Il Governo Pontificio o la Quistione Romana/Capitolo 3

Capitolo 3

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CAPITOLO III


Patrimonio dello Stato temporale.


Gli Stati del Papa non han limite naturale e sembrano campati sopra la carta a casaccio, cui la bonarietà europea ha giunto sanzione. Separati da Modena e da Toscana per mezzo di una linea ideale; la parte meriggiana s’addentella nel reame napolitano, e la provincia di Benevento siede, quasi di straforo, fra gli Stati di re Ferdinando, come già il contado Venosino nel suolo francese, quando Berta filava. Il Papa a sua volta accoglie in sul proprio la repubblica di San Marino, vero ghetto di democrazia. [p. 16 modifica]Non riguardai mai la carta del classico Stivale sbrandellato, come Dio vel dica, in tanti tocchi e si disuguali, secondo l’altrui ghiribizzo, senzachè mi spuntasse nella mente un lieto riflesso.

La natura che nel mettere al mondo gl’Italiani s’è quasi sconciata per loro apprestare la sede, si è piaciula di cingerla degli altissimi baluardi alpini, e separarla da ogni altra terra col mare, dandole cosi forma scolpita e quasi personale esistenza. Nè alcuno interno spartimento fu cagione agli Italiani di scindersi in varie popolazioni; e l’Appennino, che tutta corre la penisola, non è ostacolo insormontabile agl’inquilini de’ due versanti di porgersi la destra. Le divisioni che esistono, sono tutte a capriccio, segnate o dal talento brutale dell’età di mezzo, o dalla mano tremante della diplomazia, che disfà ciascun giorno il lavoro compiuto ieri. Qui solo una famiglia nutrica il suolo ferace; un linguaggio risuona da notte a meriggio; pugne tutti egualmente amor di gloria derivata dai gesti dei loro maggiori e dalla rimembranza della conquista romana, che giovineggiano nella loro fantasia e ne scaldano il cuore a cento doppi più che i rancori del secolo quartodecimo.

Di che ho preso argomento a ficcarmi in capo che le itale popolazioni emancipate da ogni altra, per ragion geografica e per ragione storica (due potenze più dell’Austria poderose e indomabili), un di o l’altro unificherannosi. [p. 17 modifica] Ma riedo alle mie pecorelle, che riconoscono mandriano il Papa.

Il reame dei cherici si distende in una superficie di quattro milioni cenventinovemila quattrocensessantasei ettare, secondo la statistica pubblicata per monsignor Milesi, oggidì cardinale. In cifre rotonde possiam dire che i capi della Chiesa amministrano temporariamente quattro milioni di ettare o, che torna ad un medesimo, quarantamila chilometri quadrati.

Nessuna regione di Europa può contenderle il primato della ricchezza, nè può stimarsi più atta all’agricoltura, alle industrie ed ai commerci.

Corsa, or dicevamo, dagli Appennini che la partono in due metà quasi pari, il dominio dei Papi si accliva dolcemente di quindi all’Adriatico, di quinci al Mediterraneo; ed in essi mari ha porti eccellenti, Ancona a mattino, Civitavecchia a sera. Se Panurgo avesse posseduto coteste città, avrebbe creato una flotta: i Fenici ed i Cartaginesi non ne avevano di vantaggio.

Famoso fiume noto col nome di Tebro o Tevere ne bagna il piovente occidentale quasi in tutta la sua distesa. E ai bei tempi romani ed etruschi era grande arteria dell’interno commercio: gli storici latini il videro veleggiato fino a Perugia; ed oggidi a malapena si lascia risalire fino a Roma: ma se lo si inalveasse a modo, e gli si risparmiasse l’ufficio di cloaca di tutte immondezze e [p. 18 modifica]brutture, il Tebro tornerebbe vantaggioso, e più rado gl’irritati fiolti allagherebbono le circostanti campagne. Il piovente dell’Adriatico è allietato da parecchi corsi di acque, che volgerebbonsi in torrenti di ricchezza ove l’Amininistrazione se ne desse un pensiero al mondo.

La distesa delle pianure é a maraviglia fertilissima: il fromento vi attecchisce rigoglioso nella quarta parte; è già di presente rende quindici per centinaio nelle terre migliori, tredici nelle mezzane, nove nelle magre e povere. I campi incolti si convertono di per sė, senza aiuto di opera umana, in pascoli ubertosi; e solo che vi si spenda un pocbissimo di cure dattorno, la canape sorge a maravigliosa altezza. La vite ed il gelso talliscono dovunque; i colli e i monti sono lieti di oliveti producenti le migliori olive d’Europa; imperocchè il clima vario, ma dolce, vi matura i prodotti di svariatissime latitudini: il palmizio e l’arancio bene adoperano nella metà dello Stato. Ricche mandrie di armenti maravigliose a vedere formicolano lunghesso le pianure nel verno, popolano i monți la state. E a si lieta e mité guardatura di cielo cavalli, vacche e pecore moltiplicano all’aperto aere, senz’uopo di presepi. Le maremme sono abitate da torme di bufoli d’India. Checchè all’uom necessita per lo vitto e vestilo rampolla spontaneo o con lieve cura in cotesto suolo favorito e prediletto alla natura: e se gli uomini hanno [p. 19 modifica]distretta di pane o di camicie, la natura non può esserne appuntata, e manco la provvidenza che li ha serviti di coppa e coltello.

Incredibile abbondanza di materie prime forniscono alle industrie i tre regni: canape ai fonaiuoli, ai filatori, ai tessitori; vino ai distillatori; Olive ai fabbricanti olii e saponi; lana pei pannainoli e tappetai; cuoio e pelli pei conciatori, calzolai e guantai, e seta a isonne per le industrie di lusso. Scarse per avventura le miniere di ferro; ma a quattro passi ve ne approvigionate all’isola d’Elba, che è di qualità eccellente. Le miniere di rame e di piombo, che gli antichi coltivavano a grande utilità non sono forse esauste. Sette ad otto centinaia di migliaia ettare di foreste e selve forniscono abbondevole combustibile: e le navi che solcano l’oceano non hanno a trasportar per lo mare nespole mature, ma lignite da Newcastle. Zolfo tirasi dalle viscere del suolo vulcanico di parecchie provincie, e l’allume della Tolfa è il più prezioso del mondo. Civitavecchia ne porge il quarzo di che trarremo kaolino per i prodotti manifatturati di porcellana. Le cave ne provvedono materiali di costruzione, non escluso marmo e pozzolana, che è cemento romano quasi bello e fatto.

Il catasto del 1847 ragguagliava a meglio di ottocensessanta milioni le proprietà rurali sottomesse al Papa; e nel conto mancava Benevento, che non è lieve giunta. Arroge, che messere do ministro del commercio e [p. 20 modifica]dei lavori pubblici in buon punto ne avvisa che la tassa delle possessioni non agguaglia a pezza il terzo del valore reale. Di che esce spontanea conseguenza che la dovizia agricola dello Stato somma a due miliardi seicento dieci milioni. Capitale cotesto che se rendesse ciò che dee rendere, se le industrie ed i commerci aumentassero il reddito, secondo ragione, col movimento e col lavoro, il signor di Rothschild torrebbe il danaro pontificio al sei per centinaio, e se ne terrebbe.

Ma non è tutto; e poichè mi vi trovo, la vuo’ dire. Alle naturali dovizie conviene arrogere l’eredità degli antichi. I poveri pagani di Roma la grande han lasciato il proprio retaggio al Papa, che li danna; acquidotti giganteschi, prodigiosi cunicoli ed emissarii, vie tuttodi in uso in più luoghi dopo venti secoli di servigio; han dessi legato al Papa il famoso Coliseo, affinché lo convertisse in bigoncia e pulpito da cappuccini; hannogli legato l’esempio di ordini amministrativi ai quali niun riscontro può fare la storia: ma il Papa redò si bene, ma con benefizio d’inventario.

Ne vo’ dissimulare che cotesto suolo maraviglioso m’è paruto in sulle prime coltivato all’uso de’ barbari. Da Civitavecchia a Roma, per l’estensione di sessantanove chilometri, la coltura faceva di sè quella comparita che nei deserti dell’Africa le rare oasi: alcun prato fra incolti terreni, fra boscaglie e [p. 21 modifica] burroni alcun campo arato da buoi; gli è questo lo spettacolo che s’offre allo sguardo di chi transiti cotesti luoghi sconsolati nell’aprile. Diresti che l’uomo vi è passato come la folgore o ľuragano, per abbattere e schiantare, e che gli armenti ne han tolto possessione dopo di lui.

I dintorni di Roma sono getto del medesimo stampo. Ampia zona di incolti, ma non isterili campi cinge cotesta metropoli; e la cultura che dappresso è nulla, o v’entra di straforo e a scappellotti: man mano che mi dilungavo dalle mura dell’eterna Città facea capolino, timida prima, dipoi ricca, comecchè inelegante. Direbbesi che Cerere e Pale, e tutta la famiglia delle campestri divinità non facciano a fidanza con S. Pietro, e si tengano da essolui lontane. Le vie che presso Roma hanno sembianza di letto di torrenti scemi di umore, vannosi a grado a grado immegliando, e la solitudine malinconica della campagna romana cede il campo a spessi agricoltori che attendono ai lavori in giolito. Le taverne meglio arredate, si che ne trasecolai. Insomma, finchè m’aggirai nel versante del Mediterraneo, che ha Roma per centro, e che più accoglie degl’influssi suoi, l’aspetto della regione era triste e ad ogni passo alcun che era a riprendere. Immaginai financo che quei poveri agricoltori si peritassero di far troppo rumore, e di destare i frati al suono dei badili.

Ma superato a gran mercė l’Appennino, e [p. 22 modifica]perduta di vista la cupola di Michelangelo, cominciai a respirare un’atmosfera allietata dal lavoro e dal buon volere, si che ne fui consolato. Non solamente zappate apparivano le terre, ma alletamate e, che più monta, piantate. L’odor dei concimi mi solleticò piacevolmente l’olfato, chè n’aveva perduta ogni traccia, non essendo sistema di concimazione nell’opposto versante. L’aspetto degli alberi e l’uso cui erano destinati mi andava a sangue. In un campo seminato a canape o a frumento od a trifoglio, vaghi olmi distesi in linea erano coronati da ubertosa vendemmia; tal fiata degli olmi tenevano luogo i gelsi. Quanta dovizia accolta in breve spazio! Qui avete pane e vino; qui camicie e vestimenta seriche per madonna; qui vettovaglia pe buoi, chè anche l’olmo provvede il foraggio! Bella chiesa è San Pietro; ma campo ben coltivato è cosa maravigliosa.

E cosi andando ratto giunsi fino a Bologna sempre lieto della fecondità del suolo e della bravura dell’uomo. Ma poco di poi ebbi a ripigliare il cammino di S. Pietro e reddire nelle sconsolate campagne.

Ampio tema a lunghe riflessioni fu questo; e mentre meditavo, un’idea geometrica s’infiltrò di celato nel mio pensiero, e mi addolorò. Parvemi addimostrato, come la legge di Keplero, alla evidenza, che i soggetti del Papa erano in ragion diretta del quadrato delle distanze che separali dalla capitale; o, a parlare più alla buona, che l’ombra dei [p. 23 modifica]monumenti romani aduggia la cultura dei campi. Rabelais asseriva per esempio che l’ombra dei monasteri è feconda; e sarà; ma in tutt’altro significato.

Esposto il dubbio ad un venerando ecclesiastico, questi mi trasse d’errore dicendomi: «La regione non è punto incolta; e fosselo, la colpa è tutta dei sudditi pontificii: gli è un popolo colesto infingardo per natura: eppure v'ha ventunmila qualtrocenquindici frati che gli predicano la necessità del lavoro!»