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e De Marco — ella era una De Marco da ragazza — delle quali portava il nome.

Ciò non ostante, tornò ad insistere presso la figlia:

— Rifletti bene! Hai tante responsabilità!

— Ho riflettuto abbastanza! — rispose Zòsima.

— Consigliati col tuo confessore!

— In questo momento non posso ascoltar altro che il mio cuore. Non voglio essere un’ipocrita; sarebbe un’indegnità.... Oh, mamma!

E vestita di scuro, quasi da vedova, sotto lo scialle nero che le copriva la fronte, a sera avanzata ella scendeva assieme con la mamma, sorretta al braccio della sorella, la vecchia scala dell’atrio, e usciva nel vicolo buio sotto il palazzo Roccaverdina. Aveva voluto evitare di attraversare il corridoio e di passare davanti a l’uscio dello studio dove il marchese urlava giorno e notte da quattro giorni — assistito da Titta e da mastro Vito che si davano lo scambio — agitandosi su la sedia a bracciuoli, senza che mai il nome di Zòsima gli fosse venuto alle labbra.

Lo zio don Tindaro e il cavalier Pergola entravano, a intervalli, dal demente che non li riconosceva, e ne uscivano atterriti.

Ora, invece del dottor Meccio, accorso il primo giorno più per maligna soddisfazione che per zelo, lo visitava il dottor La Greca, medico di famiglia, soprannominato il Dottorino perchè piccolo e smilzo di persona. Alle corde egli aveva fatto sostituire larghe fasce,