Il burbero di buon cuore/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Angelica, Valerio, Marta.
Angelica. Di grazia, Valerio, lasciatemi; partite... Ah! se fossimo sorpresi...1
Valerio. Cara Angelica, ancora un istante...2
Marta. (A Valerio) Partite, partite.
Valerio. Vado subito, non temete; ma se potessi almeno assicurarmi...
Marta. Di che?
Valerio. (Accennando Angelica) Del suo amore, e della sua costanza.
Angelica. Caro Valerio, potete voi dubitarne?
Marta. Andate, andate; ella vi ama anche troppo.
Valerio. Quest’è l’unico bene, che mi può render felice.
Marta. Partite, che se il mio padrone giungesse...
Angelica. Non sono mai così di buon’ora.
Marta. Sì, è vero; ma la sua camera non è lontana, e sorte spesso, e viene qui in sala a passeggiare, a giocare; non vedete là il suo scacchiere? Se vi trovasse qui, oh cielo! voi sareste l’uno e l’altro perduti.
Valerio. Non lo credo poi sì irragionevole....3
Marta. Avete mai parlato con esso lui? conoscete voi il suo carattere, il suo naturale?
Valerio, No, per dir il vero non gli ho mai parlato, so ch’era amico di mio padre, so che si trovavano spesso insieme; ma io non mi ci sono mai incontrato.
Marta. (Corre ad osservar alla porta se qualcheduno viene, e ritorna) Il signor Geronte è un uomo singolare, singolarissimo, di cui non si trova forse il compagno, è buono, generoso, del miglior cuore del mondo, ma altrettanto aspro e difficile.
Angelica. Oh! quest’è il suo vero ritratto4; per esempio, dice d’amarmi, so che mi vuol bene, ma quando lo vedo, quando mi parla, mi fa tremare da capo a piedi.
Valerio. Ma che vi resta a temere? Voi non avete nè padre, nè madre; vostro fratello dispone di voi; egli è mio amico; io gliene parlerò.
Marta. E voi vi fidereste del signor Leandro?
Valerio. Perchè no? Potrebbe egli negarmela?
Marta. Ho delle ragioni per credere, che vi sarebbe da lui negata.
Valerio. Come? è possibile?
Marta. Uditemi. In quattro parole, (torna ad osservare alla porta) Un mio nipote, giovine di studio del procuratore del signor Leandro, mi ha detto cose terribili sul conto suo; mi ha tutto detto, ma sotto la promessa fattagli, e quasi quasi con giuramento di non parlare, onde badate bene, non mi tradite, che non vorrei passare per una ciarliera.
Valerio. Non ne dubitate.
Angelica. Voi mi conoscete.
Marta. (Parlando a bassa voce a Valerio ed Angelica, avendo sempre l’occhio alla porta di Geronte) Il signor Leandro, il signor Dalancour, (un poco caricato) è un uomo rovinato, ha perduto il credito, ha consumate tutte le sue facoltà, e forse quelle ancora di sua sorella, e non potendo darle la dote, fuggirà le occasioni di maritarla.... e per dirvi tutto (ad Angelica) con ingenuità, con sincerità, con vera amicizia, ho inteso parlare in
maniera, che mi fa credere.... Che credere? parliamo schietto. So che si pensa a mettervi in un ritiro 5
Angelica. Oh, cielo! cosa mi dite voi?
Valerio. Come? è possibile? Io conosco Leandro da molto tempo; io l’ho sempre trovato saggio, ragionevole, onesto, qualche volta un poco vivo ed ardente; ma....
Marta. Un poco vivo? un poco ardente? Dite ardente e vivo quasi quanto suo zio. Se lo somigliasse almeno anche nelle parti buone, pazienza; ma è lontano centomila miglia6 dalla maniera sua di pensare.
Valerio. Ma voi sempre più mi sorprendete. Leandro è amato e stimato generalmente; so che suo padre era di lui contento.
Marta. È vero; pareva, anni sono, un buon giovinastro; ma dopo che si è maritato, è diventato un altro.
Valerio. Sarebbe forse la moglie....
Marta. Precisamente, credo che tutto il male venga da lei. Il signor Geronte è sdegnato contro suo nipote non per altra cagione, che per la sua condiscendenza per le fantasie della signora Costanza, e... non so niente, ma giocherei che viene da lei il progetto del ritiro.
Angelica. Mia cognata! che mi dimostrava tanta amicizia? Non l’avrei mai creduto.
Valerio. Ella è d’un carattere sì dolce.
Marta. Fu per l’appunto quello zucchero e quel miele che hanno infatuato il marito.
Valerio. Io che la conosco particolarmente, non posso assolutamente crederlo.
Marta. Ditemi un poco, signor conoscitore, signor politico, pare ella agli occhi vostri una delle donne le più ritirate? Vi sono mode ch’ella non sia la prima ad usarne? Vi sono balli, spettacoli, divertimenti, a’ quali non comparisca ella la prima?7
Valerio. Ma suo marito è sempre con lei.
Angelica. È vero, mio fratello non si scosta mai dal suo fianco.
Marta. E bene! sono pazzi l’uno e l’altra, e si rovinano insieme.
Valerio. Cosa... cosa incomprensibile!
Marta. Orsù, signor incomprensibile, partite; voi dovevate essere partito un’ora fa, ed è veramente incomprensibile ch’io vi abbia sofferto, e che vi abbia detto tutte quelle cose, che senza volerlo mi sono uscite di bocca.
Valerio. Veramente tutto quel che m’avete detto...
Marta. Sento gente... vien gente... partite.
Valerio. (In atto di partire) Mia cara Angelica...
Marta. Voi mi fareste venir la rabbia, (spinge Valerio, ed egli parte8)
SCENA II
Angelica, Marta.
Angelica. Infelice ch’io sono!
Marta. (Guardando verso la porta) E vostro zio. Eccolo lì, non ve l'ho detto?
Angelica. Io me n’andrò.
Marta. No, restate, parlategli, scopritegli il vostro cuore, la vostra passione, la vostra inclinazione.
Angelica. Non ho coraggio. Lo temo come il fuoco.
Marta. Datevi animo; lo conoscete, sapete che vi vuol bene.
Angelica. Voi siete da sì lungo tempo con lui; voi avete la sua confidenza, voi potete parlargli quanto volete; di grazia, parlategli voi per me.
Marta. No no; è meglio che gli parliate voi stessa. Tutto quello ch’io posso fare è annonciarvi, presentarvi, e disporlo ad ascoltarvi pazientemente.
Angelica. (In atto di partire) Sì, sì, ditegli qualche cosa, io gli parlerò in appresso.
Marta. Ma non partite.
Angelica. Chiamatemi occorrendo; non sarò lontana. (si ritira)
SCENA III.
Marta sola.
Povera fanciulla! È amabile veramente, ed interessante; io l’ho veduta nascere, l’ho sempre amata, e vorrei vederla contenta. Eccolo. (vedendo venire Geronte)
SCENA IV.
Geronte, Marta.
Geronte. (Non facendo attenzione a Marta) Picard. (chiamando)
Marta. Signore...
Geronte. Cercate Picard; ho bisogno di lui.
Marta. Sì, signore; ma, potrei dirvi una paro...
Geronte. (Chiamando forte) Picard! Picard!
Marta. (Chiamando forte, e con collera) Picard! Picard!
SCENA V.
Geronte, Marta, Picard.
Picard. (A Marta, con vivacità) Eccomi, eccomi.
Marta. (A Picard, un poco alterata) Il vostro padrone...
Picard. (A Geronte) Son qui, signore, eccomi qui.
Geronte. Va’ a cercare Dorval, e se lo trovi in casa, o altrove, digli che l’aspetto per giocare una partita agli scacchi.
Picard. Sì, signore, ma...
Geronte. Che?
Picard. Ho una commissione...
Geronte. Commissione? Di che?
Picard. Vostro nipote...
Geronte. (Con impazienza) Va’ a cercare Dorval.
Picard. Vado, ma il signor Leandro vorrebbe parlarvi.
Geronte. Va’ subito, spicciati, non impazientarmi.
Picard. Che uomo! che testa! che carattere! (parte)
SCENA VI.
Geronte, Marta.
Geronte. (Amicinandosi alla tavola) Mio nipote!... Il signor Dalancour! Sciocco, vano, imprudente! La sua condotta m’irrita... non posso soffrirlo, non vo’ ch’ei venga a turbare la mia tranquillità.
Marta. (Da sè) (Eccolo già di cattivo umore).
Geronte. (Seduto e esaminando ì pezzi dello scacchiere) Quel colpo d’ieri!... Quel colpo d’ieri! Come mai posso aver perduto la partita con un gioco ch’io avea sì ben disposto? Non può esser stato che una distrazione; vediamo un poco... non ho dormito in tutta la notte.
Marta. Signor padrone, m’è permesso di dirvi due parole?
Geronte. (Occupandosi nella disposizione de’ pezzi dello scacchiere) No.
Martuccia. No! eppure avrei qualche cosa d’interessante da comunicarvi.
Geronte. E bene! che cosa hai a dirmi? Spicciati.
Marta. Vostra nipote, la signora Angelica, desidera di parlarvi.
Geronte. Non posso riceverla... non ho tempo.
Marta. Bellissima! È cosa di grande importanza quella che state facendo?
Geronte. Signora sì, madonna sì, per me è di grande importanza, grandissima. Io mi diverto di rado, ma quando mi diverto, non voglio che nessuno venghi a rompermi il capo; hai capito?
Marta. Quella povera figlia!...
Geronte. Che cosa le è accaduto di male?
Marta. La vogliono mettere in un ritiro.
Geronte. (Alzandosi) In un ritiro? mia nipote in un ritiro! Disporre di mia nipote senza parteciparmelo, senza il mio consentimento?
Marta. Voi sapete a poco presso in qual disordine si trovano gli affari del signor Leandro.
Geronte. Io non entro nei disordini di mio nipote, e molto meno nelle pazzie di sua moglie; egli ha le sue rendite; che le consumi, che si rovini, io lo abbandono alla sua stolidezza, alla sua vanità; ma per mia nipote! Io sono il capo della famiglia, io sono il padrone, e tocca a me a darle stato.
Marta. Voi mi consolate, sono estremamente contenta di vedervi con tanto calore prender il partito di questa giovane, che ben lo merita per la sua bontà, e per la sua saviezza.
Geronte. Dov’è Angelica?
Marta. E qui nell’anticamera, ed attende il momento...
Geronte. Che venga qui.
Marta. Ella lo desidera, ma...
Geronte. Che?
Marta. Ella è timida.
Geronte. E bene!
Marta. Se voi le parlate...
Geronte. (Con impeto) Convien ben che le parli.
Marta. Sì; ma quel vostro tuono di voce...
Geronte. La mia voce non ha mai fatto male a nessuno; che venga, che confidi nel mio cuore, e che non badi al suono della mia voce.
Marta. Sì, è vero, vi conosco, siete buono, umano, caritatevole, ma di grazia non intimorite questa povera innocente; parlatele dolcemente.
Geronte. Sì... le parlerò dolcemente.
Marta. Me ne date parola?
Geronte. Te lo prometto.
Marta. (In atto di partire) Non ve lo dimenticate.
Geronte. (Inquietandosi) No.
Marta. Sopra tutto, non v’impazientate....
Geronte. (Con collera) Non ti detto di no?
Marta. (In atto di partire) Io tremo per Angelica. (parte)
SCENA VII.
Geronte solo.
Sì, non ha torto; mia nipote è giovine, è timida, tutto le fa paura, la tratterò con dolcezza!
SCENA VIII.
Geronte, Angelica in qualche distanza.
Geronte. Avvicinatevi.
Angelica. (S’avanza un poco) Signore...
Geronte. (Un poco più forte) Accostatevi.
Angelica. (Sì avanza un passo con timidezza, e non parla.)
Geronte. (Con veemenza) Come volete ch’io vi parli, se siete un miglio lontana da me?
Angelica. (S’avvicina tremando) Scusate.
Geronte. (Con dolcezza) Che cosa avete voi a dirmi?
Angelica. Marta non vi ha detto qualche cosa di me... e di mio fratello?,..
Geronte. (Alterandosi a poco a poco) Sì, ella mi ha parlato di voi, mi ha ha parlato di quello stordito, che si lascia condurre da una donna imprudente, per causa della quale si è rovinato, si è perduto, ed arriva persino a mancare a me di rispetto!
Angelica. (Ritirandosi per timidezza.)
Geronte. (Con veemenza) Dove andate?
Angelica. (Tremante) Signore, voi siete in collera...
Geronte. Che cosa v’importa! Se sono adirato contro uno sciocco, non lo sono con voi. Accostatevi, parlate, e non temete della mia collera.
Angelica. Caro il mio zio, non oserò parlarvi, se non vi vedo calmato.
Geronte. (Da sè) (Che pazienza!) (ad Angelica, sforzandosi di cambiar tuono) Ecco, ecco sono tranquillo, parlate.
Angelica. Signore... Marta vi avrà detto...
Geronte. Io non do ascolto alle parole di Marta, voglio saperlo da voi medesima.
Angelica. (Con timore) Mio fratello...
Geronte. (Contrafacendola) E bene! vostro fratello?
Angelica. Vorrebbe mettermi in un ritiro.
Geronte. Andereste volentieri in un ritiro?
Angelica. Ma, signore...
Geronte. (Con calore) Parlate.
Angelica. Non istà a me a decidere.
Geronte. (Con maggior forza) Io non dico, che voi decidiate; ma voglio sapere la vostra volontà.
Angelica. Signore, voi mi fate tremare.
Geronte. (Fra sè) (Mi farebbe crepar di rabbia), (ad Angelica, contrafacendosi) Avvicinatevi; capisco che voi non amate il ritiro, non è egli vero?
Angelica. Veramente non l’amerei moltissimo.
Geronte. Quale sarebbe lo stato che voi scegliereste?
Angelica. (Con timidezza) Non saprei...
Geronte. Non vi sgomentate, sono tranquillo, parlatemi liberamente.
Angelica. (Fra sè) (Ah! se avessi un po’ più d’arditezza!)
Geronte. Vorreste voi maritarvi?
Angelica. (Modestamente) Signore...
Geronte. (Con calore) Sì, o no?
Angelica. (Imbarazzata) Ma... Signore...
Geronte. (Con più forza) Sì, o no?
Angelica. (Tremante) Sì, signore.
Geronte. (Con vivacità) Ah! ah! volete maritarvi? Perder la libertà, la tranquillità? (bruscamente) Vi mariterò.
Angelica. (Fra sè) (Questa volta la sua collera non mi dispiace).
Geronte. (Bruscamente) Avete voi qualche inclinazione?
Angelica. (Fra sè) (Se avessi coraggio, gli parlerei di Valerio).
Geronte. (Con vivacità) Che? Avreste voi un amante?
Angelica. (Da sè) (Questo non mi pare il momento. Farò che gliene parli la donna di governo).
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Geronte. (Con la stessa vivacità) Finiamola; la casa che abitate, le persone colle quali vivete vi hanno forse offerta l’occasione di qualche genial conoscenza? Voglio sapere la verità. Sì, vi farò del bene, ma a condizione che lo meritiate. Intendete?
Angelica. (Tremante) Sì, signore.
Geronte. (Sempre con vivacità) Parlatemi con sincerità, francamente, avete voi qualche inclinazione?
Angelica. (Esitando, e tremante) Ma... non signore... non ne ho alcuna.
Geronte. Bene, penserò io a ritrovarvi un marito.
Angelica. (Da sè) (O cielo!... non vorrei...) (a Geronte) Signore...
Geronte. Che?
Angelica. Voi conoscete la mìa timidezza.
Geronte. Sì sì, la vostra timidezza! Conosco le donne; ora siete una colomba, quando sarete maritata, diverrete un dragone.
Angelica. Ah signor zio, giacchè siete sì buono...
Geronte. Non troppo.
Angelica. Permettetemi di dirvi...
Geronte. (Avvicinandosi al tavolino) Dorval non si vede!
Angelica. Una sola parola...
Geronte. Tutto è detto, andate.
Angelica. (Fra sè. partendo) (Eccomi più imbarazzata che mai!) Ah! spero che la mia cara Marta verrà in mio soccorso. Finirà ella l’opera ch’io ho sì mal principiata).
SCENA IX.
Geronte solo.
È una buona figliuola, io mi sento disposto a giovarle. Se avesse avuto qualche genio innocente, qualche prevenzione per un soggetto che lo meritasse, avrei cercato di contentarla; ma non avendo alcun attaccamento, vedrò... penserò... Che fa Dorval, che non viene? Muoio di volontà di rimettere il gioco com’era, e di scoprire il fallo che mi ha fatto perdere la partita;
frattanto che Dorval arriva, vediamo un poco. Ecco la disposizione de’ miei pezzi, ecco quelli di Dorval. Io pongo il re alla casa della sua torre, Dorval pone l’alfiere alla seconda casa del suo re. Io... scacco; e prendo la pedina... ha egli preso l’alfiere Dorval? Sì, l’ha preso, e io... doppio scacco col mio cavallo. Per bacco! Dorval ha perduta la regina. Ei avanza il re, io prendo la regina. L’uomo accorto, che si crede maestro, col re ha preso il mio cavallo; ma peggio per lui, eccolo nella rete, è impegnato col re; ecco la mia regina, sì, eccola: scacco matto; la cosa è chiara, evidente, scacco matto, la partita è guadagnata...9 Ah! se Dorval venisse, gli farei vedere... (chiama) Picard.
SCENA X.
Geronte, Leandro.
Leandro. (Da sè) (Mio zio è solo... se volesse ascoltarmi...)
Geronte. Aggiusterò il gioco com’era prima, (chiama ad alta voce) Picard.
Leandro. (A Geronte) Signore...
Geronte. (Credendo di parlare a Picard) E bene! Hai ritrovato Dorval?
SCENA XI.
Geronte, Dorval, Leandro.
Dorval. (Entra per la porta di mezzo, e dice a Geronte) Eccomi, amico, eccomi.
Leandro. (Con risoluzione a Geronte) Mio zio.
Geronte. (Voltandosi s’avvede di Leandro, s’alza con impeto rovesciando la sedia, e sorte per la porta di mezzo senza parlare.)
SCENA XII.
Dorval, Leandro.
Dorval. (Sorridendo) Che cos’è questo?
Leandro. (Con trasporto) È un tratto di vivacità incomprensibile; sono io l’oggetto della sua collera, e di queste sue ridicole convulsioni.
Dorval. (Sorridendo) Conosco l’amico Geronte.
Leandro. Sono mortificato per voi.
Dorval. Veramente sono arrivato in un momento critico.
Leandro. Compatite di grazia.
Dorval. (Ridendo) Oh! lo sgriderò, lo correggerò.
Leandro. Ah! caro amico, non vi è che voi, che possa essermi utile verso di lui.
Dorval. Lo desidererei con tutto il cuore, ma...
Leandro. Convengo che mio zio abbia ragione di farmi qualche rimprovero; ma se vedesse internamente il mio cuore, son certo che m’accorderebbe il suo compatimento.
Dorval. Sì, vi conosco, e credo che si potrebbe sperar molto da voi, ma la signora Dalancour...
Leandro. (Riscaldandosi un poco) Voi non conoscete mia moglie, e v’ingannate sul di lei conto, come mio zio e molti altri s’ingannano; convien ch’io le renda giustizia, e vi dica il fatto com’è. Costanza ignora perfettamente i disordini in cui si trovano gli affari miei. Ella mi ha creduto più ricco di quel che sono, le ho sempre nascosto lo stato mio, ci siamo maritati assai giovani, non le ho mai lasciato tempo di desiderare, di dimandar cosa alcuna, l’ho sempre prevenuta in tutto quello che poteva farle piacere, e da ciò è derivata la presente mia situazione.
Dorval. Contentar una donna? Prevenire i suoi desideri? L’impresa è considerabile.
Leandro. Sono sicurissimo, che s’ella avesse saputo lo stato vero delle mie facoltà, avrebbe ella medesima resistito alle spese superflue, che a suo riguardo io faceva.
Dorval. Una moglie saggia e prudente... Leandro, (Con calore) Eh! una giovine di diciotto anni...
Dorval. (Sorridendo) Povero Dalancour!...
Leandro. Che?
Dorval. Io vi compiango.
Leandro. Vi burlereste di me?
Dorval. No, ma voi amate prodigiosamente vostra moglie.
Leandro. (Un poco alterato) Sì, l’amo, l’ho sempre amata, l’ho sempre stimata, e l’amerò e la stimerò sin ch’ io viva. Conosco il di lei merito, e non soffrirò che le si dieno quelle imputazioni, ch’ella non merita.
Dorval. Adagio, adagio, moderate questa vivacità di famiglia.
Leandro. Scusatemi, ma quando si tratta di mia moglie...
Dorval. Basta così, non ne parliamo più.
Leandro. Ma vorrei che foste persuaso...
Dorval. Sì, lo sono.
Leandro. No, non lo siete.
Dorval. Ma sì, amico, tranquillizzatevi, e credetemi ne son persuaso.
Leandro. Se così è, di grazia interessatevi per noi presso mio zio.
Dorval. Gli parlerò.
Leandro. Quanto vi sarò obbligato!
Dorval. Ma sarà necessario di rendergli qualche conto della vostra condotta. Come posso io giustificarvi d’esservi ridotto sì rapidamente nello stato in cui m’avete detto voi stesso, che vi ritrovate al presente? Non son che quattr’anni, che vostro padre è mancato di vita; egli vi ha lasciato una eredità pingue e lucrosa. Come avete fatto in sì poco tempo a distruggerla?10
Leandro. Mille combinazioni, mille accidenti si sono succeduti in mio danno. Gli affari miei di famiglia cominciavano a vacillare. Ho creduto di rimediarvi, ed il rimedio mi è riuscito peggior del male; ascoltai de’ progetti, m’interessai in varie imprese, ipotecai le mie rendite, e tutto andò in perdizione.
Dorval. Progetti nuovi! Intraprese dubbiose! Oh quanti si sono per questa via rovinati!
Leandro. Ed io lo sono senza risorsa.
Dorval. Perdonatemi, vi siete condotto male; tanto più che avete una sorella da provvedere e da collocare.
Leandro. Certamente converrà cercar di darle uno stato.
Dorval. Tutti i giorni ella cresce in bellezza, e in casa vostra vi è spesso conversazione; vi vengono persone d’ogni età, d’ogni sesso, e la gioventù, amico... Voi m’intendete senza ch’io ne dica di più.
Leandro. Precisamente per questi riguardi, sino che mi riesca di rimediare a’ miei guai, ho pensato di collocare Angelica in un ritiro.
Dorval. Ciò non sarebbe che bene; ma ne avete voi fatto parte a vostro zio?
Leandro. No, perchè non vuol vedermi, perchè non vuol ascoltarmi; ma spero che voi coll’occasione che gli parlerete di me, avrete la compiacenza di parlargli di Angelica, e del mio progetto.
Dorval. M’impiegherò volentieri per una cosa, e per l’altra. Se vostro zio non è sortito di casa...
Leandro. Vediamo. (chiama) Picard.
SCENA XIII.
Leandro, Dorval, Picard.
Picard. Signore.
Leandro. Mio zio è egli sortito?
Picard. Non signore, è in giardino.
Leandro. In giardino! A quest’ora?
Picard. Quest’è il suo solito; quando ha qualche cosa per la testa, che l’infastidisce, va a prender aria in giardino.
Dorval. (In atto di partire) Vado a raggiungerlo.
Leandro. No, conviene lasciarlo calmare, e attendere un miglior istante11.
Dorval. E se sorte? e se non rimonta?
Picard. (A Dorval) Scusatemi. Non tarderà a rissalire, conosco il suo naturale, un quarto d’ora gli basta per rimettersi in calma, e sarà ben contento di qui ritrovarvi 12.
Leandro. (A Dorval) Fate che Picard vi conduca nella sua camera, e poiché siete disposto a favorirmi, abbiate la bontà d’aspettarlo.
Dorval. Posso prendermi la libertà d’andar io solo nella camera di Geronte; comprendo quant’è scabrosa la vostra situazione, conviene sollecitare il rimedio. Parlerò, pregherò in favor vostro, ma a condizione, amico...
Leandro. Vi capisco. Non vi pentirete d’esservi interessato per me, vi do parola d’onore.
Dorval. Tanto basta. (entra nell’appartamento di Geronte)
SCENA XIV.
Leandro, Picard.
Leandro. Hai tu trovato il momento per dire a mio zio quel ch’io t’aveva raccomandato di dirgli?
Picard. Sì signore, ho incominciato il discorso, ed egli mi ha voltate le spalle, e non mi dato tempo di continuare.
Leandro. Terribil cosa! Guarda, osserva qual potrebbe essere l’istante favorevole in cui potessi accostarmi a lui; se trovi un’occasione opportuna, vieni ad avvisarmi. Saprò ricompensarti.
Picard. Signor, vi ringrazio della vostra buona intenzione; ma non v’inquietate per me; grazie al cielo, non ho bisogno di nulla.
Leandro. Sei ricco, a quel ch’io sento.
Picard. Non son ricco, ma il mio padrone non mi lascia mancar di niente. Ho moglie, e quattro figliuoli; un servitore come io sono, dovrebbe essere imbarazzato; ma il mio padrone è sì buono, che in casa mia non si sa che cosa sia la miseria, (parte)
SCENA XV.
Leandro solo.
Mio zio è un buon uomo, è benefico, è generoso con chi vuol esserlo... con chi lo merita. Se Dorval giunge a persuaderlo in favor mio... Se potessi lusingarmi d’una assistenza proporzionata a’ miei bisogni! Finalmente la mia terra, i miei beni, non son venduti, non sono che ipotecati; se potessi occultare a mia moglie!... Ah! perchè l’ho io ingannata? Perchè mi sono ingannato io medesimo? Mio zio non è ancor rimontato, non so quando Dorval potrà vederlo e parlargli. Andrò frattanto dal mio procuratore.... quanto mi costano questi passi inutili, che son costretto di fare! Egli mi lusinga, è vero, che malgrado la sentenza, troverà la maniera d’acquistar tempo; ma i raggiri del foro mi sono odiosi, lo spirito soffre, e l’onore è in pericolo. Infelici coloro che hanno di bisogno di tali vergognosi ripieghi13. (in atto di partire)
SCENA XVI.
Leandro, Costanza.
Leandro. (Vedendo venir sua moglie) Ecco mia moglie; vorrei andarmene, ma...
Costanza. Ah! siete qui? Vi ho cercato per tutto.
Leandro. Era sul punto di sortire...
Costanza. (Sorridendo) Mi sono incontrata col burbero... Oh! come gridava! Oh! come strillava!...
Leandro. Intendete voi parlar di mio zio?
Costanza. Sì; ho veduto un poco di sole; andiedi a passeggiare in giardino, e lo vidi che camminava a gran passi, e parlava solo, e forte... Ditemi: ha egli al suo servigio qualche servitore ammogliato?
Leandro. Sì; ne conosco uno.
Costanza. Certamente parlava di lui, parlava contro il marito e la moglie, li maltrattava in una maniera orribile, scandalosa...
Leandro. (Da sè) (Eh capisco bene di chi parlava!)
Costanza. Che uomo insopportabile!
Leandro. Non avete torto; ma conviene avere de’ giusti riguardi verso di lui.
Costanza. Può egli lagnarsi di me? Gli ho mai mancato in alcuna parte? Rispetto la sua età, rispetto in lui un fratello di vostro padre; se qualche volta mi burlo del suo carattere, lo faccio fra voi e me; voi me lo perdonate. Per il resto ho tutti i riguardi per lui; ma ditemi, di grazia, ne ha egli per voi? Ne ha egli per me? Ci tratta assai duramente, ci odia perfettamente, e malgrado a ciò, dovremmo noi coltivarlo, e profondergli i nostri omaggi?
Leandro. Ma... quando noi gli facessimo la corte... è nostro zio, e poi... potremmo aver bisogno di lui.
Costanza. Bisogno di lui! come? Non abbiamo noi modi sufficienti da poter vivere onestamente? Voi siete moderato, prudente; io sono ragionevole; non vi domando di più di quanto avete fatto sin ora, continuiamo colla medesima moderazione, e non avremo bisogno di chi che sia.
Leandro. (Pensoso) Continuiamo colla medesima moderazione!...
Costanza. Sì, io non sono ambiziosa, non desidero niente di più.
Leandro. (Da sè) (Sfortunato ch’io sono!)
Costanza. Ma voi mi sembrate inquieto; avete qualche cosa che vi molesta.
Leandro. No, no, voi v’ingannate, non ho niente di estraordinario.
Costanza. Perdonatemi. Io vi conosco. Voi non siete del vostro solito umore. Se avete qualche cosa che vi disturbi, perchè a me vorreste nasconderla?
Leandro. (Dopo aver esitato) È mia sorella che m’imbarazza. Ecco tutto.
Costanza. Vostra sorella? Perchè mai? Ella è la miglior fanciulla del mondo, io l’amo di tutto cuore. Udite, se voi voleste confidarvi in me, mi darebbe l’animo di liberarvi da questo pensiere, e di rendere Angelica nello stesso tempo contenta.
Leandro. In quel modo?
Costanza. Voi pensate di metterla in un ritiro, ed io so da buona parte, ch’ella ne sarebbe infinitamente mortificata.
Leandro. Nella sua età deve ella disporre di se medesima?
Costanza. No, ella è bastantemente saggia per sottomettersi alla volontà de’ suoi parenti; ma perchè invece non pensate a maritarla?
Leandro. È troppo giovine.
Costanza. Era io men giovane di lei quando ci siam maritati?
Leandro. E bene! deggio io andare di porta in porta per cercarle un marito?
Costanza. Ascoltatemi, e non v’inquietate, vi prego. Parmi, se non m’inganno, essermi accorta che Valerio l’ami, e che egli sia corrisposto.
Leandro. (Da sè) (Oh! quanto mi conviene soffrire!)
Costanza. Voi lo conoscete, vi potrebbe essere per Angelica un partito migliore?
Leandro. (Confuso) Vedremo, ne parleremo.
Costanza. Accordatemi questo piacere, ve lo domando per grazia, permettete ch’io m’interessi in quest’affare, e v’accerto ch’avrò tutta l’attenzione per ben riuscire.
Leandro. (Imbarazzato) Costanza...
Costanza. E bene!
Leandro. Non vi è rimedio, non si può fare assolutamente.
Costanza. No! Perchè mai?
Leandro. Mio zio vi acconsentirà egli?
Costanza. Voglio bene che si rendano a vostro zio tutti gli onori che gli sono dovuti; ma Angelica è vostra rsorella, vive con voi particolarmente, la sua dote è nelle vostre mani; il più ed il meno non dipendono che da voi; lasciate ch’io m’assicuri delle loro intenzioni, e quando tutto sarà concluso, se ne farà parte al vostro rispettabile signor zio.
Leandro. (Con risoluzione) No, no, badate bene di non meschiarvi né poco né molto in quest’affare, che per ora non mi conviene.
Costanza. Come! non vorreste maritare vostra sorella?
Leandro. Sì, ma non per ora.
Costanza. Potrei sapere il perchè?
Leandro. (In atto di partire) Un affare m’obbliga di sortire.
Costanza. (Agitata, e seguendolo) Sarebbe forse per la dote?
Leandro. Non lo so... Non ho altro a dirvi... Ci rivedremo, (parte)
SCENA XVII.
Costanza sola.
Che mai vuol dire!... Da che mai dipende questo suo turbamento, questo suo parlare tronco e confuso? Potrebbe darsi che mio marito!... No, Leandro è prudente, metodico, ordinato, e non può essere che gli affari di famiglia sieno in disordine14.
SCENA XVIII.
Costanza, Angelica.
Angelica. (Senza veder Costanza) Se mi riuscisse di veder Marta...
Costanza. (Chiamandola con tuono d’amicizia) Angelica.
Angelica. (In aria d’esser malcontenta) Signora.
Costanza. (Con amicizia) Dove andate, cognata?
Angelica. (Con aria sdegnosa) Vado... in qualche parte...
Costanza. Mi parete alterata, irritata.
Angelica. Sì signora, lo sono, ed ho ragione di esserlo.
Costanza. Siete sdegnata contro di me?
Angelica. (Col medesimo tuono) Non lo so; ma potrebbe darsi.
Costanza. Ascoltate, figliuola, se è il progetto del ritiro che vi dispiace, siate certa ch’io non ne ho parte alcuna. Io vi amo di cuore, e farò sempre quanto potrò per rendervi soddisfatta.
Angelica. (Da sè, lasciando cader qualche lacrima) (Come sa ben fingere!)
Costanza. Che avete? Voi piangete?
Angelica. (Da sè) (La conosco, non me ne fido).
Costanza. Qual è il soggetto del vostro rammarico?
Angelica. Sono le conseguenze dei disordini di mio fratello.
Costanza. (Con sorpresa) I disordini di vostro fratello?
Angelica. Sì, e niuno può saperlo meglio di voi.
Costanza. Voi mi sorprendete; spiegatevi su quest’articolo.
Angelica. Egli è inutile...
SCENA XIX.
Geronte, Costanza, Angelica.
Geronte. (Entrando per la porta di mezzo chiama) Picard.
SCENA XX.
I sopraddetti e Picard.
Picard. (Sortendo dalla camera) Signore.
Geronte. (A Picard) E bene! Dorval?
Picard. Egli è nella vostra camera, che vi attende.
Geronte. È nella mia camera! E tu non venivi a dirmelo?
Picard. Non ho avuto tempo.
Geronte. (Avvedendosì con dispetto d’Angelica e di Costanza, parla bruscamente all’una, per essere capito dall’altra) Che fate voi qui? Questo è il mio appartamento, questa è la mia sala; qui non voglio donne, non voglio alcuno della vostra famiglia. Andate.
Angelica. (Con timidezza) Mio zio...
Geronte. Andate via, ve l’ho detto.
Angelica. (Parte mortificata.)
SCENA XXI.
Geronte, Costanza, Picard.
Costanza. Signore, scusatemi...
Geronte. (Parlando verso la porta per dove è sortita Angelica, ma volgendosi di tempo in tempo verso Costanza). È singolare! Che impertinenza! Vuol venire a inquietarmi; che stia nel suo quarto, io sto nel mio; là vi è un’altra scala per sortire; si chiuderà quella porta.
Costanza. Non v’inquietate; per me, non ci verrò più.
Geronte. (a Picard) Tu di’ che Dorval è nella mia camera?
Picard. Sì signore.
Geronte. (Vorrebbe andar nella sua camera, ma Costanza si trova fra lui e la porta, ed egli non vorrebbe passare dinanzi a Costanza.
Costanza. (Ritirandosi un poco) Passate, passate, signore, io non ve l’impedisco.
Geronte. (Passando saluta bruscamente Costanza) Servitore.... La farò murar quella porta. (entra nella sua camera seguito da Picard)
SCENA XXII.
Costanza sola.
Che carattere! Che maniera grossolana, incivile; ma non è questo, che cagiona la mia inquietudine! Quel che mi sta sul cuore è l’agitazione di mio marito, sono i propositi d’Angelica. Dubito, tremo, vorrei conoscere la verità, e pavento di rilevarla.
Fine dell’Atto Primo.
- ↑ Così comincia la nota traduzione di Pietro Candoni, edita a Venezia da Agostino Savioli nel 1772 col titolo Il Burbero benefico, o sia il Bisbetico di buon cuore, e ristampata da Antonio Zatta nel t. VIII (1789) delle Opere teatrali del Sig. C. Goldoni: Angelica. Valerio, lasciatemi, ve ne prego. Io temo per me, temo per voi. Ah! Se noi fossimo sorpresi... Valerio. Mia cara Angelica!... Martuccia. Partite, o signore. Val. Di grazia un momento; s’io potessi assicurarmi...". — E quella di Elisabetta Caminer, edita pure a Venezia, dal Colombani, nel t. II (1772) delle Composizioni Teatrali Moderne tradotte, col titolo Il Collerico di buon cuore: Angelica. Lasciatemi, Valerio, ve ne scongiuro. Tremo per me, tremo per voi. Ah! se mai fossimo sorpresi... Valerio. Mia cara Angelica... Martuccia. Partite, signore. Valerio. Di grazia un momento; se potessi assicurarmi....
- ↑ Nel testo: un instante.
- ↑ Manca nel testo originale francese.
- ↑ Anche qui il Goldoni aggiunge a modo suo.
- ↑ Marta è più chiacchierona in questa versione goldoniana.
- ↑ Testo: cento milla miglia.
- ↑ Ecco la versione più fedele del Candoni: "Martuccia. Questa dolcezza fu quella appunto, che ha sedotto suo marito. Val. Io la conosco, e non posso crederlo. Mart. M’immagino, che voi scherziate. Evvi una donna più ricercata di lei nelle sue acconciature? Esce nuova moda, ch’essa tosto non prenda? Vi sono balli, o spettacoli, cui non intervenga la prima?"
- ↑ Si confronti il testo originale francese. Il Goldoni rende qui Marta e Valerio un tantino buffi.
- ↑ Con l’aiuto del testo originale francese correggo un po’ la punteggiatura qui difettosissima.
- ↑ Anche Dorval è qui più loquace che nel testo francese.
- ↑ Testo: instante
- ↑ Nel testo è stampato per isbaglio: di qui ritroverà.
- ↑ Anche qui il Goldoni traducendo ha allungato il testo.
- ↑ L’originale francese è più sobrio.