ho detto quello ch’io sentiva dire dagli altri.
Ottavio. Ora siete in obbligo di disdirvi.
Lelio. Sì, lo farò, e lo saprete s’io lo farò. Intanto vi chiedo scusa, e nella vostra casa non ardirò mai più metter20 piede. (parte)
Ottavio. Gente perfida! gente indiscreta! Ma non facciamo che un uomo tristo turbi il sereno della nostra pace. Abbiamo a terminare la sera con allegria. In casa mia ho ordinata una piccola festa di ballo. Ora la sposa potrà venire. Donna Eleonora la condurrà.
Eleonora. Vi prego a dispensarmi, mi duole il capo.
Ottavio. Verrà con mia cognata e colla baronessa Clarice.
Clarice. Vi rendo grazie, ho premura di ritornare a casa.
Ottavio. Eh via! Che sono queste malinconie? Abbiamo riso tutto il giorno; vogliamo ridere ancor la sera. Via, cara damina, venite. (a Clarice) Via venite, o mia mezz’età. (ad Eleonora) Presto, andiamo. Florindo, date mano alla sposa. Andiamo un poco a ballare.
Eleonora. Non posso dir di no.
Clarice. Il conte Ottavio fa far le donne a suo modo.
Beatrice. Marchesina, andiamo.
Rosaura. Eccomi tutta lieta e contenta.
Ottavio. Andiamo a divertirci, andiamo a godere di quel bene che il cielo e la fortuna ci danno. Goder il mondo onestamente, con buona allegria, senza offender nessuno, senza macchine e senza mormorazioni, è quella vita felice, che costituisce il Cavalier di buon gusto.
Fine della Commedia.
Note
- ↑ I lumi. [nota originale]
- ↑ Or ora. [nota originale]
- ↑ Bett. ha solamente: El mistro de casa passà.
- ↑ Prendeva. [nota originale]
- ↑ Bett.: el chiappa su.
- ↑ A svegliare. [nota originale]
- ↑ Fa il mezzano. [nota originale]
- ↑ E sapete. [nota originale]
- ↑ Guattero. [nota originale]
- ↑ Bett.: Ai vol alter che caffè a smorzar al fugh. Ai voi d’l’acqua, Pantalon.
- ↑ Bett.: Ve ne avete a male?
- ↑ Bett.: faressimo.
- ↑ Bett.: Ma che?
- ↑ Segue nell’ed. Bett.: «Tutti. Evviva. Ott. Evviva la sposa di mio nipote. Tutti. Evviva».
- ↑ Bett.: un trottolo.
- ↑ Bett.: Evviva la signora Marchesina, evviva.
- ↑ Bett.: anche darsi.
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: mercantile.
- ↑ Bell.: Corp del diavel, an pass laseir. Sti muslazz da do fazz an ai pass veder. A vui parlar. El sgnor cont Lelio l’è stà al prem a dir ch’el cont Ottavio fa più d’quel che al pol, ch’l’è pen de debit e che l’anderà in arveina.
- ↑ Bett.: poner.