Il Marchese di Roccaverdina/Capitolo XXXIII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo XXXII | Capitolo XXXIV | ► |
XXXIII.
La mattina, tutta Ràbbato già sapeva la notizia dell’improvvisa pazzia del marchese.
— Ma come? Ma come?
Lo zio don Tindaro era accorso tardi; nessuno aveva pensato di farlo avvertire; e per strada parecchi lo avevano fermato, chiedendo particolari — se ne dicevano tante! — meravigliandosi che il cavaliere dichiarasse di non saper niente e di accorrere appunto per persuadersi — gli pareva impossibile! Uno così equilibrato come il marchese suo nepote! — se si trattasse di delirio febbrile o di vera pazzia. All’ultimo, nel piano di Sant’Isidoro, gli era andato incontro il notaio Mazza: — È vero? Che disgrazia!
— Ne so meno di voi. Io abito, per dir così, all’altro polo. Voglio prima vedere coi miei occhi.
— Ha tentato di ammazzare la marchesa....
— Ah! Questa poi!...
— Scambiandola per la Solmo.... Fuoco che è covato sotto cenere.
— Eh, via! Il canonico Cipolla ne ha detta una più stupida: — La colpa è di don Aquilante che gli ha sconvolto il cervello con lo spiritismo, facendogli evocare Rocco Criscione!
— Può anche darsi, cavaliere! Può anche darsi! Infatti pare che il marchese si accusi di averlo ammazzato lui....
— Nel delirio, giacchè io credo che sia un caso di febbre maligna, si dicono tante stramberie!
— Dio volesse, caro cavaliere!... Ma i contadini che lo hanno raggiunto, con Titta il cocchiere, nella carraia di Margitello....
— Nella carraia di Margitello?
— Già! È scappato di casa, col fucile.... Ma dunque non sapete proprio nulla! E laggiù, tra la siepe di fichi d’India ha sparato, nel punto preciso dove fu ammazzato Rocco Criscione, gridando: “Cane traditore!... Avevi giurato! Cane traditore!„ Miracolo che ora non abbia colpito Titta! Hanno dovuto imbavagliarlo, togliendosi le giacche di dosso - non avevano altro - per impedirgli di farsi male. Lo spiritismo? Può darsi benissimo!... E vedrete che don Aquilante finirà pazzo anche lui!
— Mi par di sognare!
— Povera marchesa! Nemmeno un anno di felicità!
Avevano dovuto picchiare più volte prima che venissero ad aprire il portoncino, chiuso perchè la folla dei curiosi non invadesse la casa.
— Ma come? Ma come? — ripeteva don Tindaro, nel salotto dove la marchesa era svenuta per la terza volta quando egli vi entrava assieme col notaio.
Fra tante persone, nessuno gli dava retta. La signora Mugnos e Cristina, aiutate dal cavalier Pergola, portavano in camera la marchesa che sembrava un cadavere, con le braccia penzoloni, gli occhi chiusi, bianca bianca in viso.
— Ma come? Ma come?... Dottore!
— È di là, nello studio, — rispose il dottor Meccio. — Pazzia furiosa! Vi ricordate, notaio, in Casino, quella volta? Eh? Eh? Che ne dite ora?
E seguì le donne in camera per soccorrere la svenuta.
Dal corridoio, don Tindaro e il notaio udivano gli urli del marchese, quantunque l’uscio dello studio fosse chiuso; il cavalier Pergola li aveva raggiunti.
— Ci sarebbe voluto la camicia di forza!... Ma in questo porco paese dove trovarla?... Abbiamo dovuto legarlo su una seggiola a bracciuoli.... mani e piedi! Chi poteva mai supporre...!
Lo zio don Tindaro non osava d’inoltrarsi, inorridito dalla vista dell’infelice marchese che si dibatteva urlando scomposte parole, con la bava alla bocca, i capelli in disordine, agitando qua e là la testa, stralunando gli occhi, quasi irriconoscibile! Solide corde lo tenevano fermo su la seggiola, e Titta e mastro Vito Noccia, il calzolaio, reggevano dai lati la seggiola che scricchiolava, asciugando di tratto in tratto la bava che dalla bocca colava sul mento e sul petto del demente.
— Ma come?... Ma come?
— All’improvviso! — spiegava il cavalier Pergola. — Da più giorni si lagnava di una trafittura al cervello, di un chiodo, diceva, conficcato nella fronte.... Il male ha lavorato, lavorato sottomano.... Ormai, è certo.... — riprese a un gesto interrogativo del suocero. — Lo ha ammazzato lui, per gelosia!...
— Inesplicabile! — esclamò il notaio Mazza.
— Anzi, ora tutto diventa chiaro — riprese il cavalier Pergola.
E stettero un pezzo muti, a guardare il marchese che non cessava un minuto di agitare la testa, di stravolgere gli occhi, urlando con una specie di ritmo: “Ah! Ah!... Oh! Oh!„ mandando bava dalla bocca, intramezzando agli urli parole che rivelavano le rapide allucinazioni della mente sconvolta:
— Eccolo! Eccolo!.. Mandatelo via!... Ah! Ah! Oh! Oh!... Zitto! Siete confessore!... Voi non potete parlare! Siete morto!... Non potete parlare.... Nessuno deve parlare!... Ah! Ah! Oh! Oh!
— Sempre così! — disse Titta stralunato.
— Sempre così! — confermò mastro Vito. — E una settimana fa, passando davanti a la mia bottega qui vicino si era fermato su la soglia. — Bravo! Di buon’ora al lavoro, mastro Vito! — Se non si lavora non si mangia, eccellenza! — Ah Signore! Che miseria siamo!
E mentre, non ostante la terribile rivelazione che faceva compiangere il povero Neli Casaccio condannato a torto e morto in carcere, la gente da due giorni s’impietosiva in vario modo della pazzia del marchese, soltanto Zòsima rimaneva inesorabile, inflessibile, sorda a ogni ragione.
— No, mamma, non posso perdonare!... È stata un’infamia, una grande infamia!... Non capisci, dunque? L’ha amata fino a diventare assassino per essa!... Te lo dicevo! Io non sono mai stata niente, oh niente! per lui.
— Ma che si dirà di te?
— Che m’importa di quel che si dirà? Voglio andar via! Non voglio restare un altro solo giorno in questa sua casa... Mi fa orrore!
— Anche questa è pazzia! Sei la moglie. Ora egli è un infelice, un malato...
— Ha tanti parenti, ci pensino loro! Qui c’è la maledizione! Mi sento morire! Mi vuoi morta dunque?
— Oh, Zòsima!... Gesù Cristo ci comanda di perdonare ai nostri nemici.
— Sta’ zitta tu!... Non puoi intendere tu! — aveva risposto sdegnosamente alla sorella. — Se non mi volete in casa vostra....
— Figlia mia, che dici mai?
— Fino a diventare assassino.... per quella!
Non sapeva darsene pace. Il suo cuore traboccava di odio, quanto aveva traboccato di amore fino a pochi giorni addietro. Il sangue le si era cangiato in fiele. Ah! ora ella doveva, con più ragione, invidiare colei che poteva insuperbirsi apprendendo di essere stata amata tanto! Si sentiva umiliata, ferita mortalmente nella più delicata parte di sè stessa, in quel legittimo orgoglio di donna che si era formato un culto della sua prima ed unica passione, e aveva sofferto in silenzio, nascostamente, senza illusioni e senza speranze, tanti anni! Perchè non aveva dato ascolto all’ammonimento delle sue esitanze? Perchè si era lasciata indurre dalla baronessa e dalla madre? Non sarebbe stata, com’era stata, marchesa di Roccaverdina di nome soltanto! Nulla, nulla poteva più compensarla, consolarla! E doveva fingere, per l’occhio della gente? Sentirsi compassionare? Oh, chi sa quante in quel momento ridevano di lei! Tutte coloro che avrebbero voluto essere al posto di lei; parecchie, lo sapeva! No, no!
Ormai era finita! Se il marchese fosse guarito, non guarirebbe egualmente l’atroce piaga che le si era aperta nel cuore! Giorni fa, poteva confortarsi, lasciarsi lusingare dalle buone parole, dalle apparenze; ora, impossibile! Doveva stimarsi un’estranea in quella casa che neppure la sua presenza di moglie legittima aveva potuto ribenedire.... Mamma Grazia, povera vecchia, s’era ingannata!
E, ferma nella risoluzione di andar via, rispondeva:
— Questa sera, tardi, quando nessuno potrà accorgersene, con le sole vesti che ho indosso!... È inutile, mamma, non potrai persuadermi!
— Se tu lo vedessi, ne avresti pietà!
— Dio è giusto! È la mano di Dio che lo punisce!
— Castigherà anche te che non avrai fatto il tuo dovere.... Non ti riconosco, Zòsima! Tu, così buona!
— Mi ha resa cattiva lui; mi ha pervertita lui! Mi ha fatto diventare una creatura senza cuore! Peggio per lui!
La signora Mugnos, addoloratissima di quest’altra pazzia (tornava a qualificare per tale l’ostinazione della figlia), aveva voluto parlarne allo zio don Tindaro e al cavalier Pergola.
Il vecchio rispose crudamente:
— Lo ringrazia così del bene che le ha fatto?
Il cavalier Pergola alzò le spalle, borbottò una bestemmia e domandò:
— La casa, in mano di chi l’abbandona la casa?
— N’esce come vi è entrata! — replicò fieramente la signora, che in quel punto sentì ribollirsi in petto tutto l’orgoglio delle nobili famiglie Mugnos e De Marco — ella era una De Marco da ragazza — delle quali portava il nome.
Ciò non ostante, tornò ad insistere presso la figlia:
— Rifletti bene! Hai tante responsabilità!
— Ho riflettuto abbastanza! — rispose Zòsima.
— Consigliati col tuo confessore!
— In questo momento non posso ascoltar altro che il mio cuore. Non voglio essere un’ipocrita; sarebbe un’indegnità.... Oh, mamma!
E vestita di scuro, quasi da vedova, sotto lo scialle nero che le copriva la fronte, a sera avanzata ella scendeva assieme con la mamma, sorretta al braccio della sorella, la vecchia scala dell’atrio, e usciva nel vicolo buio sotto il palazzo Roccaverdina. Aveva voluto evitare di attraversare il corridoio e di passare davanti a l’uscio dello studio dove il marchese urlava giorno e notte da quattro giorni — assistito da Titta e da mastro Vito che si davano lo scambio — agitandosi su la sedia a bracciuoli, senza che mai il nome di Zòsima gli fosse venuto alle labbra.
Lo zio don Tindaro e il cavalier Pergola entravano, a intervalli, dal demente che non li riconosceva, e ne uscivano atterriti.
Ora, invece del dottor Meccio, accorso il primo giorno più per maligna soddisfazione che per zelo, lo visitava il dottor La Greca, medico di famiglia, soprannominato il Dottorino perchè piccolo e smilzo di persona. Alle corde egli aveva fatto sostituire larghe fasce, fino a che non fossero arrivati la camicia di forza e l’apparecchio per le docce mandati a comprare a Catania.
Con lui si poteva ragionare. Invece quel clericalaccio di San Spiridione aveva fatto andare su le furie il cavalier Pergola, ripetendogli più volte: — Caro cavaliere, qui si vede la mano di Dio!
— E la zia Mariangela dunque, che riammattiva a ogni gravidanza? E bestemmiava e imprecava, mentre quando ritornava in senno era la più buona e onesta donna? E gli altri pazzi? La mano di Dio! Esquilibrio di nervi, sconvolgimento di cervello prodotto dal pensiero fisso, fisso sempre su la stessa idea.
Il dottor La Greca andava di accordo con lui. E se quel fanatico di don Aquilante aveva davvero iniziato il marchese nelle pratiche spiritiche, ce n’era d’avanzo per spiegarsi perfettamente quel che avevano sotto gli occhi. Gli ospedali di Parigi, di Londra, di Nuova-York — egli affermava — rigurgitavano di spiritisti ammattiti, uomini e donne.
Per ciò il cavaliere aveva fatto capire all’avvocato di non farsi più vedere in casa Roccaverdina.
— Insomma, dottore, non si può far nulla? Dobbiamo stare a guardare?
Lo zio don Tindaro avrebbe voluto ordinazioni di rimedi, tentativi almeno. Gli urli del marchese lo straziavano; e si desolava alla risposta del dottore:
— È assai se riusciamo a farlo mangiare!
Dovevano imboccarlo, indurlo a inghiottire con minacce, ingozzarlo talvolta come una bestia. Opponeva resistenza, serrava i denti, agitava furiosamente la testa — Oh! Oh! Ah! Ah! — e il ritmo di questi urli si udiva fin dalla spianata del Castello, ora che il dottore aveva fatto trasportare il marchese in una stanza più larga e più ariosa, dove si era potuto rizzare comodamente l’apparecchio per la doccia, arrivato il giorno avanti.
Steso sul letto, con la camicia di forza, il demente sembrava avesse intervalli di calma, allorchè con gli occhi sbarrati, fissi in qualcuna delle sue continue allucinazioni, borbottava accozzaglie di suoni che avrebbero voluto essere parole; ma era calma illusoria. La forza dell’allucinazione lo domava, travagliandolo internamente, ed egli usciva da quello stato scoppiando in urli più violenti, più forti, in esclamazioni di terrore: — Eccolo! Eccolo!... Mandatelo via! Ah! Ah! Oh! Oh! Il Crocifisso!... Rimettetelo al suo posto, giù, nel mezzanino! Oh! Oh! Ah! Ah! — E i nomi di Rocco Criscione, di Neli Casaccio, di compare Santi di Mauro, facevano capire il tristo cumulo di impressioni che gli aveva sconvolto il cervello, dove la pazzia già si mutava in ebetismo, senza speranza di guarigione.
Lo zio don Tindaro, per la sua età, non resisteva alla tortura del miserando spettacolo; e il cavalier Pergola, rimasto in casa Roccaverdina, dopo quindici giorni non ne poteva più, anche perchè doveva badare ai proprii affari, e per quelli del cugino non sapeva come regolarsi. La imperdonabile risoluzione della marchesa lo faceva uscire in escandescenze:
— E si dicono cristiane! E si confessano e ingoiano particole! E...! E...! E...!
La sfilata degli improperii non finiva più, se qualcuno, venuto ad informarsi dello stato del marchese, tentava di scusare la povera signora che avea dovuto mettersi a letto appena giunta a casa, con febbre che durava ancora e faceva temere per la sua vita.
— Qui, qui era il suo posto!... E quel che ho detto a voi glielo direi in faccia!... Voglio che lo sappia!
Poteva durare più a lungo, così?
— Non durerà molto, — gli aveva risposto una sera il dottore. — L’ebetismo si aggrava con terribile rapidità.
Ed egli e il dottore che stava per accomiatarsi, erano rimasti stupiti e quasi non credevano ai loro occhi, vedendo apparire su l’uscio del salotto Agrippina Solmo, che Maria non era riuscita a far restare in anticamera.
— Dov’è?... Lasciatemelo vedere!
Maria teneva ancora afferrata per la falda della mantellina quella sconosciuta, parsale pazza quando le aveva aperto la porta d’entrata.
— Dov’è?... Me lo lascino vedere.... Per carità, cavaliere!
E gli si era buttata ai piedi, ginocchioni.