Il Fiore delle Perle/23. Gl'igoroti di Mindanao
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Capitolo XXIII
Gl’igoroti di Mindanao
Quindici giorni dopo quell’avventura i chinesi ed il malese abbandonavano la loro capanna per cercare di giungere sulle rive del lago di Butuan e di salvare Romero e la donna bianca.
Hong era già quasi guarito e poteva far uso, colle dovute precauzioni, del suo braccio, senza risentire il menomo dolore, tanto glielo aveva bene accomodato la sua gentile infermiera. Pram-Li e Sheu-Kin avevano radunate delle provviste sufficienti per due settimane, consistenti in carne secca di testuggine ed in una diecina di chilogrammi di farina di sagu, colla quale potevano farsi dell’ottimo pane.
Per poter meglio trasportarli, colla pelle d’una scimmia ed un po’ di cotone si erano fabbricati delle comode bisacce e Sheu-Kin colle due pelli delle pantere aveva ottenuta una splendida coperta che aveva poi regalato a Than-Kiù onde se ne servisse come di tappeto durante le fermate notturne.
Divisisi le munizioni, circa duecentocinquanta colpi in tutto, ed i viveri, di buon mattino si misero animosamente in viaggio attraverso alla grande foresta, piegando verso l’est, volendo prima di tutto giungere al Bacat, fiume che come già fu detto esce dal lago di Butuan.
Quella foresta pareva che dovesse prolungarsi all’infinito, non accennando menomamente a cessare. Non era fortunatamente fitta, essendo costituita da giganteschi macchioni separati gli uni dagli altri da passaggi quasi sgombri.
Erano sempre ammassi di banani, di sagu, di arecche, di betel, di ebani verdi, di manghi, di tek, di pombo, di palmizi d’ogni specie, d’alberi della canfora, ecc., stretti da immensi calamus e da nepentes, strane piante quest’ultime, le cui foglie in forma di vasi muniti di coperchi che si abbassano allo spuntare del sole e che si aprono al tramonto, distillano durante la notte una certa quantità d’acqua, talvolta perfino mezzo litro e bevibile.
In mezzo a quei vegetali, il mondo alato si sbizzarriva a suo talento, schiamazzando a piena gola. Fagiani, colombe coronate, splendide parozie dalle penne dorate ed argentate che sfoggiavano di sotto le ali come due piccoli mantelli, grossi argo dalle code lunghissime cosparse d’occhi, tucani e pappagalli svolazzavano fra i rami, facendo balenare ai raggi del sole le loro penne dai cento colori e dai cento riflessi superbi.
Anche le scimmie non mancavano e di quando in quando si vedeva qualche branco di quegli agili quadrumani, occupato a saccheggiare le frutta squisite di qualche mangostano od i grossi aranci di qualche pombo.
Per lo più erano cinocefali neri, le più brutte di tutta la specie, col muso largo e piatto, la fronte enormemente sporgente, il cranio coperto da un gran ciuffo villoso e le natiche rosse, color della carne, mentre tutto il corpo è d’un nero intenso cupo.
Quei brutti animali, vedendo passare i viaggiatori, li ricevevano con furiosi latrati, ma nè i chinesi nè il malese se ne occupavano, sapendo che nulla avevano da temere.
Quella prima giornata trascorse senza cattivi incontri ed alla sera Hong dava il segnale della fermata ai piedi d’un sunda matune, nome che significa bella di notte, perchè i fiori di quella pianta, che tramandano un delicato profumo, non si schiudono che al calar del sole e si richiudono ai primi albori.
Quantunque fossero tutti stanchi, i due chinesi ed il malese s’accordarono per vegliare per turno, non essendo prudente addormentarsi tutti, potendovi essere nei dintorni delle pantere o dei pardi nebulosi. Than-Kiù fu dispensata del suo quarto, malgrado le sue proteste.
La notte passò però tranquilla, non essendovi stato che un solo allarme poco dopo la mezzanotte, avendo Sheu-Kin sparato contro un animale che si era mostrato a breve distanza dal fuoco e che si era subito dileguato, senza aver osato più ricomparire.
L’indomani i chinesi ed il malese riprendevano la marcia, continuandola anche nei giorni seguenti, ma il quinto, essendo tutti stanchi, risolsero di riposare ventiquattro ore, tanto più che le loro provviste, in causa dell’umidità della notte, si erano guastate.
Costruirono alla meglio una tettoia, poi Hong ed il malese partirono per la caccia, mentre Than-Kiù e Sheu-Kin preparavano la cena.
Mancavano ancora due ore al tramonto ed i due cacciatori speravano di aggiungere alla carne secca qualche sanguinante costoletta di babirussa od un paio di grossi calaos.
Battendo le macchie, avevano già scovato ed abbattuto un matjang-tjongkok, animale che somiglia ad un tigrotto, lungo poco più di mezzo metro, col pelame fine, morbidissimo, giallognolo, a fasce ed a macchie brune nere e che è un grande distruttore di volatili, quando Pram-Li, nell’aprirsi il passo fra un folto cespuglio, vide fra la semioscurità una massa, non ben distinta, scivolare in mezzo ad un gruppo di piante di pepe selvatico.
— Oh!... Oh!... — esclamò. — Credo che vi sia della grossa selvaggina laggiù.
— Qualche animale pericoloso? — chiese Hong.
— Non saprei dirlo, ma mi parve più una grande scimmia che un animale a quattro zampe.
— Se si tratta d’una scimmia, lasciamola andare. Tu sai che Than-Kiù non fa buon viso a simile selvaggina.
— Posso essermi ingannato, Hong; se fosse un babirussa?...
— Sarebbe il benvenuto. È tanto tempo che desidero di assaggiare quella carne, che dicono sia così eccellente.
— Squisita davvero — disse Pram-Li, il quale guardava attentamente fra le piante del pepe per scoprire la selvaggina. — Ma... toh!... Dove si sarà nascosto quell’animale o quello scimmione?... Guardo in tutte le direzioni e non riesco a scoprirlo.
— Eppure non deve aver abbandonata la macchia; vedo agitarsi le estremità dei sarmenti.
— È vero, Hong.
— Scoviamolo, Pram-Li. Tu fa’ fuoco in mezzo a quei vegetali ed io sto attento a colpirlo, appena si decide a uscire. —
Il malese imbracciò la carabina, miro là dove vedeva i grappoletti e le foglie agitarsi e fece partire il colpo.
La detonazione non era ancora cessata, che in mezzo alla macchia si udì echeggiare un grido che pareva uscito non già dalla gola di un animale, ma d’una persona.
— Per Fo e Confucio!... — esclamò Hong, stupito. — Hai udito, Pram-Li?...
— Sì, — disse il malese, che era diventato grigiastro, ossia pallido. — Che io abbia ucciso qualche povero abitante di questa boscaglia?...
— Lo temo, non udendo più nulla.
— Andiamo a vedere, Hong. —
Si aprirono il passo attraverso il cespuglio e si cacciarono in mezzo alle piante di pepe le quali, non avendo alcun sostegno, formavano un ammasso inestricabile di sarmenti, di foglie e di grappoletti.
Giunti quasi nel mezzo di quell’agglomeramento di vegetali, con loro vivo stupore trovarono disteso al suolo un giovane selvaggio di bassa statura, non raggiungendo in altezza un metro e con la pelle bruno-nerastra e le membra assai esili, mentre il ventre invece era gonfio.
Quel povero diavolo, che Pram-Li aveva salutato con un colpo di carabina credendolo un babirussa od una scimmia, vedendo comparire i due cacciatori balzò in piedi con un’agilità sorprendente, tentando di darsi alla fuga. Hong fu lesto ad afferrarlo per un braccio ed a farlo ricadere a terra.
— Non siamo antropofagi, nè cacciatori di teste, ometto mio, — disse il chinese. — Vediamo innanzi tutto se sei ferito. —
Lo guardarono dinanzi e di dietro, esaminarono le sue membra, ma non videro sul corpo di lui alcuna ferita.
— È solamente la paura che lo ha fatto cadere, — disse il malese, ridendo.
— Lo credo anch’io — rispose Hong. — Forse ci avrà creduti due cacciatori di teste. Chi credi che sia?
— Un negrito eta, o se ti piace meglio, un igoroto, — disse il malese, che guardava con attenzione il selvaggio, il quale d’altronde, forse un po’ rassicurato, non tentava più di fuggire.
Pram-Li non si era ingannato. I lineamenti di quel piccolo uomo dei boschi corrispondevano perfettamente a quelli dei negriti. Difatti al pari di quelli aveva i capelli lanuti, disposti però in pallottoline isolate, il naso corto con pinne allargate, la bocca grande, le labbra grosse senza essere tumide come quelle dei negri, gli occhi orizzontali colla sclerotica giallastra e vivaci, e le spalle incurvate.
Era quasi nudo, non avendo che un gonnellino di fibre vegetali largo quanto una mano; in compenso era ricco di tatuaggi o meglio di lunghe cicatrici in rilievo, che si fanno alzando la pelle fra le dita ed incidendola con una punta acuta.
Per ornamento non portava che un semplice legaccio di pelle di cignale stretto alle gambe, distintivo che quei popoli conferiscono ai più valenti cacciatori.
Questi negriti eta pare che siano uomini primitivi e forse i più bassi rappresentanti della razza umana. Si trovano sparsi in tribù ancora numerose su molte isole malesi, alle Filippine, a Mindanao, al Borneo, nelle Celebes, nella penisola di Malacca, ed anche nelle isole indostane, alle Andamane soprattutto e alle Nicobar, e cosa ancora più sorprendente, nell’Africa meridionale dove formano le tribù dei Bushmen, e nel centro del continente nero dove formano le tribù degli Akkà, ossia dei pigmei.
Come quei selvaggi siano riusciti a spargersi su così vasta estensione ed a tali distanze, ancora lo si ignora. Comunque sia sono i più prossimi parenti delle scimmie e pare che formino l’anello di congiunzione fra i quadrumani e la razza umana perfezionata.
Al pari delle fiere, vivono sempre in mezzo alle foreste, nutrendosi di frutta e di selvaggina; s’arrampicano sugli alberi più alti coll’agilità delle scimmie, hanno dimore misere per lo più o non ne hanno affatto, accontentandosi di dormire attorno ad un fuoco acceso nel centro del loro campo; non hanno credenze, non conoscono la civiltà, anzi pare che la sfuggano non amando avere contatto con altri popoli.
È però probabile che l’isolamento di cui cercano circondarsi sia ispirato dalla prudenza poichè quei disgraziati hanno avuto sempre da dolersi delle altre razze, specialmente quelli del Borneo, delle Celebes e di Mindanao che sono cacciati come bestie feroci, come spiriti maligni, e che sono destinati ad arricchire, coi propri crani, le orribili collezioni dei cacciatori di teste.
Il negrito caduto fra le mani di Hong e del malese, vedendo che nessuno pensava a maltrattarlo, si era fatto animo ed aveva osato rivolgere loro qualche parola in una lingua assolutamente incomprensibile.
Pram-Li provò a interrogarlo in malese ed in mindanese e con sua viva soddisfazione capì di essere stato compreso, avendo veduto il selvaggio sorridere e battersi replicatamente il capo, come per accertarsi che non glielo avrebbero tagliato.
— Siamo a buon punto, — disse Pram-Li a Hong. — Con un po’ di pazienza riusciremo ad intenderci.
— Non desidero di meglio, — rispose Hong. — Se riusciamo a farcene un amico, credo che avremo tutto da guadagnare. Continua, Pram-Li. —
Fra il selvaggio ed il malese, non senza fatica, s’impegnò tosto il seguente dialogo:
— È lontana la tua tribù?...
— No, — rispose il negrito. — Si trova in mezzo alla foresta.
— È numerosa?...
— Quindici famiglie accampate sugli alberi.
— In un villaggio aereo?...
— Sì, sì.
— Cosa cercavi qui?... Della selvaggina, forse?...
— No, le spie del bagani Matutu.
— Cos’è questo bagani?...
— Uno spietato cacciatore di teste, che possiede già qualche centinaio di crani di Mandayas, di Bagobos, di Guiagos e di Bisagas.
— Sono tutte tribù di negriti queste?
— Sì, — rispose il selvaggio.
— A quale appartieni tu?...
— A quella dei Mandayas.
— E cosa vuole quel bagani?...
— Distruggere la mia tribù: lo ha giurato.
— E per quale motivo?...
— Per ornare le sue capanne coi nostri crani.
— Il birbante!... Fortunatamente ci saremo anche noi quando verrà ad assalire la tua tribù, — disse il malese.
— Verrete a difenderci?... — chiese il selvaggio, cogli sguardi ardenti.
— Certamente.
— Colle armi che mandano il tuono?...
— Ed anche con dei buoni kampilang.
— E salverete la mia Lagayan?...
— Chi è questa?...
— La fanciulla che io amo e che doveva oggi essere mia, senza l’allarme dato da uno dei nostri.
— Salveremo anche la tua Lagayan, — rispose Pram-Li, sorridendo, — ma a condizione che la tua tribù ci riceva da amici.
— Siete già amici dei Mandayas.
— Quando credete che vi assalga quel furfante di bagani?...
— Questa notte.
— Allora non vi è tempo da perdere, — disse il malese.
Fece ad Hong la traduzione di quel dialogo, consigliandolo ad accettare la proposta fatta dal selvaggio di aiutare la sua tribù contro il feroce cacciatore di teste, dimostrandogli quanto avrebbero potuto guadagnare dall’amicizia di quegli abitanti dei boschi.
— Se non si tratta che di questo, — disse il chinese, — andiamo a fucilare quel signor bagani ed i suoi soci. Aiutando i Mandayas potremo forse ottenere qualche guida che ci conduca più presto al lago. Affrettiamoci a tornare al campo, poi andremo al villaggio aereo. —
Uscirono dalla macchia, e giunti presso un cespuglio il selvaggio andò a raccogliere una lancia di legno con la punta indurita col fuoco, unica arma che possedeva e che aveva perduta durante la sua precipitosa fuga, poi tornarono frettolosamente al campo, temendo che gli uomini del bagani, si aggirassero già in quei dintorni.
Informarono Than-Kiù e Sheu-Kin di quanto era avvenuto, ed anche questi accettarono senza obbiezioni, la proposta di seguire il selvaggio presso la sua tribù.
— Sarà una buona azione, — disse solamente la giovanetta. — Questi poveri selvaggi ci saranno riconoscenti. —
Divorarono la cena in pochi minuti poi, essendo il sole quasi prossimo al tramonto, si misero in cammino per recarsi presso la minacciata tribù.
Il selvaggio si era messo alla testa del drappello, avanzandosi con prudenza e con molte precauzioni, sentendo per istinto la vicinanza dei temuti nemici.
Scrutava attentamente i cespugli, si fermava a tendere gli orecchi, si curvava al suolo esaminando le erbe e le foglie per scoprire le loro tracce ed andava a guardare i rami spezzati, per assicurarsi se colava ancora la linfa, indizio della loro recente mutilazione.
Pareva però che gli uomini del terribile cacciatore di teste non fossero ancora giunti fino lì, non udendosi alcun rumore sospetto nella foresta e non trovandosi alcuna traccia.
Marciavano da un’ora, sempre con precauzioni infinite, quando il mandaya additò al malese alcuni punti luminosi che brillavano in mezzo al cupo fogliame della foresta, ad una grande altezza dal suolo.
— Il tuo villaggio? — gli chiese Pram-Li.
— Sì, — rispose egli, respirando a lungo. — Il bagani non è ancora giunto.
— Tanto meglio; gli prepareremo un ricevimento come si merita. —
Affrettarono il passo, non avendo ormai più nulla da temere, e poco dopo giungevano dinanzi ad un macchione isolato, formato da quindici o venti alti pombo, in cima ai quali, all’altezza della biforcazione dei rami, si scorgeva confusamente una immensa piattaforma, sostenente una mezza dozzina di tettoie disposte in cerchio.
Dei fuochi numerosi brillavano lassù ed alla luce rossastra si vedevano agitarsi numerose creature umane.
— È un villaggio aereo, — disse Hong. — Ammiro l’ingegno di questi selvaggi.
— Un villaggio che però non li mette sempre al sicuro dagli assalti dei bagani, — rispose Pram-Li.
— Pure, parrebbe che nessuno potesse assalirli lassù, — osservò Than-Kiù.
— I bagani non sono così sciocchi da mandare i loro uomini all’assalto dei villaggi aerei. Si accontentano di tagliare o d’incendiare gli alberi, facendo cadere d’un solo colpo le capanne ed i loro abitanti. Non sanno cosa farne dei prigionieri, bastano loro le teste dei poveri negriti per ornare i villaggi.
— Canaglie!... — borbottò Hong.
Intanto il selvaggio che li aveva guidati si era arrampicato su di una lunga canna di bambù, munita di tacche per appoggiarvi i piedi ed erasi issato sulla piattaforma per informare il capo tribù dell’arrivo di quegli stranieri, armati di quelle formidabili canne che mandano il tuono.
La sua assenza durò solamente pochi minuti. Hong ed i suoi compagni lo videro ridiscendere con vertiginosa rapidità, e appena si trovò a terra, disse al malese con aria giuliva:
— Il capo m’incarica di darvi il benvenuto, e di dirvi che tutta la tribù sarà ai vostri ordini.
— Sta bene, — disse Hong, quand’ebbe udita la traduzione, — ma io mi domando come faremo a inerpicarci fino a quella piattaforma. Per te malese sarà cosa non difficile, non per noi che non siamo marinai, e tanto meno possediamo l’agilità meravigliosa di questi omiciattoli dei boschi. —
Il selvaggio forse lo comprese, perchè sorrise e gli additò una specie di paniere che appunto in quel momento veniva calato dall’alto per mezzo di due grosse e robuste fibre vegetali, forse dei rotang intrecciati.
Sheu-Kin pel primo intraprese l’ascensione, giungendo felicemente sulla piattaforma, poi Than-Kiù, finalmente Hong. Pram-Li, da vero marinaio, li aveva preceduti inerpicandosi sul bambù.
Quello strano villaggio situato a dodici metri dal suolo, pareva più l’opera di provetti ingegneri che di poveri selvaggi ignari d’ogni principio di costruzione, tanto era solido e ben costruito.
Si componeva d’una immensa piattaforma formata di bambù, appoggiata sui rami degli alberi, ed in modo da non correre il menomo pericolo di sfasciarsi.
Una dozzina di tettoie, una per ogni famiglia, si rizzavano all’intorno, lasciando al centro un piccolo piazzale, dove sopra un letto di sassi ardeva un gran fuoco. Era il camino di tutta la tribù.
Una quarantina d’uomini, una trentina di donne e due dozzine di fanciulli formavano la popolazione, sotto il comando di un vecchio mandaya dalla barba ed i capelli bianchi, di statura bassa al pari dei suoi sudditi, e che per unico distintivo portava una collana di conchiglie bianche e di denti di pantera.
Egli doveva essere stato il più prode di quel minuscolo popolo, essendo il suo corpo sfregiato da numerose cicatrici, da colpi di kampilang e di bolos.
Appena gli stranieri comparvero sulla piattaforma andò loro incontro, poi vedendo Than-Kiù ed avendola subito riconosciuta per una donna, la prese per una mano e la condusse presso il fuoco, dicendole in lingua malese:
— Ti offro il mio posto, bella straniera. Questa sera sarai tu che comanderai alla mia tribù. —
Fece sedere i chinesi ed il malese presso la giovanetta, fece quindi portare dei pani di sagu, dei tubercoli commestibili chiamati carnode, dei banani, dei cocchi ed un quarto di maiale selvatico che poco prima arrostiva sul focolare, invitando gli ospiti a far onore al pasto, e scusandosi di non poter offrire di meglio in causa della presenza di nemici che impediva ai cacciatori di scorrazzare la foresta.
Mentre i chinesi ed il malese assaggiavano quei cibi, temendo di far dispiacere al capo rifiutandoli, la piccola tribù si era raccolta attorno al fuoco, guardando con viva curiosità quegli stranieri di aspetto così fiero e così robusto.
Vi erano uomini e donne mescolati insieme, tutti piccoli, di forme esili, non brutti, specialmente i giovani, i quali avevano dei volti graziosi, coi tratti infantili. Erano però quasi tutti nudi, non avendo che dei perizomi di crine vegetale.
Spiccava soprattutto in prima fila una fanciulla di lineamenti graziosi, cogli occhi grandi e dolci, i capelli neri e folti, il busto slanciato e la pelle bruna dorata. Era meglio adorna delle altre, portando, oltre ad un perizoma a colori ed a frange di cotone, collane di conchiglie e braccialetti di denti di cignale.
Pram-Li e Than-Kiù compresero essere quella giovane la fidanzata del mandaya che avevano trovato nel bosco, poichè il selvaggio non le staccava mai gli occhi di dosso.
— È la tua donna, è vero?... — gli chiese il malese.
— Sarà la mia, — rispose il mandaya, con un sorriso. — Quando non saremo più minacciati dal bagani, saliremo insieme l’albero. —
Than-Kiù che si era fatta tradurre le risposte del selvaggio, si levò uno dei braccialetti d’oro che portava ai polsi, s’avvicinò alla giovane e glielo cinse al braccio destro.
Un mormorìo di ammirazione si levò fra la tribù a quell’atto, e la giovane negrita, commossa, si gettò ai piedi di Than-Kiù, baciandole la veste replicatamente.
Il capo si levò allora un monile di denti di pantera, cui forse annetteva un grande valore per le grandi difficoltà che devono affrontare quei piccoli uomini per abbattere le terribili fiere, specialmente colle loro armi primitive, e lo cinse a Than-Kiù, dicendole:
— Tu sei buona quanto valorosa. Questo monile, insegna dei valenti e che io ho ereditato dai miei avi, te lo regalo perchè ne sei degna. —
Aveva appena pronunciate quelle parole, quando ai piedi degli alberi, fra le fitte tenebre, si vide alzarsi un rapido bagliore che subito si estinse.
Il capo si era alzato in preda ad una viva agitazione che invano cercava di nascondere, mentre le donne fuggivano precipitosamente verso le capannucce e gli uomini afferravano le loro lance dalle punte indurite nel fuoco ed i loro archi.
— Cosa succede? — chiese Hong che si era pure alzato.
— Si preparano ad arrostirci, — rispose Pram-Li.
— Ma chi?...
— Il bagani ed i suoi cacciatori di teste.
— Oh!... Sono di già qui, quei furfanti?... — disse Hong, con voce tranquilla. — Invece che tagliare le teste di questi poveri diavoli, faremo scoppiare le loro a colpi di carabina. Il bagani farà la fine di Pandaras o non sarò più il capitano Hong della cavalleria manciura!...