Il Parlamento del Regno d'Italia/Giuseppe Sappa
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senatore.
Ogni qual volta ci è dato trovar notizie esatte intorno alla vita di taluno dei personaggi di cui ci siamo assunto l’obbligo di compilare la biografia, noi ci facciamo premura di metterci in disparte per dar luogo allo scritto edito o inedito che ci viene comunicato,e ciò per due motivi: 1.° perchè ci piace che il lettore possa in qualche occasione almeno riposarsi colla varietà dello stile e della frase, onde la nostra prosa non gli riesca troppo pesante: 2.° perchè ci riesce gradito di dividere con altri, ogni fiata che lo possiamo, la responsabilità gravissima di giudicare gli uomini e gli avvenimenti contemporanei.
Intorno al barone Sappa, ch’è uno dei piemontesi, a molti titoli ragguardevolissimi, troviamo nel giornale la Sentinella delle Alpi (N. 109 e 114, anno 1858), due articoli biografici che sappiamo veridici e che quindi inseriamo tal quali, riserbandoci ad aggiunger del nostro, quel complemento d’informazioni che potrà condurre l’esistenza ancor verde dell’onorevole senatore fino al momento in cui dettiamo le nostre pagine.
«Fra i deputati — così comincia il primo articolo della Sentinella — di cui a ragione può andar superba questa nostra divisione, non fra gli ultimi al certo si annovera il rappresentante del collegio di Cortemiglia, barone Giuseppe Sappa, il quale nei molti anni che forma parte del nazionale Parlamento, dimostrossi sempre nelle grandi ed importanti questioni, informato a quei principi liberali che presentemente reggono il nostro paese, necessaria conseguenza dei bisogni e del progresso dell’età, dei lumi accresciuti e diffusi, della lotta lungamente sostenuta, e del sangue sparso da tanti martiri della libertà.
«E benchè, in certe quistioni particolari, egli non abbia militato nelle nostre fila, ma in campo contrario, noi siamo lieti offrendo ai nostri lettori questi brevi cenni intorno alla sua biografia, di attestare pubblicamente al deputato di Cortemiglia quell’alta stima che sempre c’ispirano la probità, la retta coscienza e la vera convinzione, anche quando militano non sotto la nostra stessa bandiera, ma anche contro di noi.
«Nasceva Giuseppe Sappa da distinta famiglia, sull’esordire del presente secolo, allorquando le armi della Francia, discese, come dicevasi, a portare la libertà in Italia, l’avevano invece conquisa ed assoggettata, staccando da essa queste nostre province, ed incorporandole in quell’impero che il fortunato Carlo seppe col suo prepotente genio innalzarsi.
«Passati i giovanili suoi anni non in mezzo al fragor delle armi che allora risuonava in tutta Europa, fanciulletto ancora assistette alla caduta di quel grande ambizioso che aveva fatti vacillare quasi tutti i troni del vecchio mondo, al ritorno dell’antico ordine di cose, imposto dai despoti del settentrione e che la storia appella la Ristaurazione.
«I tranquilli studî adunque delle umane lettere che tanto ingentiliscono la mente e il cuore, e quelli delle lingue dotte e straniere, formavano la principale cura del nostro Giuseppe, il quale nell’anno 1827, cominciava la sua carriera negl’impieghi, entrando nel ministero degli affari esteri, ove restò per otto anni.
«Ma nel 1835, il conte Solaro Della Margherita era nominato capo di quel dicastero; acerrimo nemico di liberali, sostegno dei gesuiti e gesuita egli stesso ed austricizzante, odiando tutti, che avendo dignità d’uomo, osavano pensare colla propria testa e sentire col proprio cuore, il novello ministro a cui non piacevano le opinioni politiche del giovine Sappa, e la parentela sua col conte Ferdinando Dal Pozzo, alłora esigliato dal Piemonte come compromesso nei luttuosi avvenimenti del 1821, propose al re di allontanare il nostro Giuseppe dal ministero, di collocarlo cioè in aspettativa, finchè venisse col tempo destinato ad altro impiego. Ma re Carlo Alberto, il quale, quando non subiva l’influenza di consiglieri malvagi, ed interessati al progresso di un partito, era di animo non perverso, poco dopo volle che il Sappa percorresse la sua carriera e lo destinava a segretario aggiunto del Consiglio di Stato.
«Nel 1843 fu nominato intendente generale delle regie finanze in Sardegna, carica allora importantissima, perchè comprendeva l’amministrazione di tutta l’isola.
«Sullo scorcio del 1847, essendosi fusa l’amministrazione della Sardegna con quella delle province continentali che prima era staccata e distinta, l’isola di Sardegna fu divisa in più divisioni amministrative, il barone Sappa fu nominato intendente generale della divisione amministrativa di Chambery; abbandonando la Sardegna ricevette da quei buoni isolani pubbliche dimostrazioni di affezione e di simpatia, ed il Consiglio civico di Cagliari si riuniva espressamente per conferirgli la cittadinanza di quella capitale dell’isola in contrassegno di gratitudine dell’isola intera.
Ma ugualmente felice non fu la sua missione in Savoja; giunto colà verso la fine del gennajo 1848, in cui maggiormente ferveva in Piemonte l’entusiasmo per la causa nazionale italiana, e la stampa proclamava altamente come confini d’Italia le alpi e il mare, nacque in quegli abitanti della Savoja il sospetto che fosse intendimento del Governo di abbandonare quella parte degli antichi Stati, in compenso dell’ajuto cui potesse somministrarci la Francia, ed acquistare mag gior dominio in Lombardia, e supponevasi che il governatore e l’intendente generale fossero fautori e agenti di tali progetti.
«Allora il geloso affetto dei montanari di Savoja per l’antica dinastia si destò più fortemente; il sospetto di essere abbandonati dai loro duchi si accrebbe maggiormente quando la causa italiana e la santa guerra che si combatteva in Lombardia, rendendo necessario un esercito poderoso, le truppe di presidio vennero interamente ritirate, e si lasciò la difesa dello Stato e dell’ordine alla milizia cittadina. In Savoja, specialmente in Chamberi, vi era un partito che subiva l’influenza repubblicana della vicina Francia, tanto più che si era stabilito un centro di propaganda nella vicina Lione; il quale era in comunicazione coi repubblicani di Savoja, che alla lor volta eccitavano maggiormente il malcontento, che il dubbio ed il sospetto avevano destato in quell’antico retaggio dei principi sabaudi. Intanto da Lione venivano segreti avvisi, che bande organizzate avrebbero invaso il ducato di Savoja e vi avrebbero proclamato la repubblica.
«Infatti il giorno 3 aprile nel 1848 le bande lionesi, che sono conosciute col nome di voraces, entrarono nella capitale del ducato portandovi la rivolta, la quale non durò che 22 ore, poichè, mentre l’intendente generale e il comandante che avevano radunati soldati ed artiglieria, si mettevano in cammino per iscacciare quegli audaci invasori, la buona popolazione di Chambery per mezzo di una reazione, fece da sè stessa giustizia, assalì quelle bande disperse nella città o radunate nelle caserme.
«Dopo questo fatto, com’è naturale, incominciarono le recriminazioni, le accuse dell’una e dell’altra parte, quindi si sollevarono molte ire contro il governatore e l’intendente generale, per cui il governo giudicò prudente il destinare l’uno e l’altro ad altri uffici. Ma un fatto tanto importante non poteva a meno di occupare la stampa periodica, la quale esordendo allora nella vita libera spiegava tutto lo zelo dei neofiti e raccogliendo tutte le impressioni momentanee della pubblica opinione, faceva purtroppo segno di molte censure uomini, la cui fama illibata ee vita esemplare non avrebbero mai dovute esser tratte in piazza.
«A queste ingiurie l’intendente ed il governatore opposero il silenzio, perchè così consigliati dal Governo; però essendosi pubblicata, per incarico del Consiglio comunale di Chambery, una relazione sugli avvenimenti di Savoja, relazione che si aveva ragione di credere non troppo esatta, il barone Sappa pubblicava del canto suo un opuscoletto, in cui si contengono alcune osservazioni intorno a quei fatti, molto giuste e temperate non solo, ma appoggiate ad ufficiali documenti. Più tardi in risposta ad un discorso pronunciato nella Camera dei deputati, dal deputato Mollard, inserì un articolo sul giornale La Nazione, nel quale dopo aver respinta le accuse che a lui si facevano, con molta dottrina istorica, discute e pone in luce la condizione di quei tempi e la causa dei movimenti dell’antico ducato di Savoja.
«Intanto la vittoria accompagnava il vessillo tricolore in Lombardia, e favorevole la fortuna sorrideva alle armi nostre che avevano varcato il confine, affine di porre un glorioso termine a quella giusta guerra che i patriotti di Lombardia avevano con tanto coraggio e sì bene incominciata contro l’oppressore della patria italiana. Ritiratosi l’esercito austriaco oltre il fiume Adige e rimaste le province lombarde e i ducati di Parma e Piacenza, padroni di sè con un atto, che chiaramente dimostra la tendenza all’unione che la moderna civiltà destò nelle diverse nazioni, facevano spontanea adesione al Piemonte, come ad un capo forte intorno a cui dovevano adunarsi le sparte membra della nazionalità italiana. Avesse voluto il cielo che l’esito avesse corrisposto all’ardimento ed alla santità dell’impresa, almeno che dopo i disastri di Custoza e Novara gli uomini che salirono al timone della cosa pubblica in Piemonte non avessero messo in non cale è quasi deciso un atto che la storia di quei tempi non tralascierà di considerare come un effetto degli studi dei passati errori, e sventure, e foriero di più lieti destini ai divisi italiani! Oh allora si sarebbero risparmiate molte recriminazioni ed accuse dall’una e dall’altra parte, naturale effetto di un’impresa che sortì esito infelice.
«Nel maggio adunque del 1848 il commendatore Colla, controllore generale, ed il barone Sappa, andavano a prender possesso a nome del Piemonte del ducato di Piacenza, il quale, come abbiam detto, aveva fatto atto d’adesione al nostro Stato, ed essendo stato in seguito mandato il commendatore Colla a Parma per lo stesso oggetto, il barone Sappa restò al governo di Piacenza, finchè questa città per la sorte delle armi ricadde di nuovo in mano degli Austriaci, i quali occuparonla.
«Partiva allora il rappresentante del Piemonte, ma lasciava in Piacenza buona ed onorata ricordanza del suo nome e del suo governo, e più forte desiderio in quei cittadini d’essere strettamente congiunti allo stato Sardo rappresentante del principio nazionale.
«Ritornato in patria, nel 1849, sotto il ministero Perrone, fu chiamato dal ministro Pier Dionigi Pinelli a compiere le funzioni di primo ufficiale al ministero degl’Interni, e poco dopo fu nominato consigliere di Stato. Ma nelle elezioni generali della Camera dei deputati, che ebbero luogo verso la fine dello stesso anno 1849, egli venne eletto a deputato di tre collegi, cioè di Canale, di Nuoro, e di Frili, stupendo attestato di confidenza di cui può ben andare superbo, poichè tanta parte di popolo lo credette degno di rappresentarlo. Esito per Canale e da quel momento comincia la vita politica del barone Sappa, il quale in un indirizzo di ringraziamento ai suoi elettori, in luce pose i principi politici di cui era informato, e che egli sempre segui ogni qual volta questioni gravi si fossero presentate sia d’esterna ed interna politica, sia d’amministrazione.
«Non è nostro scopo di discutere in questi brevi cenni sulla vita dei deputati e senatori della nostra divisione delle diverse gradazioni di colori politici, ma seguendo il programma del giornale, segnare quali appartengono alla fila dei liberali, quali alle retrive; e fra i liberali non dubitiamo di annoverare il deputato di Cortemiglia, il quale dichiarava nel succitato indirizzo che: la missione della legislatura era quella di porre in atto fra noi, il vero sistema della monarchia rappresentativa e svolgere tutti quei sociali meglioramenti di cui è fecondo lo Statuto.
«Dal dicembre del 1849 a questa parte il barone Sappa fece sempre parte della rappresentanza nazionale, prima come deputato di Canale, in seguito come eletto dal collegio di Cortemiglia; ed in questo alto ufficio egli adoperò in vantaggio dello Stato il suo ingegno e le cognizioni che aveva collo studio e col l’esperienza acquistate.
«Come pubblico funzionario ebbe dal Governo straordinarie incombenze, e fece anche parte di diversi consigli (essendo anche presentemente membro del Consiglio speciale per le strade ferrate) e fu nominato presidente del regio manicomio di Torino, ch’è uno dei principali stabilimenti di beneficenza, e, ciò che altamente l’onora, fu in questa qualità tre volte confermato e n’è anche presentemente investito.
«Come deputato fece parte di parecchie commissioni e segnatamente di quella del bilancio, di cui fu più volte il relatore; fra le commissioni incaricate dell’esame di progetti di legge sono a notarsi quelle per l’abolizione delle decime ecclesiastiche e il riordinamento dei tributi dell’isola di Sardegna, e quella per gli assegnamenti da farsi al clero di quell’isola, nelle quali come relatore prese parte grandissima nelle discussioni ch’ebbero luogo alla Camera. Più tardi, coerente ai principi esposti in queste discussioni, votò le riforme ecclesiastiche proposte dal ministero.
«Nella circostanza in cui si trattò dell’alleanza coll’Inghilterra e la Francia per la guerra contro la Russia, il deputato di Cortemiglia votò in favore del trattato; ed essendo stata chiusa la discussione prima che venisse il suo turno di parlare, stampò sul giornale Il Piemonte il discorso che avrebbe pronunciato nella Camera dei deputati, nel quale volle considerare la questione italiana rispetto a noi dal lato dell’equilibrio politico d’Europa.
«Ed a questo stesso suo sistema era informato il di scorso che pronunciava alla Camera in occasione delle discussioni sul trattato di pace stipulato in Parigi il 20 marzo 1856, ed in alcuni articoli di giornali che egli di tanto in tanto pubblicava quando la stampa periodica e la pubblica opinione rivolgeva l’attenzione su quei fatti che avevano fatto nascere tante speranze nelle anime italiane. Nell’ultima sessione della passata legislatura il deputato di Cortemiglia era eletto vice presidente della Camera dei deputati.
«Il 15 novembre 1857 in occasione delle generali elezioni, il paese assistette ad una lotta tra i due partiti liberale e retrivo, in cui il terreno si combattè palmo a palmo, e le armi che si adoperarono non furono sempre nè leali nè generose; non un collegio elettorale in cui non vi fossero di fronte due candidati di diverso colore, non un collegio in cui non si fossero messi in azione tutti i mezzi di che un partito può disporre.
«Gli elettori di Cortemiglia, liberali ed illuminati, furono sordi alle insinuazioni del confessionale e della sagristia e mandarono al Parlamento il loro antico deputato. Stabilita la Camera, l’indignazione del paese pei cattivi effetti che aveva portato l’ingerenza del clero nelle elezioni, e le circolari dei vescovi, si manifestò legalmente per mezzo delle proteste che si mandavano dagli elettori al Parlamento, ch’è il naturale loro protettore contro i novelli eletti.
«Allora la Camera a grande maggioranza stabiliva il principio d’inchiesta, il quale solo poteva restituire alla Camera elettiva quell’autorità e quella confidenza che aveva perduto dal momento che la nazione avesse il sospetto che alcuni deputati non erano la vera e genuina espressione delle idee liberali del paese, ma usciti dall’urna mediante l’influenza di un partito e la pressione religiosa. Or bene, tanto in questa, quanto nella questione dell’esclusione dei canonici dalla Camera, il deputato di Cortemiglia fu tra i pochi liberali che votarono con la destra, e questo forse perchè egli volle considerare la questione con un atto politico come un’osservazione della minorità della Camera, fatta dalla maggioranza per motivi di politica.
«Ad onta di ciò il barone Sappa non appartiene al partito che dicesi conservatore, che se nell’ultima costituzione dell’ufficio della presidenza gli mancarono i voti dei suoi amici liberali, non ebbe però quelli della destra.
«Nell’ultima discussione della legge che restringe la libertà della stampa, egli votava in favore del ministero e della legge da esso proposta.
«Il barone Sappa diresse al redattore del giornale La Sentinella delle Alpi la lettera seguente, a proposito della pubblicazione da esso fatta, lettera che noi crediamo opportuno riprodurre pur anco per intero:
«Torino 18 maggio 1858.
- «Illustrissimo signore,
«Ho letto i due articoli che la redazione di cotesto reputato giornale ha pubblicati intorno alla mia persona: osservata con molta precisione la verità dei fatti, la relazione di essi fu però accompagnata con considerazioni cotanto per me lusinghiere che non posso a meno che tenermene onoratissimo e professarne alla redazione del giornale sincera riconoscenza.
«Mi permetterò tuttavia di osservare che un sol fatto che si riferisce alla mia carriera fu rappresentato con troppa severità non a mio riguardo, ma rispetto ad altra persona. Intendo parlare del mio allontanamento dall’impiego che nel 1835 occupavo nel ministero degli affari esteri.
«Sta di fatto che sin d’allora il conte Solaro Della Margherita era tenuto per avverso ai liberali e partigiano dei gesuiti: è pure vero che senza prorompere in incaute manifestazioni di principi io professava opinioni contrarie alle sue con discreta libertà:: è pur vero che la mia parentela col conte Ferdinando Dal Pozzo, allora esiliato dal Piemonte, misero sospetto al conte della Margherita, che perciò propose al re Carlo Alberto di collocarmi in aspettativa.
«Debbo tuttavia dichiarare, che se non ho potuto a meno di riconoscere nella condotta del conte Della Margherita a mio riguardo un’ingiusta prevenzione, ebbi ciò nullameno non dubbie prove per persuadermi dei suoi buoni uffici presso il Re, alfine di ottenere un altro impiego che fu per me una vera promozione.
«Ciò dichiaro per solo amore di verità, non perchè io intenda compiacere al conte Della Margherita, attualmente deputato esso pure al Parlamento nazionale. Io non faccio parte degli amici politici del conte Della Margherita, n’ho con esso altrimenti relazioni di particolare benevolenza.
Gradisca, o pregiatissimo signor mio, coll’espressione della mia riconoscenza, le proteste della distintissima considerazione con cui ho l’onore, ecc.
«Giuseppe Sappa.
Abbiamo veduto che il barone Sappa prese una parte importante ai lavori dell’antico Parlamento del regno subalpino; ci sembra prezzo dell’opera dare un saggio ai lettori dei discorsi da esso proferiti in occasioni solenni di discussioni riguardanti i più vitali interessi della patria italiana.
«Citeremo quindi alcuni brani di quello ch’egli pubblicò sul Piemonte e che doveva esser da lui tenuto per appoggiare la spedizione di Crimea, quindi riprodurremo gli squarci i più notevoli di un’altra non meno importante orazione ch’ei pronunciò nella circostanza in cui si discuteva nella Camera elettiva intorno al trattato di pace stipulato in Parigi il dì 30 marzo 1856.
«Il chiaro barone cominciava il primo dei due citati discorsi, col dire ch’ei si proponeva di provare che lo Stato era principalmente interessato nella gran lotta di cui si trattava, e che quindi non poteva senza grave pericolo, indugiare a prendere quel partito che gli era comandato dal principio della propria conservazione.
«Per darvi questa dimostrazione, proseguiva a dire l’oratore, mi occorre, o signori, chiamare l’attenzione vostra su parecchi fatti che appartengono all’istoria, dai quali, secondo il mio modo di vedere, sorge una serie di considerazioni che per avventura non furono abbastanza presenti a coloro che sul trattato sinora hanno con tanta facondia ragionata. Dappoi un secolo a questa parte in fondo a tutte le questioni, nelle quali l’Europa fu interessata, si palesò una questione gravissima d’interessi diversi ed estesissimi, la quale si riassume nella lotta di due sistemi, quello continentale e quello che, per antagonismo, chiamasi inglese, cioè quello d’equilibrio.
«Il sistema continentale consiste nell’unione delle principali potenze europee collo scopo di escludere dal continente l’influenza dell’Inghilterra e del suo commercio, e nel combattere così la di lei supremazia sui mari.
«Già sin dal secolo scorso allorchè le provincie inglesi dell’America settentrionale, appoggiate dall’all’alleanza della Francia, alla quale si aggiunse quella della Spagna e dell’Olanda, propugnavano l’indipendenza dalla madre patria, una possente lega delle potenze continentali del nord, che prese la denominazione di neutralità armata, pose l’Inghilterra nella necessità di riconoscere l’indipendenza di quelle sue antiche colonie; e quello fu un primo atto che appartiene al sistema politico cui accenno.
«Ma la rivoluzione francese che scoppiò dopo pochi anni, suscitò poscia tal nembo in Europa per cui diversi altri Stati, compresa l’Inghilterra, si trovarono riuniti dalla preoccupazione dei pericoli che a tutti credevano sovrastare.
«Se non che venuti i destini di Francia sotto il potere del primo Napoleone, intento egli sopratutto a combattere la supremazia marittima della vicina Inghilterra, fece del sistema continentale il perno di tutta la sua politica. Questa politica fu combattuta con ammirabile longanimità e costanza da Guglielmo Pitt, ed il principio opposto sotto il governo dei successori di quel gran ministro, finì per procedere nei trattati del 1814 e del 1815, coi quali fu ricostituito il sistema del così detto equilibrio europeo.
«Obbediva ciò non ostante al principio del sistema continentale il governo del ramo primogenito dei Borboni in Francia, allorchè nel 1823 restaurava il governo assoluto nella Spagna, ed allorchè nel 1830, mentre faceva la gloriosa spedizione d’Algeri, tentava di mutare la legge fondamentale dello Stato in modo che, essendo meno liberale, più si avvicinasse alle forme di governo degli Stati continentali d’Europa, perocchè la comunanza nei principi dell’interno reggimento rende anche più agevoli gli accordi per assicurare gl’interessi generali e comuni.
«Ma queste tendenze troppo manifeste del governo della restaurazione francese furono nuovamente turbate dalla rivoluzione del 1830, ed il nuovo re Luigi Filippo, seguendo i consigli di Talleyrand, nei primianni del suo regno si attenne all’alleanza inglese; però quest’alleanza non tardò a divenire meno omogenea.
«È noto a tutti come i due governi alleati non fossero onninamente concordi sullo svolgimento della libertà in Ispagna, e come nel 1840, appunto nella questione orientale che in allora vertiva tra la Porta ottomana e il vicerè d’Egitto, la Francia non abbia potuto far prevalere la sua politica favorevole al vicerè, e come essa sia stata lasciata in disparte al trattato del 15 luglio di quell’anno, conchiuso colla Russia, coll’Austria e colla Prussia.
«Da quell’epoca la politica del re Luigi Filippo piegò evidentemente verso la politica continentale.
«Questa sua nuova politica, la quale informò pure in senso meno liberale il procedere del suo governo all’interno, gli procacciò naturalmente le simpatie delle principali potenze del continente, che dapprima gli si erano dimostrate poco amiche: e l’Austria singolarmente, comunque per antico sistema alleata dell’Inghilterra, sollecita di favorire questa politica meno liberale nella Spagna, vi diede la sua adesione, in occasione del matrimonio del duca di Montpensier con un’infante, di che nacquero poscia dissapori coll’Inghilterra.
«Io accenno questi fatti, e cito queste date appunto per rispondere preventivamente a coloro, i quali appongono al sistema continentale la qualificazione di politica antiguata, di spauracchio immaginario, contraddetto dalle moderne tendenze del mondo incivilito.
«Ma ciò che più mi muove a non perdere di vista questo sistema, si è, o signori, che esso non è solamente ostile all’Inghilterra, la cui potenza è inteso principalmente a combattere, ma è pure ostile alle minori potenze continentali, a quelle sopratutto, le quali, come il Piemonte, hanno frontiera marittima, e per l’avviamento dei loro porti, sono basi principali del commercio e dell’influenza dell’Inghilterra sul continente.
«Se pertanto la questione che si agita ora in oriente si collegasse colla grande questione continentale che ho accennata, se di quel grande sistema facesse parte, o quanto meno a quello per prevedibili complicazioni ci potesse per avventura condurre, ognun vede come il nostro paese vi sarebbe naturalmente e principalmente interessato, e come esso dovrebbe esser sollecito di prendere quell’attitudine che gli è comandata dal principio della propria conservazione, collocando la sua bandiera a lato di quella che più d’ogni altra è interessata a sostenere l’indipendenza e la politica importante del nostro Stato.
«Alle tendenze dimostrate dal governo di Luigi Filippo dappoi il 1840 e dall’Austria nelle questioni dei matrimoni spagnuoli,le quali, mentre davano al primo una prevalente influenza in Italia, fecero seguito le rivoluzioni del 1848.
«Per queste rivoluzioni ogni concerto continentale rimase nuovamente interrotto, e si credette da molti che un nuovo ordine di cose fosse per sorgere. Allorquando i popoli versano in siffatte crisi, la ragione pubblica che per nobile istinto dell’umanità non procede solamente per analisi di fatti, ma si solleva altresì alla sintesi dell’ordine morale, inspirandosi alla ragion del diritto, propone come meta del movimento speciale l’applicazione di certi filosofici principi che giustificano la crisi che si sta operando.
«L’Italia, nazione civile ed ardente, memore degli antichi suoi forti, che dominarono il mondo e sono tuttavia il più splendido esempio di politica grandezza, incoraggiata dalle riforme che i suoi principi o consigliati o spontanei le avesse concesse, sollevò tosto, com’era da prevedersi, il pensiero a nuovi più nobili destini; quindi l’idea della nazionalità che raccoglie un principio di evidente giustizia e in questa parte d’Europa più viva che altrove, e la guerra contro l’Austria ha infervorato tutti gli animi nella penisola.
«Ma il solo entusiasmo, quantunque ispirato da giustissima causa, non potrebbe bastare contro la forza organizzata di una potenza ordinata e guerriera, e le nazioni non si riscattano e non si ricostituiscono che mediante l’appoggio di una forza che sia pure regolare, e con buona disciplina organizzata. La ricostituzione della nazionale autonomia italiana non si ravvisava utile da nessuna delle potenze europee; l’Italia divisa come è da secoli in tanti piccoli Stati, ed abbandonata a sè sola, non poteva riuscire nel suo generale assunto. Se invece della guerra dell’indipendenza generale della penisola, si fosse trattato del solo ingrandimento dello Stato di Sardegna, la quistione per essere più ristretta, pregiudicando meno quella generale dell’equilibrio europeo, sarebbe per avventura stata appoggiata dall’Inghilterra, perocchè consta, che l’idea di dare al nostro Stato maggiore consistenza, era stato dall’Inghilterra riconosciuta opportuna tanto nel congresso di Vienna, dove fu con diplomatico. accorgimento promosso dall’illustre marchese d’Agliè, in allora ministro plenipotenziario del Piemonte; e se il Governo del re fosse stato più libero nella sua azione, certo che circostanza più favorevole non si sarebbe potuto sperare per ottenere così glorioso risultato, che quella che si offeri allorquando il barone di Vessemburg proponeva la pace sul Mincio.
«Ma il principio filosofico della nazionalità italiana pregiudicò quello politico dell ingrandimento piemontese, e così pregiudicò sè stesso, perchè l’indipendenza d’Italia, non potrà mai essere con successo propugnata che dalle armi piemontesi: difatti la nazionale autonumia di Francia, di Spagna e di tutti i maggiori Stati, si costitui mercè il graduale ingrandimento di quello Stato che nella nazione aveva organizzazione più militare e più forte, e la storia non vi addita forse fin’ora nei suoi annali il fatto di una nazione che divisa e soggetta, siasi a un tratto da sè sola costituita forte e indipendente.
«La nostra lotta coll’Austria ebbe quel triste risultato che chiunque avesse mente libera da illusioni poteva prevedere. Ma non perciò la causa direbbesì perduta; che anzi la nostra sconfitta avendo vieppiù dimostrata la nostra relativa debolezza, rese più evidente ai nostri alleati naturali la necessità di sostenerci».
E qui l’oratore continuava, svolgendo con molta maestria, le segrete ragioni per le quali la Francia, sorda alle lusinghe della Russia, non pronunciasse al sistema della politica continentale e stimasse anzi miglior partito di accostarsi all’Inghilterra.
«Per quest’alleanza, proseguiva egli, la posizione politica dell’Europa prese naturalmente un diverso aspetto, e se l’Austria poteva accostarsi all’alleanza russa, quando vi concorresse la Francia, ben altre conseguenze nacquero per lei, dappoichè le armi dell’Inghilterra e della Francia riunite, se a loro si dichiarasse ostile, potrebbero arrecarle tali nuovi rivolgimenti nei suoi diversi Stati, già così divisi per ispirito di nazionalità, da riescire per essa irreparabili.
«Ma lasciando per ora a parte le attuali convenienze politiche austriache e le probabili sue determinazioni, parmi però dimostrato che per ogni maggior forza, che con alleanze, venga ad acquistarsi in questa lotta l’Inghilterra, riescir debbe più difficile quel concerto delle maggiori potenze continentali, di cui, come dissi, nel decadimento dell’Inghilterra nascerebbe la rovina e forse l’annientamento dei minori Stati del continente; e che se vi fu convenienza per la Francia di stringere quest’alleanza, ben maggiori motivi abbiamo noi di concorrervi nella misura delle nostre forze.
«Si è da taluno degli oratori osservato, che nel progresso degli avvenimenti potrebbero sorgere tali complicazioni per cui quest’alleanza tra Francia ed Inghilterra potrebbe sciogliersi, e che in tal caso imprevidente sarebbe la nostra accessione alla lega.
«Io credo che quest’alleanza abbia troppo solide ragioni, perchè si possa temere di vederla facilmente interrotta; ma anche quando si volesse ammettere che altre sono alleanze comandate da interessi comuni, altre dettate dal pericolo di ostilità, parmi manifesto che a qualunque di questi motivi si voglia attribuire l’alleanza anglo - francese l’accessione di nuovi alleati all’Inghilterra render debbe vieppiù sicura la fede degli altri alleati suoi.
«La guerra che si combatte non è che nel suo principio; forse le considerazioni che ho a voi sottoposte non appariranno sin d’ora così manifeste, ma per poco che riandiate l’istoria di questo secolo, io porto opinione che non le troverete fuori di proposito, e quella simpatia che pare si pronunci in America perla causa della Russia, parmi debba persuaderci che la quistione al di là dell’Atlantico non è considerata sotto diverso aspetto».
Esaminata quindi la parte che sembrava dover pren dere l’Austria nell’alleanza delle potenze occidentali, il barone Sappa aggiunge:
«Qui, o signori, vi prego di essermi cortesi della maggior tolleranza, io porto il massimo rispetto alle opinioni altrui, chiedo tolleranza per le mie.
«Rispetto alla nostra posizione verso l’Austria, dirò francamente, che, secondo il mio modo di vedere, quando l’Austria ritorni all’antica sua politica, a quella politica che la costituisce principalissimo appoggio dell’influenza inglese sul continente, in tal caso l’Austria non può essere, la nostra nemica, ma, semprechè sia alleata dell’Inghilterra, noi pure diventiamo per politica necessità alleati suoi.
«La missione che l’Austria ha in Oriente, nell’ipotesi di altri casi, che non sono i presenti, il Piemonte l’ha in Occidente, e combattendo coll’Austria, non combattendo l’Austria, io credo che ne possa ridondare maggior estensione di territorio al nostro Stato in Italia. L’esperienza d’altronde, come già altri oratori notarono, ciò ne ha dimostrato.
«Signori, allorchè nel 1848 e nel 1849 si combatteva in Lombardia, io divisi con ognuno di voi i voti comuni di tutti gli Italiani, ma confesso che non ne ho divise le speranze.
«Parevami allora che la lotta di uno Stato piccolo, come il nostro, con una potenza di prim’ordine, come l’Austria, fosse troppo disuguale, e che prolungata, dovesse trarre sopra di noi danni gravissimi, tanto più che, secondo il mio modo di vedere, come ho di già espresso, noi non potevamo sperare che alcuna delle grandi potenze si determinasse ad abbandonare la potenza austriaca, elemento così necessario all’equilibrio europeo, come i presenti avvenimenti ben dimostrano, per assicurare l’assoluta italiana indipendenza, senza corrispondenti compensi per l’Austria.
«Potevano riuscir gradite a qualche potenza, da cui l’Austria, per la sua antipatia per le idee liberali, si era separata, le difficoltà in cui essa versava, ma quella potenza istessa, meno di qualunque altra, aveva però interesse a vederla debilitata, perchè in politica non s’immola al presente l’avvenire.
«Quel che pensava allora lo penso tuttora, solamente le condizioni d’Europa sono ora diverse, e quei compensi per l’Austria che allora non erano sperabili, ora sono per avventura probabili.
«Io non chiedo, o signori, se, in occasione della nostra adesione al trattato anglo-francese, ci sieno state fatte promesse di compensi; anzi credo che queste promesse non esistono,ma credo che questi compensi sono nella natura delle cose, perchè comandati da quell’equilibrio politico europeo che si tratta di sostenere; noi d’altronde ben sappiamo come in tutti i congressi europei, semprechè si diede opera a stabilire quest’equilibrio, lo stato nostro fu soggetto di particolari sollecitudini; che parecchi vantaggi abbiam conseguiti e maggiori furono proposti e dall’Inghilterra appoggiati; e parmi che possiamo aver fiducia che, se l’Austria alla conclusione di questa guerra otterrà altrove aumento di territorio, pari vantaggi dovremo aver noi in Italia.
«Un illustre e compianto nostro collega in un’acclamatissima opera sua, già pronostico gli avvenimenti di cui siamo ora spettatori; eppur ci disse che quelli sarebbero le Speranze d’Italia. Or dunque, dopo essere stati tanto arditi nell’ultima guerra, esiteremo noi a prender parte a una lotta da cui ne può derivare maggiore importanza al nostro Stato, che pur è la principale speranza d’Italia?
«Io non esito a dichiarare che sarebbe a desiderarsi che i gabinetti europei riconoscessero concordi la convenienza di preferire un’equa transazione fra tutti e in tutto al dubbio vantaggio della vittoria, e che l’Europa, mercè la saviezza di coloro che governano, venisse a scampare ancora questa volta alla prova di una nuova guerra generale, che nella condizione degli spiriti potrebbe riuscire tremenda per l’umanità intera.
«Ma affinchè la transazione sia una verità, e possa consolidarsi in pace durevole, anzichè convertirsi in semplice tregua, è pur d’uopo che abbia garanzia di continuazione, e fra le garanzie della pace generale, non v’ha chi non veda esser principalissima quella della costituzione di uno Stato di qualche importanza nell’Italia settentrionale, che sia scudo alla penisola, e renda impossibile il predominio di qualunqne potenza continentale nel Mediterraneo.
«Lo Stato attuale d’Italia porge, per avventura, mezzo di combinare più d’un interesse a profitto di tutti, quando la previdenza dell’avvenire preceda alle deliberazioni presenti, non si pretendano vantaggi con violazione della giustizia e non si sacrifichi da alcuno la realtà alle illusioni.
«Faccia il cielo che i governi europei propongano essi per i primi l’esempio della moderazione e della giustizia ai popoli, e che un nuovo periodo di pace generale permetta all’umanità di progredire in quel l’incivilimento da cui sorgono sempre beneficî supeperiori alle stesse umane utopie, fossero pur esse una realtà.
«Ma intanto, se sono ragionevoli questi voti, è pur ragionevole che, a fronte del grande conflitto europeo che si prepara, e che già è iniziato in Oriente, noi abbiamo le nostre forze congiurate con quelle dei nostri alleati naturali.
«Per tutte queste considerazioni, o signori, io voto in favore del progetto di legge che ci venne dal ministero proposto.
Del discorso intorno al trattato di pace di Parigi noi riferiamo per esteso quella parte, la quale riguarda le relazioni dell’Europa col papato, e che l’autore del noto opuscolo Le pape et le Congrès sembra aver conosciuta e riprodotta quasi per intero nella importante sua pubblicazione.
«Con molto accorgimento, poi o signori, diceva il barone Sappa, fu a mio avviso fatta in quel congresso distinzione fra quella parte degli Stati del Papa che costituisce l’antico patrimonio di San Pietro, e le altre che vi furono in seguito aggregate; imperocchè, se la potenza del papa è tuttavia considerata come una necessità da alcune potenze cattoliche dell’Europa non fu però mai da esse riconosciuto necessario di dare a questo Stato eccezionale larghi confini. Perocchè la convenienza del potere temporale del papa, ove si voglia ammettere, non potrebbe altramente giustificarsi che nella necessità di assicurare la sua indipendenza religiosa; e questa indipendenza non potrebbe esser piena che colla prevalenza nel governo dello Stato della Chiesa dell’elemento clericale su quello secolare, e questa prevalenza sta evidentemente in ragione inversa dell’ampiezza degli Stati Pontifici. Quanto più gli Stati Pontifici avranno larghi confini, tanto più il Governo pontificio sarà nella necessità di riconoscere l’importanza dell’elemento secolare, e di piegare alle influenze della pubblica opinione, le quali non sempre volgono nel senso religioso, o di ricorrere all’appoggio della forza straniera per dominarla; e quanto più lo Stato sarà limitato, tanto più agevole e sicuro sarà il governo dei preti, ed assicurato il carattere ecclesiastico del politico reggimento.
D’altronde lo Stato Pontificio, come potenza europea, non potrebbe avere maggiore imponenza, ora che consta di una popolazione di due milioni di abitanti, di quel che avrebbe, ridotto a soli cinquecentomila, dappoichè la sua importanza nasce non già dalla forza materiale, che per ciò sarebbe anche in ora insufficiente, ma dall’influenza morale e religiosa, e ciò che importa all’interesse cattolico non è già che il papa possa pesare nella bilancia degli interessi politici e materiali delle nazioni, ma che nell’esercizio del suo potere spirituale non si trovi sotto la pressione di alcuna potenza straniera, e nemmeno dominato da influenze secolari nello Stato. In una parola, lo Stato Pontificio, tal quale lo intendono coloro che credono alla necessità della sua esistenza, non potrebbe essere governato, che con la massima indipendenza in uno spirito meramente religioso.
«Ma questo stato di cose tollerabile forse dalle popolazioni che circondano la città di Roma, le quali sole raccolgono i benefizi che ne derivano a quel gran centro del cattolicismo, non potrebbe quasi sostenersi nelle province più lontane; e ben sappiamo come nel 1814, allorchè fu ricostituito l’antico edificio politico europeo, le potenze contraenti in Vienna sieno state esitanti nello stabilire il governo delle Legazioni.
Quelle popolazioni aveano fatto per molti anni parte del regno d’Italia, con esso avevano avuto comunanza di leggi e di governo e di simpatie.
«L’Austria, dall’altro canto, ardentemente desiderava di estendere il suo dominio su quella parte eziandio del cessato regno d’Italia, ed ivi considerava il complemento del suo sistema marittimo sull’Adriatico e della sicurezza del suo Stato. Senonchè l’attribuire il dominio di quelle provincie dell’Austria, che già cotanto pesava sull’Italia, col possesso della Lombardia, parve giustamente inammessibile, e, prevalse il divisamento di aggregarle agli Stati del papa. Con ciò le affezioni di quelle popolazioni non furono acquistate al Governo pontificio, il quale, com’è pur troppo noto, non potė sostenersi che mediante l’appoggio delle truppe austriache. Quindi il pericolo cui si voleva ovviare di soverchiamente estendere i domini dell’Austria in Italia, aggregando le Legazioni allo Stato Pontificio, divenne di fatto una necessità, e l’Austria continuò e continua ad averne il reale dominio, nè mai potranno quelle provincie sottrarsi alla sua influenza se non si trova modo di costituirle fortemente.
«Un tale stato di cose meritamente fu posto in evidenza dai nostri plenipotenziari al’ congresso di Parigi, nè si tacque come per esso fosse pregiudicato gravemente l’europeo equilibrio; e veramente l’Austria che possiede la Lombardia e la Venezia, che domina colle sue influenze sulla Toscana e sui ducati, coll’occupazione delle Legazioni è diventata assai più preponderante in Italia di quanto le dessero diritto i trattati, e da quel lato venne perciò meno ogni sicurezza per noi.
«Io non mi farò ad esaminare le idee che furono poste innanzi per sottrarre le Legazioni all’occupazione austriaca; dico solamente che mi pare che i nostri plenipotenziari abbiano ben dimostrato, che se quell’occupazione, la quale nel fatto equivale ad un dominio, deve prolungarsi, l’Europa deve avvisare a dar sicurezza al Piemonte con mezzi acconci, e impedire che l’equilibrio venga più gravemente scosso e pregiudicato.
«Ed in ciò, o signori, parmi che i nostri plenipotenziari non siansi dimostrati indegni successori del l’illustre marchese d’Agliè, che nel congresso di Verona già aveva rappresentata la necessità di limitare il dominio austriaco all’Adige; la qual cosa se sin d’allora si fosse effettuata, non sarebbero forse nate le complicazioni che straziano tuttavia la penisola, e sono e saranno d’inciampo allo stabilimento di una pace durevole in Europa.
«Fu dimostrato che l’equilibrio europeo, bene o male stabilito coi trattati di Parigi e di Vienna, negli anni 1814 e 1815, venne per parte dell’Austria gravemente pregiudicato in Italia.
«Altri fatti, o signori, d’allora in poi si realizzarono in Europa, che pur interessano l’Italia, e più particolarmente il nostro Piemonte; io mi limiterò ad accennare quello che più direttamente ci riguarda.
«La conquista dell’Algeria per parte della Francia, non v’ha chi non veda quanto abbia accresciuta la preponderanza di quella generosa nazione sul Mediterraneo, e quindi la sua politica influenza sul litorale italiano. Certamente che fu beneficio per l’Europa ci vile l’aver richiamato alla civiltà ed alle relazioni europee quella parte del territorio africano.
«Ma questo gran fatto ha pure le sue necessità, e l’Italia, che non poco vi è interessata, ha ragione di aspettarsi anche per ciò le sollecitudini dell’Europa, e di fidare in particolar modo sull’appoggio della Francia, la quale, se è illustre per gloriose imprese, è pure meritamente celebrata per generoso concetto di politica giustizia; e di questa sollecitudine, e di quest’appoggio noi abbiamo avuto la prova nelle dimostrazioni di simpatia che l’Italia già ottenne nelle conferenze ch’ebbero luogo in Parigi.
«Signori, la questione orientale venne definita col trattato di Parigi: a ciò propriamente furono ristrette le deliberazioni di quel congresso; ma lo spirito conciliatore e pacifico che vi ha dominato, e la sollecitudine con cui si vollero prevenire, per quanto fosse possibile, future complicazioni, ci debbe lasciar fiducia che l’opera pacificatrice non sarà terminata, e che si troverà maniera di rassicurare la pace del mondo sulla soddisfazione dei legittimi interessi delle nazioni; se quindi ho maggior confidenza nella continuazione della pace, di quanto abbia dimostrato l’onorevole deputato Buffa, con esso convengo però nel credere che sia intanto officio nostro di confortare coloro che ci governano a perseverare nella via che in queste trattative, a giudizio mio, fu da essi molto conveniente mente iniziata, assicurandoli del fermo e costante nostro concorso e della gratitudine del paese.»
Avvenuti i grandi fatti che il barone Sappa aveva preveduti, e terminatasi appena la guerra del 1859, l’egregio funzionario che apparteneva già, come lo si vide dal cenno biografico estratto dalla Sentinella delle Alpi, al Consiglio di Stato, nel riordinamento di questo, fu nominato presidente di sezione in quel supremo corpo.
Elevato nel 1861 alla dignità di grande ufficiale dell’ordine mauriziano, sotto l’amministrazione presieduta dal barone Ricasoli, venne nel medesimo anno promosso alla dignità senatoria.
Nel Senato, come già nella Camera elettiva, egli si mostró sempre dei più operosi, e prese la parte la più attiva alle importantissime disamine e deliberazioni, mediante le quali si costituiva ed organava il novello regno d’Italia.
Noi, al punto di vista delle opinioni nostre personali, abbiamo da esprimere un vivo rammarico di aver veduto un uomo del senno, dell’esperienza politica ed amministrativa del barone Sappa, porsi nel numero di quei senatori che più caldamente avversarono la convenzione colla Francia per lo sgombro di Roma e il trasferimento della capitale a Firenze.
Il discorso pronunciato in quella circostanza dal l’onorevole barone, fu ad ogni modo tra i più note voli che si udisse proferire contro il trattato, e crederemmo mancare di quell’imparzialità che ci siamo promessi di serbare dalla prima all’ultima pagina del nostro libro, ove non ne mettessimo i principali squarci sotto gli occhi ai nostri lettori.
Dopo aver rimproverato alla Commissione del Senato d’avor frainteso il vero senso del trattato, ne då egli la seguente interpretazione:
«Dopo che l’italia, dice il Sappa, nello svolgimento delle sue nazionalità, estese le sue annessioni anche alle province meridionali, nacque subito il pensiero che racchiudendo l’Italia tante grandi città illustri che furono capitali dei vari Stati che si sono uniti, l’idea della capitale potesse essere messa in questione. Il conte di Cavour, che intese molto bene questa quistione, che ben rammentava come altra volta la questione della capitale fosse stata causa di gran disastro per l’Italia, ha pensato di allontanarlo con un mezzo che togliesse sul momento ogni rivalità, e fosse accettabile da tutti. Il conte di Cavour ha dunque detto: «La capitale d’Italia è Roma, ma a Roma non ci anderemo, se non d’accordo coi Francesi e quando l’intiera cattolicità sarà contenta.
«Ora io domando al Senato, se ciò non era sufficiente, perchè potesse l’Italia, intanto, tranquillamente unificarsi, perchè potesse la sua unificazione stabilirsi, perchè potessero le sue finanze ristorarsi.
«Lo dunque dico che la questione di Roma è nata da questa votazione fattasi dal Parlamento italiano, in seguito a proposta del conte di Cavour; ma siccome questa quistione, dappoichè non fu più moderata dalli autorevoli consigli del conte di Cavour, agitava vieppiù gli spiriti, esauriva le nostre risorse finanziarie, e perfino reagiva sul nostro spirito politico, morale e religioso, che erano grandemente pregiudicati da questo continuo stato di lotta, tra il papa che voleva conservar Roma e l’Italia, che ne voleva fare la sua capitale; siccome ancora questa quistione annojava, forse, permettetemi la parola, l’Europa, per i continui sforzi che si facevano per avere una cosa che l’Europa non era d’accordo di darci; perchè per essa potevano ancora nascere dissensi, ed anche calamità generali, era naturale che allo stato di cose, poichè Roma noi non ce la potevamo prendere e non ce la volevano dare, era naturale che si studiasse di porvi un termine ed in ciò, credo, i nostri negoziatori abbiano ottimamente avvisato.
«Conveniva pel momento finirla; verrà forse il tempo in cui la cattolicità, la Francia e l’Europa saran d’accordo con noi, ma intanto, ripeto la cosa, per ora non è cosi;, conveniva finirla, e porre un termine a questa continua lotta, ed a questo tende la Convenzione.»
Dopo aver detto che la Convenzione dà pegno di amicizia e di buona fede reciprocamente tra le parti contraenti, viene ad esaminare la garanzia del trasferimento della capitale e così si esprime:
«Ma accettiamo per un momento ciò che non potrei accettare che per mera ipotesi, supponiamo che
si volesse cotesta garanzia, ma la garanzia dello stabilire la capitale in altro sito non reca con sè la necessità di stabilirla in un determinato sito, cioè oltre all’Apennino, fuori della Valle del Pò, come osservava l’onorevole Di Revel; per dare cotesta garanzia, cotesta dimostrazione, credo poco importi, che la capitale del Regno d’Italia sia di preferenza a Firenze, che a Milano, cioè nella Valle del Po.
«Di fatti il papa, ed anche la cattolicità, mi pare debbano essere assolutamente indifferenti. Se dunque si è voluto che la capitale del regno d’Italia dovesse essere fuori della Valle del Po, non si combattono le quistioni che riflettono il poter temporale dei papi, ma si sono sempre combattute le battaglie dell’indipendenza italiana.
• Si è detto che la capitale si portava a Firenze, cioè nella penisola, per dare un corpo all’anima d’Italia; per dir vero questa frase per me ha qualche cosa dell’ascetico. Io credo che l’anima d’Italia in Piemonte ha mostrato avere un corpo, e spero che lo dimostrerà anche col tempo. Per spiegarmi, quella frase che dissi ascetica, io mi atterrò alla dottrina dei teologi. So che i teologi dicono che l’anima è imprigionata nel corpo; io non vorrei che si pensasse per avventura, trasportando la capitale a Firenze, ad imprigionarla in quella illustre città.»
Il protocollo, sostiene il barone Sappa, non può essere una garanzia della Convenzione, ma ha altro oggetto, egli si propone dimostrare qual sia tale oggetto e per ciò fare ricerca nel passato quella luce che manca al presente.
L’oratore risale all’epoca dei congressi di Vienna nel 1815 e di Verona nel 1821, e ricorda che in ambedue quei congressi si ammise da alcuni dei rappresentanti le grandi potenze la necessità d’ingrandire il regno Sardo, onde potesse meglio compiere quella posizione di equilibrio che gli era dagli Stati assegnata.
In seguito l’Austria crebbe in preponderanza, tanto che poi sotto il regno di Carlo Alberto le relazioni tra essa e il Piemonte erano diventate meno amiche voli, e da questo stato teso la guerra del 1848 era sorta.
Analizzati rapidamente gli eventi che derivarono da quella guerra e gli effetti dell’altra combattutasi in Crimea, il barone Sappa constata che si fu al convegno di Plombières che la questione italiana prese la sua vera origine d’azione e continua cosi:
«Al convegno di Plombières Napoleone III, ed il conte di Cavour convennero di concorrere per dare allo Stato Subalpino un’estensione maggiore che potesse raggiungere 12 milioni di popolazione, ed in questo caso si stipulò la cessione di Savoja e di Nizza. Al convegno di Plombières successero poi i fatti del 1859.
«Nel 1839 la guerra da noi combattuta col concorso della nostra alleata ebbe dei gloriosi successi; ma non era appena vinta la battaglia di Magenta che già si conosceva la preoccupazione ch’era sorta in Germania, per timore che la Venezia potesse essere conquistata a favore del regno d’Italia. Ed a ciò dava forse ancora maggior fondamento il famoso proclama dell’imperatore Napoleone. In quello stesso tempo le idee italiane avevano naturalmente concepito delle aspirazioni di generale indipendenza, portavano le loro viste anche al di là di quel confine ch’era stabilito tra i due contraenti di Plombières.
«Preoccupato l’imperatore Napoleone di questo stato di cose che probabilmente andava oltre le sue idee, le quali, sebbene favorevoli all’Italia, non pote vano però disgiungersi dalle tradizioni francesi, che a torto sicuramente, ma finalmente si mostravano sempre alquanto inquiete di un soverchio accrescimento degli Stati italiani, l’imperatore Napoleone, dico, mandò proposte di pace per mezzo di lord Palmerston che le fece comunicare per mezzo di lord Loftus al governo austriaco. Queste proposte di pace non furono accettate; seguirono le battaglie di Melegnano, di San Martino e di Solferino, e allora direttamente l’imperatore Napoleone si pose in relazione con Francesco Giuseppe imperatore d’Austria ed ebbero luogo i famosi preliminari della pace di Villafranca.
«Ma l’imperatore Napoleone, ritenuto che le previsioni di Plombières non erano state adempite, che lo Stato d’Italia invece di essere di 12 milioni d’Italiani non era che di 7, generoso come si mostrò sempre verso di noi, dichiarò che non si faceva caso della combinata cessione di Savoja e di Nizza. Stipulò infine il trattato di Zurigo.
«Napoleone in quell’epoca manifestò una sua idea sull’Italia, ed era ben giusto che chi avea tanto contribuito a farla, potesse darle dei consigli autorevoli. L’idea di Napoleone era la federazione.
«In un famoso opuscolo, che la voce pubblica aveva attribuito all’imperatore Napoleone, si era manifestato anche un altro pensiero, ed è, che se era indispensabile, per mantenere l’indipendenza della Sede pontificia, che fosse sovrana in un paese, era però pregiudicevole che questo stato fosse troppo esteso e che in esso predominasse di troppo l’elemento secolare, per cui ne potevano più facilmente sorgere interne difficoltà e quindi maggiori occasioni a stranieri interventi.
«L’idea di Napoleone era la federazione italiana e l’autorità del papa circoscritta. Quell’idea non fu accolta favorevolmente in Italia.
«Vennero le rivoluzioni nell’Emilia, nel Modenese, nella Toscana. Quella della Toscana sopratutto non combinava colle viste dell’imperatore, la missione del conte di Reiget e del principe Poniatowski dimostrarono quanto interesse egli ammettesse acciò la Toscana si mantenesse autonoma.
«Quando fu sancito il plebiscito toscano allora Napoleone, appoggiandosial patto di Plombières, vedendo che lo Stato d’Italia era cresciuto più di quanto si fosse preveduto, domandò la Savoja e Nizza, anzi volle questa cessione e l’ottenne.
«La fortuna d’Italia la spinse nella Romagna, si passò la Cattolica, voi ricordate la spedizione dei mille, l’ingresso trionfale di Garibaldi in Napoli, vi ricordate il lungo assedio di Gaeta. Le varie parti d’Italia, ad eccezione della Venezia e del territorio ancora occupato dal pontefice, formarono un solo Stato.
«Questo stato di cose non era consentaneo alle idee del Governo francese; e qui giova ricordare un documento diplomatico stato opportunamente letto dal senatore Sclopis, in cui il ministro Thouvenel incaricava il barone di Talleyrand, ambasciatore francese a Torino, di fare osservare al re di Sardegna che un eccessivo così repentino ingrandimento del regno avrebbe potuto avere delle conseguenze gravissime, che il centro d’azione ne sarebbe necessariamente dislocato e che da ciò ne potevano sorgere per cotesto stato dei pericoli.
«Questo consiglia, che se era ispirato da benevolenza per l’Italia, era però ispirato anche dall’interesse francese, non fu da noi ascoltato.
«La Francia intanto continuò a mantenere il suo presidio anche rinforzato in Roma. Ritirò per poco tempo l’ambasciatore che aveva presso di noi, ed in Roma continuò Francesco II di Napoli le sue relazioni cogli insorti del suo paese.
«Ora lascio per un momento l’Italia per portarmi a fare una breve escursione in un’altra parte d’Europa, perchè, a mio credere, non è con gli avvenimenti d’Italia senza relazione.
«Sorsero, il Senato lo sa, i Polacchi a rivendicare la loro indipendenza, un’antica querela nei ducati germanici fu resuscitata. La Grecia aveva rovesciato il trono del suo re, e l’Inghilterra con istupore generale del mondo aveva rinunziato alla sovranità delle isole Jonie a favore della Grecia.
«In questo stato di cose’ l’imperatore Napoleone al principio di quest’anno stimò che fosse opportuno di chiamare le potenze europee a congresso.
«Pareva che la gravità delle quistioni che erano vertenti potessero conciliarsi con una mediazione autorevole in un congresso e le potenze furono invitate a prendervi parte.
«Alcune vi aderirono senza riserva, altre vi opposero delle condizioni. L’Inghilterra però senza respingerla, in una conosciuta nota di lord Russel a lord Cowley, nota che fu comunicata al Governo francese, dichiaro che quel congresso per il momento pareva prematuro, e fece alcune obbiezioni per dimostrare che le divergenze fra le parti contendenti erano troppo gravi, perchè si potesse sperare di comporle in un congresso. L’idea del congresso fu abbandonata.
«Intanto la Polonia è caduta, l’Austria, antica rivale della Prussia in Germania, si fece la sua alleata per assicurare la sua preponderanza sul Baltico. La Grecia entrò in possesso delle isole Jonie. Molto si è detto sul contegno dell’Inghilterra rispetto alla Danimarca. In questo caso dirò come il generale Cialdini, che in materia politica non si seguono le simpatie, ma si avvisa all’interesse.
«L’Inghilterra non ha creduto d’intervenire a favore della Danimarca; io mi sono domandato il perchè e considerai pure perchè l’Austria, antica rivale della Prussia, avesse con essa cooperato ad accrescere la sua potenza sul Baltico a danno della Danimarca.
«Io ho creduto di trovare queste ragioni in ciò, io non pretendo di essere profondo indagatore di cose politiche, ma io ho creduto potere scorgere in fondo di questa combinazione questo pensiero, che non potendosi, cioè, impedire alla Russia di estendere la sua potenza, sottomettendo la Polonia, era opportuno di rinforzare quella potenza che era più vicina alla Russia dandole una posizione sul Baltico.
D’altra parte ho creduto di scorgere che il vero modo di sottrarre la Grecia all’influenza russa, era quello di renderla una potenza insulare, il che si ottenne mediante la cessione delle isole Jonie fatta dal l’Inghilterra, la quale, se perdeva la sovranità di quelle isole, si assicurava in tal modo la sua influenza su tutta la Grecia.
«Non essendovi ora pendenti in Europa altre questioni all’infuori della questione italiana, è naturale che l’Europa sentisse il bisogno di porre un termine anche a questa questione per potere convenire in un congresso che valesse ad assicurare la pace per molti anni.
«L’imperatore Napoleone era desideroso di porre un termine alla questione d’Italia, e sopratutto non desiderava mantenere il suo esercito a Roma, la di cui posizione, oltre che non era naturale, talvolta poteva riuscire increscevole per le autorità francesi che si trovavano sul luogo. lo non so se l’imperatore dei Francesi abbia iniziate queste trattative, oppure se le siano state dal nostro Governo proposte; se così desiderano , lasciamone il merito ai nostri negoziatori; il fatto si è, che l’idea di venire a comporre la questione italiana si è messa in campo in questo momento.
«Fu facile persuadere ad uomini ragionevoli la convenienza di una convenzione sulle basi di quella che fu stipulata, e l’imperatore Napoleone, desideroso qual era di abbandonare lo Stato Romano che occupava, non per sè, ma in nome della cattolicità, credette accettarla. Quindi fu conchiusa quella Convenzione sulla quale, dal canto mio, non avrei obbiezioni da fare.
«Ma separatamente dalla Convenzione che la Francia stipulava nell’interesse della cattolicità vi ha un protocollo, ora è appunto sul significato di questo protocollo che conviene intendersi.
«Io ritengo che Napoleone occupava Roma nell’interesse del potere temporale ed in quello della Francia; ritengo che Napoleone ha sempre dimostrato di non desiderare più, che la Francia, che lo Stato italiano si estendesse oltre certi confini, che ha voluto dei compensi, delle garanzie quando lo Stato italiano salì ad una popolazione di 12 milioni, e quando pervenne a quella di 22, potè desiderare altri compensi o garanzie.
«In una parola, per dirla senza equivoci, io ritengo che Napoleone ha chiesto il trasporto della capitale fuori della valle del Po al di là dell’Apennino, come garantia per la Francia, poichè fin tanto che la capitale d’Italia, il centro d’azione e la così detta anima d’Italia stava nella Valle del Po, l’influenza francese nell’Italia non poteva essere così piena, come lo sarà allorquando la capitale sarà al di là dell’Apennino. (Rumori).
«E qui permettetemi, signori che vi dica che ho inteso con gran dolore (sarà pur troppo vero, ma non cessa d ’essere oggetto di grave dolore) la teoria della difesa spiegata dal nostro collega l’illustre generale Cialdini.
«Secondo questo sistema, egli è evidente che l’Italia è al di là dell’Apennino, che la linea del Po e degli Apennini divide essenzialmente l’Italia, che la Valle del Po è valle italiana bensì per cui gl’Italiani faranno tutti gli sforzi a fine di conservarla, ma che la Valle del Po non è propriamente quella parte d’Italia, su cui l’Italia debba fare principale assegnamento. (Segni di denegazione).
«Mi pare che stringendo le idee del generale Cialdini si possa venire a questa conclusione. (No, no).
«Ora questo sistema combina con i miei timori; io temo appunto che togliendo il centro d’Italia dalla Valle del Po ne nasca viemmaggiormente quello stato di cose che deplorava il generale Cialdini.
«Perch’egli dice: in caso d’attacco io mi addietro e lascio scoperta quella parte che pure voglio difendere, ma che è già più esposta delle altre, per concentrare intanto ed all’uopo la mia azione dove sta la capitale. Dovunque io giri gli sguardi sulle carte geografiche veggo che le capitali sono appunto nel sito ove c’è maggior pericolo e maggior bisogno d’azione e di patriottismo.
«Signori, noi che siamo alquanto attempati e che apparteniamo a queste provincie, ricordiamo ancora l’epoca in cui la Francia dominava in questi paesi, ed io mi ricordo quei tempi, come tempi funesti, sebbene quell’amministrazione sia stata benefica, e lo sia stata tanto che lasciò desiderio di sè presso parecchi per molti anni.
«Chi fece il Piemonte italiano fu Torino: qui in Torino stava il centro d’azione, la sede di un principe e di una dinastia cara al paese, naturalmente qui si concentravano tutti i vantaggi che ne conseguivano dall’esser centro dello Stato; qui si creò il vero spirito italiano più di quello che vi ha in qualunque altra parte d’Italia (sensazione), od almeno quella parte d’Italia ha col fatto dimostrato di non essere al di sotto di nessun’altra.
«Però io dico, se voi allontanate il centro d’azione da questa valle, dite si, dite no, dite quello che volete, lo spirito nazionale italiano voi lo indebolite in queste provincie; signori, ricordatevi di un famoso detto di uno statista inglese, Giorgio Canning; egli disse in memorabile seduta del Parlamento inglese che non vi hanno migliori alleati nei paesi che si combattono che i malcontenti del paese stesso. Valendomi ancora dell’autorità del generale Cialdini dirò pure, che allontanando il centro dell’azione della Valle del Pò, il pericolo di vedere occupate queste provincie dalla Francia si accresce, e questo pericolo, non credete che lo vegga prossimo; io rispetto troppo la lealtà e la sincerità dell’augusto principe nostro alleato, non credo almeno che abbia di queste idee, ma già ve lo disse in termini ben chiari il senatore Cialdini: i principi non sono immortali, l’immortalità dei principi generosi è solo nell’istoria.
«Ora chi vi promette che all’occasione di un cambiamento o rivolgimento qualunque quell’idea non possa essere messa in campo?
«D’altronde chi vi promette che voi potrete sempre osservare con successo le condizioni che voi avete assunte verso il papa? Chi vi dice che non nasceranno nuove rivoluzioni negli Stati Pontifici?
«Ma queste cose possono avvenire anche senza la volontà del Governo. Ed allora, signori, Napoleone vi ha forse detto nella Convenzione la via che prenderà per intervenire a Roma? egli ripeterà quell’intervento che si è riservato, signori, io credo che non era in dovere di dircelo, e noi non possiamo prevedere come interverrà, dalla parte che avrà più convenienza d’intervenire.
«Ecco un altro caso in cui noi possiamo essere esposti ad un’intervenzione francese. Ma, o signori, non è soltanto per la Francia che il trasporto della capitale al di là della Valle del Pò è una garanzia, io ritengo, e ciò vi farà un tale senso, ma dico apertamente che tale garanzia è pure per l’Austria (sensazione). Finchè la capitale sta nella Valle del Po le aspirazioni degli abitanti di questa valle naturalmente si portano a completarla; altrettanto il centro dell’azione si allontanerà dalla Valle del Po, quest’idea si raffredderà. I veneti stessi cercheranno di acconciarsi coll’Austria (rumori) e se non si acconceranno, faranno prova di abnegazione, di sommo patriottismo. Io dico che l’allontanamento del centro d’azione è un pegno per l’Austria, dico che l’Austria sarà naturalmente più sicura quando non avrà più timore di vedere come completamento della Valle del Po, rivoluzionata Venezia.
«Signori, in quest’unione d’interesse della Francia coll’Austria non vedete voi dei pericoli gravissimi? non li vedrete ora sotto il regno di Napoleone, ma col tempo si potrebbero verificare. Ricordate il trattato di Campoformio, e se non volete ricordare quel trattato d’infausta memoria, pensate che se la fortuna delle cose potesse unire la Venezia all’Italia in seguito d’una guerra, credete voi che acquisteremmo la Venezia senza cedere al nostro alleato che sarebbe certamente concorso colle armi di Francia ad acquistarla, la Liguria e il Piemonte? (oh! oh! rumori).
«Ma tutti questi susurri non fanno cambiare le cose. Io dico che se faremo la guerra all’Austria insieme colla Francia, e se la Francia sarà vittoriosa vorrà in questa circostanza un compenso per le provincie che col di lei aiuto avremo acquistate (no, no, rumori e denegazioni). Ora se avremo la Venezia io credo essere autorizzato a temere che perderemo il Piemonte. (No, no).
Ma, mi si dice, l’Italia si opporrà, e l’Italia è una gran nazione, ha un esercito suo proprio. Signori, io non ho volontà di attenuare nè la forza nè i mezzi d’Italia; ma pensate chi avremmo a fronte, e in questo caso avremmo la Francia. E quali sarebbero i nostri alleati? forse l’Austria che sarebbe stata sconfitta da noi? forse la Germannia che in questo caso sarebbe certamente solidale dell’Austria? voi mi direte, e l’Inghilterra? Io parlo con molta trepidanza su questo punto. Nessuno piú di me ammira quella gran nazione, nessuno più di me è grato del costante appoggio che diede al nostro Stato;ma io dico, se vogliamo conservare l’appoggio dell’Inghilterra sappiamo conservare la posizione che l’Inghilterra ci ha aiutati ad ottenere; manteniamoci fermi al posto che l’Inghilterra ha desiderato che avessimo se vogliamo conservare la sua alleanza.
«E qui permettetemi che io ripeta parole che ho lette, non sui giornali, ma sui rendiconti delle Camere inglesi, dove possono avere maggiore autorità, e sono parole di lord Palmerston.
«Quando ebbe luogo la cessione della Savoja alla Francia l’opposizione fece delle gravi rimostranze al gabinetto inglese perchè avesse lasciato compiere quel fatto; lord Palmerston deplorò quel fatto, disse ch’era stata grave imprudenza pel Governo di Sardegna di compromettere la posizione che aveva ricevuta pei trattati del 1815, disse che con somma sorpresa aveva visto effettuarsi quella cessione, senza che una sola parola nè officiale nè officiosa per parte del Governo di Piemonte fosse stata detta in proposito al Governo inglese, e disse che il Governo d’Italia avrebbe avuto molto a lamentare questa sua imprudenza.
«Io non voglio trarre troppo funeste apprensioni da questa dichiarazione fatta in Parlamento; ritengo però che quella cessione dal Governo inglese fu ritenuta grave, ritengo pure che vi è pericolo che noi allontanando il centro d’azione del nostro stato, noi sconvolgeremo le combinazioni politiche dell’Italia, sconvolgeremo il sistema delle nostre eventuali alleanze, e che i nostri alleati potrebbero forse cercare altre combinazioni all’infuori di noi; io temo che in un conflitto colla Francia senza l’appoggio dell’Austria, senza l’appoggio della Germania noi saremo abbandonati a noi soli.
, Ora, signori, potremo forse noi soli resistere alla Francia? Ma se cedete ora votando questa Convenzione, come volete supporre che i figli vostri abbiano più coraggio di voi? Per me, signori, non ho questa speranza, io credo che quando giungerà questo tremendo momento noi saremo abbandonati, come è attualmente abbandonata la città di Torino, com’è abbandonata la Valle del Po. Ma, si dice, voi perdete di vista che il compenso di questa Convenzione è lo sgombro delle truppe francesi di Roma, che è pure cosa importante.
«Signori, io non lo credo, io credo che dal momento che la Francia si è riservata d’intervenire ove noi mancassimo a questo patto, io credo che la situazione del potere temporale è assicurata, e lo sgombro dei Francesi da Roma ne è la conseguenza necessaria; la Francia non avrebbe più ragione di stare a Roma; allora, o signori, non sarem più noi che insisteremo presso la Francia pel ritiro delle sue truppe, ma l’Europa e la intera cattolicità.
«Poichè accenno a quest’idea, mi viene in mente uno dei tanti equivoci ch’ebbero luogo all’opportunità di questa questione e che parmi conveniente di particolarmente segnalare.
«Si è detto che il Governo nostro aveva avuto anche la scelta o di lasciare che la Francia occupasse un punto del territorio romano, o di consentire la garanzia collettiva in nome di tutte le potenze cattoliche invece del trasporto della capitale.
«Io ho inteso esservi questo, e non l’ho creduto e nol credo, nè lo credo per l’onore dei contraenti.
«Se veramente la Francia ci avesse fatta questa esibizione, ed i nostri negoziatori non l’avessero accettata, io direi che avrebbero tradito il paese; ma no, non s’è di certo fatta questa offerta, e l’onorevole senatore Menabrea, che ben sentì la gravità di questo equivoco, non tralasciò di distruggere cotesta erronea asserzione del suo collega, l’ex ministro degli affari esteri, e nella seduta di ieri negò che si fosse fatta questa proposta ai negoziatori.»
L’oratore dopo aggiunge in ultimo che s’è vero, come lo si assevera, che l’opinione pubblica siasi pronunciata favorevole alla Convenzione in modo irrenitibile, che si doveva interrogare il paese per meglio farla spiegare, che occorreva far palese il divisamento per mezzo della stampa ufficiale e officiosa e convocar la nazione espressamente nei comizî elettorali, acció nelle elezioni si occupasse della grave questione e si pronunciasse sulla medesima.
«Si è fatto invece il contrario, e il senatore Menabrea si è anzi lagnato che si fosse tradito il segreto.»
Il barone Sappa termina con queste parole il suo discorso:
«Signori, non prolungherò di più il mio dire; affermerò soltanto che quesť opinione pubblica, a cui voi credete di dover cedere, che quest’opinione da voi creduta così grave, credete, è un’opinione accidentale, effimera; e ciò dico per onore del paese; è una opinione fittizia, è un’opinione suscitata espressamente nelle rivalità e nell’astio, non è opinione a cui dovete
inchinarvi; temete piuttosto che allorquando il paese farà la triste esperienza dei danni che verranno da questo trasferimento della capitale, quando si farà l’esperienza dello scompiglio generale dell’amministrazione, dell’esaurimento generale delle finanze (rumori), della discussione del paese, dei pericoli cui andiamo incontro, temete piuttosto che sorga un’opinione compatta, sincera che rimproveri a voi la vostra debolezza. Si, quest’opinione, o signori, quest ’ opinione sola avrà eco nella storia, e le pagine di quest’istoria i nostri figli leggeranno con dolore immenso (bravo).
Questo discorso dell’onorevole Sappa, noi abbiamo voluto riprodurre quasi per intero onde si conoscano gli argomenti dei più autorevoli oppositori della Convenzione. Bisogna dar lode al Sappa della moderazione che regna nelle sue parole, moderazione che la più parte dei membri delle due Camere avversanti il trasferimento della capitale, non seppero sempre serbare.
La carriera politica ed amministrativa di un personaggio a tanti titoli eminente, è lungi dall’esser terminata, e noi ci lusinghiamo ch’ei voglia e possa rendere alla patria italiana anco più luminosi servigi di quei segnalati che le ha resi fin qui.