Il Fiore delle Perle/15. Gli orsi malesi
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Capitolo XV
Gli orsi malesi
Avventurarsi ancora una volta sotto quelle foreste, nell’ora in cui tutti gli animali da preda si mettono in caccia, era un tentare il destino. Eppure il timore di ricadere nelle mani di Pandaras, che avrebbero ritrovato furioso per essere stato così abilmente corbellato della sua passione per Than-Kiù, li spingeva ad affrontare qualsiasi pericolo.
Hong, il più coraggioso ed il più forte, si era messo alla testa, seguìto da Than-Kiù, quindi dal giovane chinese e da Pram-Li incaricati di proteggere la ritirata.
La foresta, tenebrosa come la tana d’un lupo, non permetteva al minuscolo drappello di avanzare con quella rapidità che imponevano le circostanze.
Vecchi tronchi di circonferenza enorme, caduti per decrepitezza o abbattuti dalle folgori, impedivano il passo, costringendo i fuggiaschi a fare dei lunghi giri; poi erano fitti cespugli fra i quali era necessario aprirsi il passo a gran colpi di kampilarg; ed ora erano vere reti di calamo o di radici smisurate, in mezzo alle quali Hong ed i compagni si dibattevano come pesci stretti fra le maglie, perdendo tempo ed affaticandosi.
Hong, furioso di trovarsi dinanzi a tanti ostacoli, vibrava colpi disperati a destra ed a manca, facendo cadere rami, liane e radici, ma quando credeva di aver trovato un passaggio, si trovava dinanzi a nuovi ostacoli ed era costretto a ricominciare.
Fortunatamente non s’incontravano animali, anzi pareva che quella parte della foresta fosse assolutamente deserta, e ciò era una vera fortuna pei fuggiaschi; se fossero stati costretti a far uso dei fucili per difendersi, avrebbero attirata l’attenzione degli equipaggi delle canoe o dei prahos che seguivano il legno di Pandaras.
A mezzanotte, Hong accordò un breve riposo ai compagni, non volendo stancare troppo Than-Kiù; poi una mezz’ora dopo si rimetteva in marcia, parendogli di aver udito delle lontane grida in direzione del fiume.
— Noi ci troviamo fra due pericoli — disse a Than-Kiù. — Abbiamo da guardarci dagli uomini di Pandaras e fors’anche dai selvaggi che hanno attaccato le canoe.
— Preferirei cadere nelle mani di questi ultimi che in quelle dei primi, — rispose la giovanetta. — Pandaras non mi perdonerebbe di certo di averlo così bene ingannato.
— Quel briccone sarebbe capace di ucciderti.
— Lo credo, Hong.
— Auguriamoci che non riesca a ritrovare le nostre tracce. Quando si sveglierà, noi avremo percorso molta via e trovato qualche rifugio che... Oh!...
— Cos’hai, Hong?...
— Per Fo e Confucio!... Questa è strana!... Vedo dei lumi brillare in aria.
— In aria!... È impossibile, Hong.
— Non sono cieco e ti dico che ho scorto sulle cime degli alberi dei punti luminosi.
— Saranno lucciole.
— Bisognerebbe che fossero grandi come le volpi volanti. Toh!... Guarda là, in alto!... —
Than-Kiù, Pram-Li e Sheu-Kin scivolarono fra i macchioni che li circondavano e giunti presso il chinese, in uno spazio un po’ scoperto, scorsero delle luci che brillavano a parecchi metri dal suolo, in mezzo al cupo fogliame degli alberi.
— Ma sì, è vero!... — esclamò Than-Kiù. — Si direbbe che delle persone stiano facendo cucina sulle piante.
— Ora comprendo — disse Pram-Li. — Lassù vi sono delle capanne di selvaggi.
— Sugli alberi!... — esclamò Hong.
— Sì, sugli alberi, — confermò il malese. — Gl’igoroti, per sottrarsi agli attacchi dei loro nemici, usano costruire le loro case fra le biforcazioni dei rami.
— Singolare costume!...
— Che li mette al coperto da qualsiasi sorpresa, Hong.
— Che quel villaggio appartenga agli uomini che hanno assalito le canoe?
— È probabile.
— Allora è meglio evitarlo.
— Lo credo anch’io, non sapendo con chi abbiamo da fare. Gl’igoroti non odiano i chinesi, dei quali mai hanno avuto a dolersi; ma per ora è meglio prendere il largo, — disse il malese. — Siamo troppo vicini al fiume.
— Deviamo, — rispose Hong, risolutamente. — Non amo fermarmi a così breve distanza da Pandaras. —
Si rimisero animosamente in marcia, cercando di non far rumore per non attirare l’attenzione di qualche selvaggio che poteva vegliare in quei dintorni. Percorsi due o trecento passi, Hong, che camminava sempre dinanzi a tutti, s’arrestò.
La foresta, che fino allora si era mantenuta assai fitta, cominciava a diradarsi, ed il suolo era diventato improvvisamente così umido e fangoso, da temere che più innanzi si cambiasse in una palude.
— Eccoci in un bell’imbarazzo, — disse il chinese. — Dove andremo a finire?...
— Non si può andare più innanzi? — chiese Than-Kiù.
— Abbiamo delle paludi.
— Le costeggeremo.
— E da qual parte?... Non vedo che tenebre dinanzi a noi.
— Rientriamo nella foresta.
— E correremo il pericolo di farci sorprendere dai selvaggi.
— Brutta situazione. Cosa decidi di fare?... Attendere qui l’alba?...
— E se gli uomini delle canoe c’inseguono?...
— Allora cerchiamo un rifugio.
— Sarei ben lieto di poterlo trovare, Than-Kiù, ma non ne vedo.
— Andiamo a perlustrare i dintorni, — consigliò Pram-Li. — Voi rimarrete qui, ed io e Sheu-Kin c’inoltreremo per cercare un passaggio.
— È l’idea migliore, — rispose Hong. — Badate dove posate i piedi, perchè se vi sono delle paludi non mancheranno i coccodrilli. —
Il malese e Sheu-Kin si sbarazzarono delle provviste, lasciandole sotto la guardia di Hong, e s’allontanarono tastando il terreno con due bastoni, temendo di sentirselo improvvisamente mancare sotto i piedi.
Gli alberi, di passo in passo che s’avanzavano, diventavano sempre più radi ed in loro vece apparivano immensi gruppi di gigantesche canne, indizio sicuro che l’acqua non era lontana.
In mezzo a quei grandi vegetali si udivano, di quando in quando, dei vaghi rumori che annunciavano la presenza di animali notturni. Il malese e Sheu-Kin, i quali s’avanzavano con prudenza, credettero dapprima che vi fossero dei coccodrilli, ma s’accorsero ben presto che avevano da fare con delle bestie molto meno temibili. Erano dei bambiral, ossia dei gatti pescatori, occupati a dare la caccia ai pesci e alle serpi d’acqua. Non sono avversari da disprezzarsi, essendo grossi il doppio dei gatti comuni ed anche di più, robustissimi a segno da tener qualche volta testa alle pantere femmine, però di rado osano assalire gli uomini e solamente quando sono feriti o messi alle strette.
Talvolta invece vedevano sgattaiolare fra quelle canne altri animali, che scorgendoli s’affrettavano ad allontanarsi, mandando una specie di ululato assai acuto.
Erano dei gatti orsini neri, chiamati dai malesi untarong, dal corpo robusto, lungo oltre mezzo metro e fornito d’una coda di pari lunghezza, colla testa grossa, terminante in un muso molto acuminato, colle gambe corte e robuste ed il pelame ricciuto, ruvido e quasi nero.
Al pari dei gatti pescatori, si tengono presso le paludi, essendo grandi distruttori di pesci, ma sono pure abili arrampicatori, e lo sanno i poveri uccelli che troppo di frequente restano vittime di quei notturni predoni.
Sheu-Kin e Pram-Li, dopo dieci minuti, s’accorsero di trovarsi su di una specie di lingua di terra, larga una quindicina di metri, fiancheggiata da enormi mazzi di canne e che si prolungava in mezzo ad un ampia distesa d’acqua.
— Dove andremo a finire noi?... — si chiese Pram-Li, arrestandosi.
— Mi pare che c’impegnamo proprio nel mezzo della palude, — rispose Sheu-Kin, — ammesso però che sia una palude, non scorgendo io le rive.
— Sarà un lago.
— E lo attraverserà questa lingua di terra?...
— Sembra che si prolunghi assai. Vedo le canne serpeggiare fra le acque a perdita d’occhio. È bensì vero che fa tanto oscuro da non poter calcolare la distanza.
— Andiamo ad informare Hong e Than-Kiù. Qui corriamo il pericolo di perdere del tempo che per noi è prezioso.
— E di lasciarci le gambe, — aggiunse il malese. — Odo dei tuffi a destra ed a manca che indicano la presenza di coccodrilli. —
Ritornarono sui loro passi, e non avevano ancora percorso trecento metri quando scorsero Hong e Than-Kiù, i quali s’avanzavano rapidamente, tenendosi nascosti dietro i gruppi di canne.
— Siamo inseguiti? — chiesero Pram-Li ed il chinese, quando li ebbero incontrati.
— Non lo sappiamo, però nel bosco pare che succeda qualche combattimento, — rispose Hong. — Abbiamo udito delle grida ed un fracasso indiavolato.
— Badate che c’inoltriamo in mezzo ad una palude, — disse Pram-Li. — Ci troviamo su di una lingua di terra che da un momento all’altro può finire.
— Pel momento è l’unica via che ci si presenta; percorriamola, adunque. Forse riusciremo a trovare un rifugio più sicuro che in piena foresta.
— Sì, andiamo innanzi, — consigliò Than-Kiù. — Ritornando possiamo cadere nelle mani dei selvaggi o degli uomini delle canoe.
— Che i pirati c’inseguano di già? — chiese Sheu-Kin.
— Lo sospetto — rispose Hong. — Possono aver trovati i loro compagni addormentati e sapendo che noi ci trovavamo prigionieri, si saranno immaginati che noi abbiamo preso il largo, dopo aver fatto quel brutto giuoco a Pandaras.
— Amici miei, badate a me; allontaniamoci subito o lasceremo qui la nostra pelle.
— Non chiediamo di meglio, — risposero Sheu-Kin e Pram-Li, caricandosi dei viveri che Hong non aveva dimenticati.
Si rimisero in cammino frettolosamente, inoltrandosi su quella lingua di terra, risoluti a non fermarsi se non incontravano ostacoli. Ormai avevano la certezza di trovarsi in mezzo ad un lago, perchè avendo misurata l’acqua presso la riva con una lunga canna, non avevano trovato fondo.
Quel bacino, che pareva avesse una considerevole estensione, era interrotto da un certo numero d’isolotti coperti da canne altissime, tutti di dimensioni assai piccole e forse pullulanti di coccodrilli, udendosi di frequente dei sordi tonfi.
Hong avanzavasi sempre rapidamente, seguìto da Than-Kiù e dai compagni, aprendo per bene gli occhi per tema di vedersi sbarrare il passo da quei bestioni, e teneva un dito sul grilletto della carabina, pronto a far fuoco.
Intanto la lingua di terra si assottigliava sempre più e tendeva ad abbassarsi a livello dell’acqua. Il terreno diventava pantanoso e sfuggiva sotto i piedi, aumentando le inquietudini di Hong, il quale si domandava se colà vi fossero delle sabbie mobili.
— Dove metterà capo questa lingua di terra?... — si chiese, dopo altri dieci o quindici minuti di cammino. — Ormai dobbiamo aver percorso almeno due chilometri e non si scorge nulla dinanzi a noi, fuorchè acqua.
— Attraverserà la laguna, — rispose Than-Kiù.
— Vorrei accertarmi di ciò. Ehi, Sheu-Kin, arrampicati sulle mie spalle e guarda dove andiamo a terminare. —
Il giovane chinese consegnò il fucile ed i viveri al malese, si levò le scarpe che erano coperte di fango, poi si arrampicò lestamente sulle spalle di Hong, spingendo lontano gli sguardi.
— Vedi nulla? — chiesero Than-Kiù e Hong.
— Sì, vedo dove termina questa lingua di terra.
— Non attraversa la laguna?... — domandò la giovanetta.
— No, finisce presso un isolotto coperto di canne e che mi pare sia più elevato di questa penisola.
— È lontano quell’isolotto?...
— Forse un cinquecento passi, ma...
— Cos’hai? — chiese Hong.
— Non vedo la riva opposta della laguna.
— Sarà forse molto bassa, e poi è ancora notte.
— Sì, ma sebbene l’oscurità sia profonda, scorgo benissimo dinanzi a noi due animali che si avanzano sulla lingua di terra.
— Cosa sono?... Delle pantere forse?...
— Non ho gli occhi dei gatti per ben distinguerli; nonostante, dalle loro mosse un po’ lente, mi pare che non siano nè pantere, nè gattopardi.
— Andiamo a vedere che cosa sono. —
Il chinese s’affrettò a scendere, calzò le scarpe e riprese il fucile ed i viveri.
— Tenetevi dietro di me e non fate fuoco. Se non sono nè pantere nè gattopardi, possiamo adoperare i nostri kampilang. Delle detonazioni potrebbero tradirci e guidare gli uomini delle canoe od i selvaggi. —
Gettarono i fucili in ispalla, sguainarono le pesanti lame e s’inoltrarono con precauzione, tenendosi presso i canneti, risoluti ad aprirsi il passo e di guadagnare l’isolotto.
Camminavano da cinque minuti, quando udirono una specie di grugnito sordo, uscire da un macchione di canne.
— Ci siamo, — disse Hong. — Con che specie di animali abbiamo da fare?...
— O m’inganno assai o abbiamo dinanzi a noi una coppia di birmang, — disse Pram-Li.
— Cosa sono?...
— Orsi malesi.
— Pericolosi?...
— Talvolta sì, specialmente le femmine; però generalmente sfuggono l’uomo.
— Che fanno qui quegli orsi?... — brontolò Hong.
— Si saranno spinti su questa lingua di terra per cercare gl’insetti ed i piccoli rosicanti, che colle frutta formano il loro principale nutrimento.
— A quest’ora?...
— Sono notturni.
— Sta bene; proveremo su di loro il filo dei nostri kampilang.
— Non esporti colla tua solita audacia, Hong, — disse Than-Kiù.
— Bah! — rispose il chinese. — Gli orsi non sono pantere da piombarmi addosso con un salto inaspettato. —
S’avanzarono tutti e quattro verso il macchione di canne, stringendo le pesanti sciabole. Fatti pochi passi s’arrestarono, poichè videro uno dei due animali slanciarsi bruscamente all’aperto e rizzarsi sulle zampe posteriori.
Pram-Li non si era ingannato; era veramente un birmang, ossia un orso malese, un animale piuttosto grosso, col corpo però allungato che misurava almeno quattro piedi, con un’altezza di settanta od ottanta centimetri dalle zampe alle spalle, una testa voluminosa ed il muso largo con orecchi piccoli.
Aveva il pelame corto, fitto, d’un nero brillante, con una larga macchia giallastra sul petto, in forma di ferro di cavallo.
Hong, che era dinanzi ai compagni, gli si era slanciato contro colla formidabile sciabola alzata, ma l’orso, forse spaventato dal numero degli avversari, ricadde prontamente sulle zampe anteriori e fuggì lestamente nella macchia.
— Ah!... Il pauroso!... — esclamò Hong.
Si slanciò innanzi seguìto da Than-Kiù, da Sheu-Kin e dal malese, e giunto fra le canne vide i due orsi galoppare velocemente sulla lingua di terra.
— Li ritroveremo sull’isola, a meno che non preferiscano gettarsi in acqua, — disse Hong.
— Forse colà hanno il loro covo, — disse Pram-Li.
Si misero ad inseguire vigorosamente i due animali i quali continuavano la corsa, arrestandosi solo di tratto in tratto per vedere se i loro avversari si erano arrestati. Giunti però all’estremità di quella lingua di terra, dinanzi ad un canaletto che la divideva dall’isolotto, di comune accordo volsero la fronte, come si preparassero alla resistenza.
— Sì, devono avere il covo e fors’anche i piccini sull’isolotto, — disse Pram-Li.
— O sgombreranno o li uccideremo, — rispose Hong. — Non voglio accamparmi con dei vicini che possono diventare pericolosi. —
I due orsi, vedendo comparire gli avversari, si erano raddrizzati sulle zampe posteriori, mandando sordi grugniti.
Il più grosso, il maschio di certo, con un’agilità che nessuno avrebbe sospettata in quel corpo piuttosto massiccio, si avventò con tale furia addosso ad Hong che a questi, sorpreso dall’inaspettato assalto, mancò il tempo d’alzare il kampilang. Quasi nel medesimo istante l’altro caricava, con pari slancio, Pram-Li e Sheu-Kin, tentando di abbrancare or l’uno or l’altro.
Hong, urtato in pieno petto, malgrado il suo vigore straordinario non resse, tanto più che il terreno era fangoso, sdrucciolevole, e cadde all’indietro. L’orso, senza curarsi di Than-Kiù che accorreva in aiuto del compagno, gli si gettò sopra tentando di abbracciarlo, per poi soffocarlo con una stretta poderosa.
La giovanetta era però una tale avversaria da tenerne conto. Niente affatto atterrita, si era fatta animosamente innanzi, stringendo con mano robusta il kampilang.
L’arme scintillò un istante in aria e piombò sul corpo dell’animale, producendogli una ferita spaventevole dalla quale schizzò il sangue in gran copia.
Reso maggiormente furioso da quel colpo, l’orso abbandonò il chinese e si volse contro la valorosa giovane, investendola disperatamente.
Guai se Than-Kiù si fosse lasciata prendere; ma essa aveva compreso che non vi era da scherzare, e si era messa ad indietreggiare lestamente, minacciando l’avversario coll’arma.
Disgraziatamente la lingua di terra non era larga più di cinque metri, e ben presto si trovò coi piedi in acqua.
— Morte di Fo!... — urlò Hong, il quale si era subito rialzato. — Fermati, Than-Kiù!... —
Aveva ripreso il kampilang che nella lotta gli era sfuggito e si era scagliato alle spalle della fiera.
La pesante arma, impugnata da quel braccio potente, piombò con tale violenza, da tagliar netto il capo dell’animale.
Balzò sopra quel corpo sanguinante che si agitava fra le ultime convulsioni, afferrò la giovanetta che aveva l’acqua fino alle ginocchia e la sollevò bruscamente.
Quasi nell’istesso momento due mascelle enormi, irte di lunghi denti, emersero sotto la giovanetta e si rinchiusero con un fragore simile a quello che produce un cassone quando viene violentemente chiuso.
— Mille demoni!... — gridò Hong, che era diventato pallido come un cencio lavato. — Un istante di ritardo e quel coccodrillo le troncava le gambe!... —
Mentre pronunciava quelle parole anche il secondo orso cadeva esanime sotto i colpi di kampilang di Sheu-Kin e del malese.