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roni alcun campo arato da buoi; gli è questo lo spettacolo che s’offre allo sguardo di chi transiti cotesti luoghi sconsolati nell’aprile. Diresti che l’uomo vi è passato come la folgore o ľuragano, per abbattere e schiantare, e che gli armenti ne han tolto possessione dopo di lui.

I dintorni di Roma sono getto del medesimo stampo. Ampia zona di incolti, ma non isterili campi cinge cotesta metropoli; e la cultura che dappresso è nulla, o v’entra di straforo e a scappellotti: man mano che mi dilungavo dalle mura dell’eterna Città facea capolino, timida prima, dipoi ricca, comecchè inelegante. Direbbesi che Cerere e Pale, e tutta la famiglia delle campestri divinità non facciano a fidanza con S. Pietro, e si tengano da essolui lontane. Le vie che presso Roma hanno sembianza di letto di torrenti scemi di umore, vannosi a grado a grado immegliando, e la solitudine malinconica della campagna romana cede il campo a spessi agricoltori che attendono ai lavori in giolito. Le taverne meglio arredate, si che ne trasecolai. Insomma, finchè m’aggirai nel versante del Mediterraneo, che ha Roma per centro, e che più accoglie degl’influssi suoi, l’aspetto della regione era triste e ad ogni passo alcun che era a riprendere. Immaginai financo che quei poveri agricoltori si peritassero di far troppo rumore, e di destare i frati al suono dei badili.

Ma superato a gran mercė l’Appennino, e