Il Fiore delle Perle/2. Il capo del Giglio d'acqua
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Capitolo II
Il capo del «Giglio d’acqua»
Era uno splendido tramonto, pieno di malinconia e di poesia.
Il sole stava tuffandosi in mare fra due grandi nuvole fiammeggianti, presso l’estrema punta dell’isola di Corregidor, cospargendo il mare di pagliuzze d’oro e di striature color di fuoco, mentre le acque della vasta baia di Manilla a poco a poco diventavano brune, con delle strane sfumature color dell’acciaio, che avevano talora degli scintillìi madreperlacei.
Manilla, l’opulenta capitale dell’Arcipelago, giganteggiante sulle rive del Passig, si tuffava nell’ombra, ma la sua selva di campanili, torreggianti sull’infinito numero di chiese e di monasteri, godeva ancora l’ultimo bacio dell’astro diurno, in attesa del primo bacio della luna, la quale cominciava a mostrarsi dietro le selve della Sierra di Mariveles.
Barche e barchette sfilavano silenziose lungo le gettate del popoloso quartiere di Binondo, con le loro candide vele sciolte alla fresca brezza della sera, mentre al largo si raggruppavano i rapidi prahos dei malesi ed i paolevekau dei macassaresi per cominciare la pesca notturna, e navigava qualche cannoniera vomitante nere colonne di fumo che s’alzavano alte assai, spiccando vivamente sul luminoso orizzonte.
Il vocìo assordante degli abitanti di Binondo si spegneva rapidamente. Le gettate, così affollate durante il giorno di spagnuoli, di tagali, di malesi, di chinesi e di giapponesi, si spopolavano ed il chiacchierìo si perdeva in lontananza, verso i quartieri più interni o verso Manilla.
Non si udivano più echeggiare che la monotona canzone di qualche barcaiuolo indigeno, ed in alto la squilla argentina di qualche campana che il vento portava dalla Ciudad.
Than-Kiù, con la testolina sempre appoggiata alla mano, guardava in silenzio il sole tramontare. Pareva che i suoi sguardi cercassero laggiù, dove il mare si confondeva coll’orizzonte, qualche cosa, forse una traccia che le onde ormai da tanto tempo avevano cancellato.
Talvolta staccava gli occhi da quel punto e lentamente li fissava all’estremità di Binondo, presso il ponte del Passig ed allora un fremito agitava la sua persona, mentre agli angoli delle palpebre si vedevano spuntare lentamente due lagrime che a poco a poco ingrossavano, rotolando per le pallide gote.
Cercava il luogo dove quella notte fatale aveva dato l’ultimo addio a Romero che la donna bianca le rapiva, o sulle pietre del suolo cercava ancora le macchie di sangue sparse dai capi dell’insurrezione e dall’eroico Hang-Tu?...
Pram-Li e Sheu-Kin tacevano, e non staccavano gli occhi dalla fanciulla. Forse indovinavano i tristi pensieri che tormentavano il cuore ed il cervello della povera Than-Kiù.
Intanto il sole era scomparso fra le due nuvole e dopo un breve crepuscolo le tenebre erano cominciate a scendere rapide sulla baia, come una immensa volata di neri corvi. La luna si alzava allora sopra le creste della Sierra e saliva in cielo tingendo d’argento le acque, seguìta e preceduta da miriadi di stelle.
Ogni rumore era cessato sulla gettata di Binondo e anche la campana della Ciudad più non faceva udire i suoi rintocchi. Sola la brezza notturna sibilava, ad intervalli, ingolfandosi fra le tende di seta della cameretta.
Sheu-Kin si era curvato verso Than-Kiù, dicendole:
— Ricoricati, padrona. —
La giovane chinese non rispose. Ora non guardava più nè il mare, nè la gettata di Binondo, nè il ponte del Passig, nè la città: guardava l’orizzonte, come se spiasse la comparsa di qualche nuovo astro od un fanale che indicasse l’avanzarsi di qualche nave.
— Vieni, padrona, — ripetè Sheu-Kin.
— Lascia che contempli questa splendida notte, — rispose Than-Kiù, con voce tremula. — Me ne ricorda una delle più belle, una delle più felici; ma non ero qui, lui non era partito e Hang non era morto.... Sì, me la ricordo come fosse quella dell’altra sera.... la luna scintillava sulle montagne illuminando le cupe boscaglie.... all’orizzonte brillavano i lumi degli accampamenti spagnuoli e scintillava, come un nastro d’argento, lo Zapatè.... e Romero mi parlava.... ma la stella della donna bianca non s’alzava ancora fulgida in cielo e la mia non era ancora tramontata.... E tutto è finito con una catastrofe!... È orribile!... —
Than-Kiù aveva chinato il capo sul petto e si era nascosto il viso fra l’ampia manica di seta, come se cercasse di togliersi dinanzi agli occhi la visione che la perseguitava.
Ad un tratto però lo rialzò, afferrò con un gesto nervoso una mano del chinese e guardandolo in viso fisso fisso, gli chiese:
— Era proprio morto, è vero?...
— Chi?... — domandò Sheu-Kin, stupito.
— Mio fratello.
— Sì, Than-Kiù; aveva ricevuto tre palle nel petto.
— Parla, io voglio saper tutto.
— Riaprirò la ferita che per tanti giorni ti ha fatto sanguinare il cuore.
— Than-Kiù è ormai rassegnata, — disse la fanciulla, con un malinconico sorriso. — Voglio sapere tutto quello che è avvenuto dopo quella notte fatale che m’ha infranto l’anima. Quanti giorni sono trascorsi da quel mattino in cui uccisero Hang?... Io non ricordo più nulla.... più nulla. Tu hai assistito alla tremenda scena, è vero Sheu-Kin?...
— Sì, Than-Kiù — rispose il chinese. — Ero giunto da pochi giorni da Cavite, entro le cui trincee avevo trovato rifugio dopo la rotta di Salitran che m’aveva diviso da te, da Romero e da Hang.
In mezzo al tumulto dell’assalto ero riuscito a prendere il largo assieme a Hong, il capo del Giglio d’acqua che tu ben conosci, attraversando le linee spagnuole ed a marce forzate eravamo rientrati in Manilla per recare al Comitato delle società segrete la notizia dei nostri disastri.
Solo qui, a Binondo, avevamo saputo della caduta anche di Malabon e della distruzione delle bande guidate da tuo fratello Hang e da Romero Ruiz, ma senza poter chiarire che cosa era accaduto di loro e di te.
Vi avevamo cercato a lungo credendo che aveste potuto nascondervi nella Ciudad o nei sobborghi, ma invano, e nemmeno le società del Loto bianco nulla avevano saputo dirci.
Avendo una sera appreso che all’alba dovevansi fucilare i capi insorti presi a Cavite ed a Noveleta, guidati da non so quale ispirazione, prima che le tenebre si alzassero, io ed Hong ci eravamo diretti nel sobborgo del Tondo per assistere alle esecuzioni. Avevamo il timore di vedere anche voi fra i prigionieri ed avevamo raccolto una banda di soci del Giglio d’acqua, uomini risoluti e devoti a Hong, per tentare, se fosse stato possibile, di strapparvi alla morte.
Ci eravamo tranquillizzati non vedendovi nel numero di quei disgraziati, però il respiro di sollievo che ci usciva dal petto doveva subito spezzarsi. Già i soldati stavano per fucilare l’ultimo drappello di capi, quando udimmo echeggiare una voce tuonante che subito riconoscemmo.
Hang, l’eroico tuo fratello, si era scagliato con impeto irresistibile fra le fila dei soldati, sfondando il quadrato, ed era apparso dinanzi ai prigionieri.
Era bello, era fiero, era terribile come il dio della guerra, e fra le robuste braccia stringeva te. I suoi occhi mandavano fiamme mentre il suo volto, animato da una tremenda emozione, pareva che non fosse più il suo.
Aveva appena pronunziato quelle fiere parole, che tu hai tante volte ripetute nei tuoi deliri, quando la scarica partì. Un istante di ritardo ed egli sarebbe forse ancora vivo, ma il destino così non volle.
L’eroe della nazione gialla era caduto assieme ai capi insorti, fulminato da tre palle che lo avevano colpito nel petto, seco trascinando te, che aveva tenuto stretta fra le braccia.
Io ti ho veduta, come attraverso ad una nebbia sanguigna che pareva mi fosse piombata sugli occhi, alzare il capo e mostrare, fra quei poveri estinti, il tuo viso già smorto, poi ricadere sul petto sanguinante di Hang.
Cosa sia accaduto poi, ancora oggi lo ignoro con certezza. Mi hanno raccontato che io ed Hong ci siamo gettati su di te come due pazzi, che ti abbiamo strappata fra quei cadaveri che t’imbrattavano di sangue e che siamo fuggiti mentre gli amici del capo del Giglio d’acqua, spalleggiati dalla popolazione, trattenevano i soldati.
Hong ti portò a casa sua non osando in quel momento attraversare il sobborgo di Binondo, e visitammo la tua ferita. Una palla ti aveva attraversato il petto, un po’ sopra il cuore, causandoti una grave perdita di sangue, però senza ledere alcuna parte vitale. Era nondimeno sempre una ferita grave che poteva spegnere per sempre il Fiore delle perle.
Per dieci giorni lottasti fra la vita e la morte, sempre in preda a spaventevoli deliri, poi cominciasti a migliorare mercè le assidue cure d’un medico nostro compatriota. Il quattordicesimo giorno, una notte oscura, aiutati da Pram-Li, ti coricammo in un palanchino e ti portammo qui, nella tua casetta, avendo veduto degli spagnuoli ronzare nella via abitata dal mio amico.
«Sono ventidue giorni che tu riposi nel tuo letto e sono ben felice di vederti ora completamente guarita. —
Than-Kiù, che fino allora lo aveva ascoltato senza interromperlo, piangendo silenziosamente, aveva tesa la destra a Sheu-Kin e la sinistra a Pram-Li, ed aveva strette le loro mani, mormorando:
— Grazie, amici. —
Poi, dopo aver soffocato un gemito, chiese:
— Ed il corpo di Hang?...
— Riposa nella terra natìa, sulle rive del Fiume Giallo. Il Comitato delle società segrete ha pensato di farlo ricondurre in patria.
— L’hanno adunque sepolto nel giardino ove dormono i miei padri?...
— Sì, Than-Kiù.
— All’ombra della cupola a scaglie di ramarro e dei lillà?...
— Sì, padrona.
— Povero fratello!... Ma Than-Kiù ti rivedrà presto, perchè tornerà sulle rive del fiume natìo. Manilla è stata troppo fatale per me e la lascerò senza rimpianti. Triste destino pesava sul Fiore delle perle!... Tutto è morto ormai a me d’intorno; morte le speranze, svaniti i cari sogni, spente le illusioni, infranta anche l’anima. Il vento gelido della Mongolia ha inaridito il povero lillà che cresceva in terra straniera e non rifiorirà più mai, più mai!... —
Uno scroscio di pianto aveva spento la voce della giovanetta.
Sheu-Kin e Pram-Li si erano appressati a lei, dicendole:
— Basta, padrona: ti ucciderai.
— Lasciate che pianga, amici, — rispose ella. — Perchè frenare il pianto quando il cuore è ferito e domanda delle lagrime per calmare i dolori?...
— Tu puoi riaprire la ferita, Than-Kiù.
— Sono ormai guarita, amici. È solamente il cuore che sanguina ancora e che sanguinerà forse a lungo.
— È già tardi, va a riposarti, — le disse Sheu-Kin.
Than-Kiù scosse il capo, poi disse con accento strano:
— No, non ancora: bisogna che la veda!...
— Ma chi?... — chiesero con stupore Pram-Li e Sheu-Kin.
— La stella della donna bianca.
— Follie, Than-Kiù — disse il chinese.
— Sì, anche Romero diceva così tutte le volte che io gli additavo l’astro della sua donna, — rispose la giovanetta con un sospiro, — ma ha veduto poi, se Than-Kiù si era ingannata. Tutte le sere la stella la vedevo sorgere sempre più scintillante, mentre la mia impallidiva man mano che s’avvicinava il giorno della catastrofe. Ah!... —
La giovane chinese si era bruscamente alzata. Curva sul davanzale con le braccia tese, fissava ardentemente una stella che spuntava allora sull’orizzonte, specchiandosi in mare.
— Guardala, Sheu-Kin!... — esclamò.
Poi fece un passo indietro, mentre faceva un gesto di terrore.
— Guarda come questa sera è pallida!... — riprese, con viva emozione. — Non scintilla più come un tempo!... Grande Budda!... Cosa sta per accadere alla donna bianca ed a Romero?... Il sogno sarebbe forse vero?... Sheu-Kin, Pram-Li, io ho paura!... Ho paura!... —
Era ricaduta sulla sedia coprendosi gli occhi con le mani. Il chinese e Pram-Li si scambiarono un lungo sguardo che pareva volesse dire: Ha indovinato il disastro della cannoniera.
Tre colpi bussati alla porta della stanza attigua, strapparono Than-Kiù dai suoi tristi pensieri.
— Vi è qualcuno che viene a recarmi la conferma del mio sogno?... — chiese, rabbrividendo. — Mi sembra di leggere nell’avvenire. —
Pram-Li si era mosso, non senza però essersi assicurato di avere alla cintola il fedele pugnale, mentre Sheu-Kin, che temeva l’improvvisa comparsa di qualche alguazil seguìto dalla polizia, s’affrettava ad abbassare la tenda azzurra, coprendo Than-Kiù.
Poco dopo il malese rientrava seguìto da un uomo di fiero aspetto che a prima vista si sarebbe potuto scambiare per un europeo delle regioni meridionali, se i suoi occhi leggermente inclinati non avessero tradito la sua origine mongolo-tartara.
Non aveva più di trent’anni e quantunque chinese, era ciò che si dice un bell’uomo. Era di statura piuttosto alta ed elegante, con spalle robuste ed una muscolatura potente che denotava una forza più che straordinaria. La sua pelle, se non era precisamente bianca, aveva quella tinta leggermente bruna degli spagnuoli e degli italiani del mezzodì, gli occhi nerissimi, vivi, penetranti, i baffi neri, senza essere pendenti, ed invece di avere la coda e parte del cranio rasato, distintivo umiliante imposto dai manciuri vincitori alla razza mongola, portava capelli lunghi, sciolti sulle spalle.
Anche il costume che indossava ben poco aveva del chinese, poichè portava stivaletti all’europea, calzoni bianchi stretti alla militare, e solo una casacca di seta di Nankino bianca, a fiori gialli, stretta ai fianchi da un’alta fascia di seta rossa che mostrava i calci di due rivoltelle, e l’ampio cappello di fibre di rotang potevano far sospettare in lui un compatriota di Than-Kiù e di Sheu-Kin.
Quell’uomo era Hong, uno dei più animosi capi del Giglio d’acqua, colui che aveva strappata la giovane chinese fra le vittime dell’insurrezione e che l’aveva ospitata in casa sua e curata.
Capitano di cavalleria tartara, aveva già preso parte attiva alla guerra contro i giapponesi e, nella sua qualità di manciuro, si era battuto valorosamente; ma fatto prigioniero a Port-Arthur durante un’uscita della guarnigione, era stato trasportato a Nagasaki.
Uomo astuto però ed audace, dopo quindici giorni era riuscito a fuggire a bordo di una giunca in partenza per le Filippine, sbarcando a Manilla dove aveva avuto agio di conoscere Hang-Tu non solo, ma anche Than-Kiù.
Nominato, allo scoppiare dell’insurrezione, uno dei capi del Giglio d’acqua, si era battuto valorosamente a Noveleta, a Rosario ed a Cavite, finchè caduta quest’ultima piazza, aveva fatto ritorno a Manilla ed in buon punto per strappare agli spagnuoli Than-Kiù.
La giovane chinese, vedendolo, aveva aperto le tende e si era alzata per muovergli incontro, ma Hong si era affrettato ad attraversare la stanza, facendole segno di rimanere seduta ed afferrando vivamente la mano che la giovanetta gli porgeva disse:
— Sono felice, Than-Kiù, di vederti finalmente guarita.
— Grazie, Hong, di queste tue parole e di quanto hai fatto per me. Tu sei uno di quei devoti amici che non si possono scordare mai. —
Il chinese sorrise, mentre un lungo sospiro gli usciva dalle labbra e nei suoi occhi brillava un lampo di gioia.
— Sì, un amico devoto, — disse poi, — devoto fino alla morte e che per te nulla troverebbe d’impossibile, mia povera fanciulla.
— T’aspettavo, — rispose Than-Kiù, — ma non così tardi.
— Le precauzioni non sono mai troppe, — rispose il chinese. — Tutti i capi delle società segrete sono sorvegliati. —
Poi, dopo d’aver guardato per alcuni istanti la fanciulla negli occhi, disse:
— Sono qui venuto per obbedire alla società.
— Cosa desiderano da me i capi del Giglio d’acqua?...
— Il forte braccio della valorosa Than-Kiù, della sorella dell’eroico capo degli uomini gialli.
— Il mio braccio, — disse la giovane chinese, con un malinconico sorriso, — è così debole ormai!... E poi, tutto è finito per me.
— Cosa vuoi dire?... Quella Than-Kiù che guidava l’insurrezione al pari di Hang; che combatteva come una leonessa sui campi di Salitran, di San Nicola e di Malabon; che sfidava intrepidamente la morte alla testa delle bande, che dei paurosi faceva dei valorosi e dei valorosi degli eroi, crede che ormai la sua missione sia finita?...
— Sì, Hong; tutto è finito per Than-Kiù.
— Non sai tu adunque che l’insurrezione, che gli spagnuoli credevano spenta, ha risollevato il capo?... Le bande ricompariscono ovunque nelle parti centrali dell’isola e si riorganizzano anche nella provincia di Cavite e qualche successo gl’insorti lo hanno già avuto.
— Than-Kiù è morta per l’insurrezione.
— Non dire questo, — disse Hong, con veemenza. — Basterebbe che le società segrete propalassero la notizia che la sorella del fiero Hang-Tu riprende le armi, per far sollevare tutti i nostri compatrioti, i quali anelano di vendicare il loro prode condottiero. —
Than-Kiù scosse il capo, mormorando:
— Io non odio più gli spagnuoli.
— Vieni a combattere per la libertà della patria.
— La mia patria non è questa; si trova laggiù, al di là del mare, dove riposa la salma di Hang-Tu.
— Hang-Tu aveva pur combattuto per la libertà di queste isole ed anche tu avevi prese le armi contro questi oppressori dalla pelle bianca.
— Seguivo mio fratello e...
— E Romero, è vero, Than-Kiù?... — diss’egli con amarezza.
La giovane chinese abbassò gli occhi e non rispose.
— Quel Romero che ancora tu rimpiangi, — proseguì Hong con sorda ira.
— Forse.
— Ma il destino ti ha vendicata di lui e della donna bianca — diss’egli con impeto.
Than-Kiù si era alzata di scatto, pallida come una morta, guardando con due occhi smarriti il chinese. Sheu-Kin e Pram-Li avevano fatto un rapido cenno al capo del Giglio d’acqua, per impedirgli di continuare: ormai era troppo tardi.
— Cosa volevi dire?... — chiese Than-Kiù, con voce tremante. — Ma quale vendetta del destino parlavi?... —
Hong aveva compreso che la giovinetta tutto ancora ignorava ed era rimasto muto, guardando ora il suo compatriota ed ora il malese.
— Parla!... — disse Than-Kiù. — Ti prego!...
— Ma... io credevo che tu lo sapessi... — rispose Hong, esitando.
— Che cosa?... Dimmi tutto, Grande Budda!... — esclamò la giovane chinese con disperazione.
— Non l’oso.
— Dunque nessuno mi strapperà da questa orribile angoscia?... — chiese ella, guardando Sheu-Kin e Pram-Li. — Voglio sapere tutto, mi comprendete?... Than-Kiù non è una fanciulla: è ancora la donna che ha combattuto fra gli orrori dell’insurrezione, a fianco di Hang-Tu. —
La giovane chinese dimostrava in quel momento una tale energia da crederla capace di affrontare la più tremenda notizia. Ritornava la fiera fanciulla che aveva sfidato, tante volte, col sorriso sulle labbra, la morte, alla testa delle bande insorte; ritornava la valorosa ed intrepida guida del meticcio Romero che tutti avevano ammirato a Salitran, sullo Zapaté, a San Nicola ed a Malabon.
Sheu-Kin, dopo una breve esitazione, disse:
— Giacchè tu lo vuoi, padrona, io parlerò.
— Parla.
— Sara una notizia che ti strazierà il cuore.
— Sono forte.
— Si tratta dell’uomo che tu hai immensamente amato.
— Continua.
— Ebbene, la cannoniera che lo conduceva a Ternate con la donna bianca ed il maggiore d’Alcazar, si è arenata sulle coste di Mindanao e si dice che poi sia stata assalita dai pirati. —
Than-Kiù non emise nè un grido, nè un gemito, ma chiuse gli occhi, impallidì orribilmente, poi ricadde sulla sedia come se le forze l’avessero improvvisamente abbandonata.
Il sogno si era avverato.