Il Marchese di Roccaverdina/Capitolo XXXII
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XXXII.
Don Aquilante, venuto per parlargli delle minacciate procedure del Banco di Sicilia, si era sentito interrompere dal marchese con l’inattesa domanda:
— Lo avete più riveduto?
— Chi?
— Lui!... E quell’altro?
Parlava basso, quasi avesse paura di essere udito da qualcuno; ed erano loro due soli nello studio, e l’uscio era chiuso. E dicendo: lui e quell’altro, ammiccava strizzando un occhio. A don Aquilante parve molto curioso che il marchese avesse voglia di scherzare sul punto di ragionare di affari seri; pure rispose:
— Non me ne sono più occupato. Ma di questo riparleremo un’altra volta; per ora pensiamo al Banco di Sicilia.
— Sì, pensiamo al Banco di Sicilia.... Pensateci bene — soggiunse il marchese.
E rimase assorto, con gli sguardi fissi nel vuoto. Don Aquilante lo guardò stupito.
— Vi sentite male? — gli domandò esitante.
— Chi ve lo ha detto? — fece il marchese riscotendosi. — Ho un chiodo, qui, proprio nel centro della fronte. Passerà. Non dormo da parecchie notti, come se mi tenessero due dita appuntate su le pàlpebre per impedire che si chiudano.
— Tornerò domani; sarà meglio.
— Sarà meglio — replicò il marchese distrattamente.
Don Aquilante uscì dallo studio scotendo la testa. Passando davanti a l’uscio del salotto, si sentì chiamare:
— Avvocato!
— Oh, signora marchesa!...
— Andate già via? Sedete.
— Tornerò domani. Il marchese è un po’ sofferente, dice.
— Infatti....
— Si strapazza troppo....
— Io non oso neppur domandargli come sta; s’irrita, non risponde.
— Effetto dell’insonnia.
— E della debolezza; mangia così poco da qualche giorno! Sono impensierita. Sta chiuso nello studio, rovistando carte.... La vostra visita, scusate, non mi rassicura. Affari che vanno male, forse?
— Li ha un po’ trascurati. I tempi sono duri; e il marchese non è abituato a contare i quattrini che spende. Quella benedetta Società Agricola ne ha ingoiati molti. Se mi avesse dato retta! Io so come vanno, disgraziatamente, queste cose tra noi. Il marchese però vuol sempre fare di sua testa!...
— Non si tratta di case gravi, spero.
— Ma che possono diventare gravi, se non si ripara con prontezza. La storia della palla di neve; ròtola, ròtola e s’ingrossa e si riduce valanga.
— Dev’essere preoccupato di questo....
— Non c’è motivo per ora.
— Lo sa egli? Ve lo domando perchè, ripeto, il suo contegno m’impensierisce. Non l’ho mai visto così concentrato, così silenzioso! Da ieri, ha detto appena una ventina di parole; e ho dovuto strappargliele di bocca.
— È solido, ha salute di ferro; potete stare tranquilla intorno a questo punto. Figuratevi! Aveva cominciato a scherzare con me, al suo solito, ma era uno sforzo.
— Ieri non ha voluto vedere lo zio Tindaro venuto a trovarlo.
— Sono stati sempre un po’ in urto. Anche lui, con quelle sue antichità!
— Da che il marchese gli ha permesso di scavare a Casalicchio, oh!... nepote mio, qua! nepote mio, là! Ieri appunto veniva per regalargli una statuina di terracotta trovata negli scavi la settimana scorsa. Guardate, quella lì; io non me ne intendo. A sentire lo zio Tindaro, vale un tesoro.
— Bella e ben conservata. Cerere; si capisce dal mazzo di spighe che porta in braccio.
— E il marchese intanto, quando gliela mostrai, mi rispose: — Buttatela via! Volete giocare con la bambola? Mio zio è pazzo.
Don Aquilante sorrise.
— Che vi ha detto? Che si sente? — domandò la marchesa.
— Un po’ di mal di capo, niente altro.
Da quattro giorni, il contegno del marchese era così strano, che Zòsima non sapeva che cosa pensare o fare. Ella aveva promesso: — Mai più! Mai più! — e temeva che le sue parole non provocassero qualche scena violenta come l’altra volta. Chi sa? Forse egli intendeva di metterla al cimento. E questo dubbio la rendeva timida, riguardosa in ogni atto, in ogni parola.
Il massaio di Margitello aveva chiesto ordini intorno a certi lavori da intraprendere. Doveva attendere il padrone? Fare di suo capo? E il marchese era entrato in furore appena Titta aveva aperto bocca:
— Dice il massaio....
— Bestia tu e lui! Bestie! Bestie! Bestie! Dovrei mandarvi via! Bestioni! E, chiùsosi nello studio, sbatacchiando con impeto l’uscio, aveva continuato a gridare ancora: Bestie! Bestie! con quel vocione che in casa non si faceva udire così forte da un pezzo.
A cena, quella sera, mangiò poco e di mala voglia.
— Questa.... so che vi piace — disse la marchesa mettendogli nel piatto un’ala di pollo arrosto.
— Via, imboccatemi, come un bambino! — esclamò il marchese con tono sarcastico.
E allontanò il piatto, sdegnosamente.
Era pallido, con gli occhi torvi, che sembrava guardassero senza vedere, anche quando si fissavano intensamente su qualche punto, sur un oggetto, in viso a una persona, come faceva in quel momento. Allora la marchesa, turbata da quegli sguardi, ebbe l’impulso di dirgli:
— Voi non state bene, Antonio.... Che vi sentite?
— È vero — egli rispose docilmente — non sto bene.... Non mi fa star bene!... Non vuole che io stia più bene!....
— Chi? Chi non vuole?...
— Ah! Nessuno, nessuno!... Questo chiodo qui!
E fece atto di strappare stizzosamente con la mano il chiodo che si sentiva conficcato nella fronte.
— Mettetevi a letto; il riposo vi gioverà — soggiunse la marchesa.
— Andiamo, andiamo a letto.... Venite a letto anche voi.
Si era rincantucciato con le ginocchia piegate, quasi raggomitolato, con le mani davanti agli occhi, dopo di essersi lasciato insolitamente aiutare a spogliarsi dalla marchesa; e parve che si fosse sùbito addormentato. Ella stette a osservarlo, col cuore gonfio dal tristo presentimento di grave malattia. E pel timore che, entrando nel letto anche lei, non le accadesse di svegliarlo, si sedette su la seggiola dappiè, attendendo. Pregava mentalmente, e sussultava ogni volta che il marchese riprendeva a mugolare nel sonno parole incomprensibili. In un momento di calma del dormente, ella andò di là, e ordinò a Titta che prevenisse il dottore per domattina e avvertisse anche la signora Mugnos.
— Sta male il padrone? — fece Titta.
— È un po’ indisposto. Dite così alla mamma.
E più tardi, ordinato a Maria di andare a letto, si era affrettata a tornare in camera.
— No, no... Non lo fate entrare!... Chiudete bene l’uscio! — balbettò il marchese. — Venite qui, davanti a la sponda; così non potrà tenermi le dita su le pàlpebre per non farmi dormire.... A voi non può nuocere.... Non siete stata voi!...
Con gli occhi sbarrati, le mani brancolanti e un trèmito per tutta la persona e nella voce, il marchese si agitava sotto le coperte, voltandosi inquietamente da un fianco all’altro, alzando la testa dai guanciali per rivolgere attorno sguardi di sospetto e di terrore, fissando la marchesa quasi volesse interrogarla e non osasse.
Ella non sapeva che cosa dirgli, un po’ impaurita da quelle parole di delirio che il marchese tornava a ripetere; e gli riaggiustava le coperte, cercando di impedire così gli scomposti movimenti di smania con cui egli accompagnava le parole.
— È andato via! Va, viene.... Don Aquilante dovrebbe scacciarlo....
— Glielo dirò.... Lo scaccierà — rispose la marchesa per secondarlo ed acchetarlo.
Tacque, senza però levarle i sospettosi sguardi di addosso, e a bassa voce, cautamente, riprendeva:
— Nessuno mi ha visto.... Con quel gran vento!... Non c’era anima viva per le vie.... E, infine.... un confessore ha la bocca sigillata.... È vero?
— Senza dubbio.
— E, infine.... i morti non parlano.... È vero? Era giallo nel cataletto, con gli occhi chiusi, la bocca chiusa, le mani incrociate. Come si chiamava!... Ah! Don Silvio....
Che significavano quei ragionamenti? La marchesa non capiva a quali circostanze accennassero; essi intanto le facevano intravedere qualche trista cosa, nel buio; e avrebbe voluto dissiparlo, spinta da penosa curiosità.
Ma il marchese già taceva di nuovo o balbettava parole che non potevano avere nessun senso per lei:
— Sì, hanno giurato?... Perchè hanno giurato? Volevano ridersi di me?
Tornava ad agitarsi, a smaniare, a sconvolgere le coperte. Una sconcia parola gli uscì di bocca. Non poteva essere rivolta a lei. Egli la ripetè con accento incalzante, quasi la sputasse in faccia a una donna, lontana; si capiva dall’espressione e dal gesto.... La marchesa ebbe una stretta al cuore. L’idea della malìa, che l’aveva sconvolta il giorno in cui erano arrivate la cesta e la lettera della Solmo, le si riaffacciò alla mente, atterrendola. Ne vedeva già gli effetti?
E die' un grido, chiamando: — Maria! Titta! — allo sbalzo del marchese che, saltato giù dal letto, cominciava frettolosamente a rivestirsi. Aperse l’uscio, chiamando più forte finchè non sentì rispondere; poi, vincendo la paura che l’atto del marchese le ispirava, tentò di impedirgli che finisse di vestirsi:
— Antonio! Marchese! — pregava afferrandolo per le braccia, incurante delle rudi scosse con cui egli la respingeva.
Ritto, con le labbra serrate, e gli occhi aggrottati, il marchese respingeva più vigorosamente i tentativi di Maria e di Titta accorsi mezzi vestiti in aiuto della padrona.
— Delira.... È la febbre.... — ella spiegava.
Maria era stata rovesciata su la sponda del letto dal vigoroso movimento d’un braccio del marchese, e Titta, stordito da un manrovescio, non osava più di accostàrglisi.
— Antonio! Antonio!... Per carità! — supplicava la marchesa.
Egli la guardava intento ad abbottonarsi il panciotto, e non mostrava di riconoscerla. E appena ebbe finito di infilarsi la giacchetta, scostò la marchesa davanti a sè con gesto violento, e uscì di camera, facendo sbattere al muro Titta che cercava di trattenerlo.
— Oh Dio! Che fare? Dove va?... Chiamate gente! Titta, chiamate gente!
Nella gran confusione, non sapevano dove rintracciarlo; Titta, col lume in mano, la marchesa dietro e Maria che invocava: — O Bella Madre Santissima! — e non sapeva dir altro.
— Chiamate gente, Titta! — insisteva la marchesa.
Visto aperto l’uscio dell’anticamera, Titta si affacciò sul pianerottolo della scala....
— Ha preso il fucile! Ah, Madonna! — egli esclamò. — Va fuori!
E tutti e tre furono su la via, gridando, correndogli dietro, quasi senza sapere quel che facessero. Egli scendeva affrettatamente per la strada sotto il Castello, sordo agli appelli della marchesa e di Titta, col fucile a bandoliera.
— Vado io solo.... Voscenza torni a casa.... Ecco gente!
Tre contadini erano accorsi alle grida. — La febbre.... Il delirio!... Raggiungetelo!... Fermatelo!
Alla Cappelletta, la marchesa si abbandonava, singhiozzante e sfinita dalla corsa, tra le braccia di Maria; non avevano potuto raggiungerlo.
Per alcuni istanti la marchesa potè udire la voce di Titta che gridava: — Signor marchese! Eccellenza! — e il rumore dei passi dei contadini che correvano assieme con lui; poi, nell’oscurità, udì soltanto lo stridere delle ruote di un carretto che saliva lentamente per lo stradone; e l’abbaio di un cane.