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Avevano dovuto picchiare più volte prima che venissero ad aprire il portoncino, chiuso perchè la folla dei curiosi non invadesse la casa.
— Ma come? Ma come? — ripeteva don Tindaro, nel salotto dove la marchesa era svenuta per la terza volta quando egli vi entrava assieme col notaio.
Fra tante persone, nessuno gli dava retta. La signora Mugnos e Cristina, aiutate dal cavalier Pergola, portavano in camera la marchesa che sembrava un cadavere, con le braccia penzoloni, gli occhi chiusi, bianca bianca in viso.
— Ma come? Ma come?... Dottore!
— È di là, nello studio, — rispose il dottor Meccio. — Pazzia furiosa! Vi ricordate, notaio, in Casino, quella volta? Eh? Eh? Che ne dite ora?
E seguì le donne in camera per soccorrere la svenuta.
Dal corridoio, don Tindaro e il notaio udivano gli urli del marchese, quantunque l’uscio dello studio fosse chiuso; il cavalier Pergola li aveva raggiunti.
— Ci sarebbe voluto la camicia di forza!... Ma in questo porco paese dove trovarla?... Abbiamo dovuto legarlo su una seggiola a bracciuoli.... mani e piedi! Chi poteva mai supporre...!
Lo zio don Tindaro non osava d’inoltrarsi, inorridito dalla vista dell’infelice marchese che si dibatteva urlando scomposte parole, con la bava alla bocca, i capelli in disordine, agitando qua e là la