Il Marchese di Roccaverdina/Capitolo XXXIV
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XXXIV.
Il dottore si era lusingato che la vista di quella donna avesse potuto produrre qualche crisi nello stato del demente; ma avea dovuto sùbito disingannarsi.
Il marchese, fissàtala con quegli sguardi smarriti dove la pupilla sembrava già coperta da un leggero strato di polvere, era stato zitto alcuni istanti, concentrato, quasi frugasse in fondo alla memoria per trovarvi un lontano ricordo; poi, indifferente, aveva ripreso il triste ritmo dei suoi gridi: — Ah! Ah! Oh! Oh! — agitando la testa, lasciando colare dagli angoli della bocca la bava che Agrippina Solmo, pallida come una morta, coi neri capelli in disordine, buttata per terra la mantellina, si era messa ad asciugargli, senza una parola, senza una lagrima, con un pietoso stupore negli occhi che non si staccavano dal viso sfigurito del suo benefattore; non lo chiamava altrimenti.
Aveva pregato di restare là l’intera nottata. E lo avea vegliato, ripulendogli le labbra, in piedi davanti al letto, non sentendo stanchezza, con un groppo di pianto che la soffocava e in certi momenti le annebbiava la vista, ma non giungeva a prorompere; con le mani dolorosamente incrociate, e il petto ansante di angoscia a quel continuo agitare della testa con cui il marchese accompagnava gli Ah! Ah! Oh! Oh! quando le allucinazioni gli concedevano qualche ora di tregua.
— Andate a riposarvi; noi abbiamo dormito a bastanza — le disse Titta rientrando nella camera verso l’alba.
— Ah, comare Pina! Chi lo avrebbe mai sospettato! — esclamò mastro Vito, ancora un po’ imbalordito dal sonno.
— No! Lasciatemi stare qui!... — ella rispondeva senza neppure voltarsi.
— E a voi, chi è venuto a dirvelo fino a Modica? — domandò Titta.
— Un signore di Spaccaforno.... Gliel’aveva scritto un amico di qui. Die’ la notizia a mio marito.... E sono accorsa, con la morte nel cuore.... Due giorni di viaggio, con un garzone. Mi pareva di non arrivar mai!
— Andate a riposarvi.... C’è un letto nell’altra stanza....
— Lasciatemi stare qui, mastro Vito.
— Comare — egli disse, esitante — ora è inutile fingere.... Voi già lo sapevate.... di Rocco!...
— Ve lo giuro, mastro Vito! Niente!... Neppure un sospetto!... Avevo anzi voluto andarmene da Ràbbato, per levarmegli di mezzo. Il marchese non voleva più vedermi, mi trattava male.... Che colpa ne avevo io? Era stato lui.... Io avrei voluto morire qui, anche da serva, per gratitudine.... E sua zia pretendeva che avessi fatto ammazzare io Rocco Criscione.... per tornare col marchese e farmi sposare!... Il Signore non gliene chieda conto là dove si trova! La colpa è dei suoi parenti, della baronessa soprattutto.... Ora non sarebbe in questo stato!... Che strazio, mastro Vito!
— Potete vantarvelo!... Vi ha voluto bene!
— È vero! È vero! — ella rispose, scotendo tristamente la testa, asciugando la bava dell’infelice che aveva ammazzato per gelosia di lei e che ora non la riconosceva più, e smaniava: “Ah! Ah! Oh! Oh!„ tenuto stretto e immobile dalla camicia di forza. Vergine Santa, che pietà!
Il cavalier don Tindaro, la mattina, apprendendo dal genero l’arrivo della Solmo, gli aveva detto:
— Hai fatto male a farla entrare.
— Per dispetto della marchesa!... E poi, dove trovare in questo momento una persona più fidata? Lo ha vegliato, sola, tutta la nottata.
— La marchesa può mandare a scacciarla. È lei la padrona.
— Ha perduto ogni suo diritto, abbandonando casa e marito. Io ammiro immensamente questa povera donna che ha fatto due giorni di strada, a cavallo, quasi senza fermarsi, soltanto per vederlo. Ieri sera, quando si è presentata e si è buttata ginocchioni, supplicante, io... che non sono di cuore tenero.... io e il dottore.... eravamo commossi come due ragazzi. Non abbiamo saputo dirle: — Tornatevene donde siete venuta.— Sarebbe stata una gran crudeltà.
— Ma ora....
— Ora, la lasceremo qui, fino a che non vengano a scacciarla via, se ne avranno il coraggio. È stata l’amante? E voi avete tali scrupoli?
— Non li chiamare scrupoli... Il marchese di Roccaverdina non deve morire con quella donna al capezzale... Sarebbe uno scandalo!
— Deve morire come un cane, alle mani di gente prezzolata, di Titta e di mastro Vito!... Questo, ah! non vi sembra scandalo! E poi dite che io sono uno scomunicato!... Ma c’è da rinnegare cento Cristi vedendo simili cose!...
Tre giorni dopo, l’ebetismo aveva fatto passi da gigante. Il marchese, liberato dalla camicia di forza, restava seduto su la seggiola a bracciuoli, cupo, silenzioso, con le mani sui ginocchi.
Agrippina Solmo lo vestiva, gli lavava la faccia, lo pettinava, gli dava da mangiare, con cura materna. Certe volte, al suono della voce che lo chiamava: — Marchese! Marchese! — che lo sgridava con dolcezza quando si ostinava a rifiutare il cibo, egli rivolgeva lentamente la testa verso di lei, la guardava sottecchi, con aria sospettosa, quasi quella voce ridestasse dentro di lui reminiscenze di lontane sensazioni, che però dileguavano rapidissime e lo facevano ricadere nella cupa immobilità per ore ed ore.
E nella giornata gli si sedeva vicino; e mentre l’animalità di quel corpo sembrava di sentire qualche godimento pel tepore dell’occhiata di sole che lo investiva presso al balcone, ella gli parlava piano, per sfogo, quantunque sapesse di non essere capita:
— Perchè ha fatto così, voscenza? Perchè non mi disse mai una parola?... Ah, se mi avesse detto: “Agrippina, bada!„ Mezza parola sarebbe bastata! Non era voscenza il padrone? Che bisogno c’era di ammazzare?... È stato il destino! Chi credeva di far male? Ah, Signore! Ah Signore!...
Ella si rallegrava di vederlo tranquillo, di non più udirlo gridare nè smaniare. Le sembrava che questo fosse miglioramento. E rimaneva dolorosamente maravigliata che il dottore ogni volta venisse, guardasse, scotesse la testa e andasse via alzando le spalle, senza risponderle nemmeno quando gli domandava:
— Va meglio, è vero? Ora è docile come un agnellino.
Si sentiva però stringere il cuore vedendogli voltare e rivoltare lentamente le mani e osservarle a lungo e tastare le punte delle dita a una a una quasi volesse contarle, incurante della bava che riprendeva a colargli. Gliela asciugava col fazzoletto e ne seguiva ogni movimento della testa e degli occhi per scoprirvi qualche lampo di coscienza allorchè gli ripeteva:
— Sono io! Agrippina Solmo! Non mi riconosce, voscenza? Sono venuta a posta; non mi muoverò più di qui!...
Poi, udendogli mugolare qualche parola, gli s’inginocchiava davanti, prendendolo per le mani che brancicavano i calzoni, e tentava di farsi fissare da quegli occhi che parevano inerti.
— Sono io; Agrippina Solmo!... Faccia uno sforzo, voscenza! Si ricordi, si ricordi!... Mi guardi in viso!
Lo sollevava pel mento su cui la barba era già cresciuta ispida, pungente; gli scansava dalla fronte i capelli cascatigli giù nel tenere sempre abbassata la testa come appesantita per la malattia del cervello; e all’ultimo, rizzàtasi con scatto disperato, nascondeva la faccia tra le mani convulse, balbettando:
— Che castigo, Signore! Che castigo!
E intendeva di dire pure per sè, quasi gran parte della colpa fosse stata sua, se il marchese aveva ammazzato Rocco Criscione.
Titta, di tratto in tratto, veniva a tenerle compagnia.
— Voi non l’avete visto nei primi giorni. Non si chetava un momento! Sono stato tre giorni e tre notti senza chiudere occhio!... Faceva terrore.
— E la marchesa? Con che cuore ha potuto abbandonarlo?
— Ringraziate Iddio!... Se ci fosse stata lei, non sareste qui....
La osservava. Era tuttavia bella, meglio della marchesa, con quel viso affilato, bianco come il latte e quegli occhi neri e quei folti capelli nerissimi, alta e snella. E parlando di lei con mastro Vito, Titta dichiarava che, secondo lui, la prima pazzia il marchese l’aveva commessa dandola per moglie a Rocco che non se la meritava.
— Non sapete il patto? Non doveva toccarla neppure con un dito.... Per questo il marchese lo ha ammazzato.
— Aveva messo l’esca accanto al fuoco.... Che avreste fatto voi?
— Capriccio di gran signore!... A voi e a me non sarebbe passato per la testa quel patto. E n’è andato di mezzo un innocente! La marchesa non sa che la Solmo è qui. Verrebbe a cavarle gli occhi. Maria mi ha raccontato di averle sentito dire alla madre! — Non lo posso perdonare! È diventato assassino per quella donna! — Ed ha voluto andarsene.
— Il marito è sempre marito! In quello stato poi!
— Dicono che ha rinunziato alla dote per mano di notaio.... Il marchese le aveva assegnato Poggiogrande.
— Per mano di notaio?
— Ci credete voi? Io vorrei sapere intanto chi comanderà qui e provvederà ai fatti miei.
Lo zio don Tindaro e il cavalier Pergola venivano tre, quattro volte nella giornata, in compagnia del dottor La Greca.
— Ah dottore! Non vuole mangiare più! Serra i denti, si volta di là; come fare?
— Ci siamo!
Il dottore non die’ altra risposta; e Agrippina Solmo, che ne comprese il significato, si buttò su una seggiola, con le mani nei capelli, singhiozzando:
— Figlio, figlio mio!
La desolata tenerezza di queste parole non commosse il vecchio zio del marchese, che le si avvicinò e la prese per un braccio, riguardosamente ma severo:
— Dovete capirlo — le disse, — non potete restare più qui. Mastro Vito, pensateci voi.... Poveretta!
Ella gli sfuggì per baciare e ribaciare quelle mani quasi inerti che avevano ammazzato per gelosia di lei; e pareva volesse lasciarvi tutta l’anima sua grata e orgogliosa di essere stata amata fino a quel punto dal marchese di Roccaverdina.
— Figlio! Figlio mio!
E si lasciò trascinar via da mastro Vito, senza opporre resistenza, umile, rassegnata com’era stata sempre, convinta anche lei che non poteva restare più là, perchè il suo destino aveva voluto così!
Roma, 23 dicembre 1900.
Fine.