Idilli (Teocrito - Romagnoli)/XXIV - Ercole in culla

XXIV - Ercole in culla

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
XXIV - Ercole in culla
XXIII - L’innamorato XXV - Ercole che uccide il leone
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XXIV

ERCOLE IN CULLA

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Ora, una notte fra l’altre, Alcmena, la donna di Mídia,
deposto Ercole aveva, con Ificle, nato una notte
dopo di lui, poi che li ebbe lavati e ben sazi di latte,
entro un bellissimo scudo di bronzo, che aveva predato
Anfitrïóne al re Pterelào, quando cadde sul campo.
E detto avea, protese le mani sul capo dei bimbi:
«Dormite un dolce sogno cui segua soave risveglio,
anime mie, figli miei gemelli, miei dolci bambini:
sereno il sonno sia, sereni destatevi a l’alba».
Diceva; e il grande scudo cullava; ed il sonno li colse. —

A mezzanotte, quando già l’Orsa declina al tramonto,
contro Orïone, e questo dal mare il grande omero innalza,
due suscitò l’astuta Giunone terribili mostri,
due draghi orridi tutti nel guizzo di cerule spire,
su l’ampia soglia, dove sorgevan gli stipiti cavi,
e minacciò che sbranato avrebbero il pargolo Alcíde.
E rotolarono i due serpenti i volubili ventri
di sangue avidi al suolo: brillava dagli occhi una fiamma,

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mentre avanzavano, orrenda, sputavano tossico acerbo.
Ma poi che, lingueggiando, fûr giunti vicino ai bambini,
ecco, mercè di Giove, cui nulla si cela, fûr desti
d’Alcmena i dolci figli, brillò ne la casa un fulgore.

Ificle tosto gridò, come vide gli orribili mostri
sul cavo scudo, vide brillare le luride zanne,
e con un colpo dei piedi gittò la villosa coperta,
tentando di fuggire. Ma Ercole, surto alla lotta,
stese le mani, ed entrambi serrò con un duro legame
gli angui fatali alle strozze, dov’essi nascondono il tòsco
fatale, ond’hanno orrore perfino i Signori d’Olimpo.
E si divincolavano entrambi d’intorno al fanciullo,
lattante, al tardi nato, che mai fra le braccia non pianse
della nutrice; ma poi si sciolser coi dorsi fiaccati,
ed uno scampo essi stessi cercâr dalla stretta fatale.
Ed ecco, il grido udí prima AIcmena, che prese a gridare:
«Anfitrïóne, sórgi, ché grave terrore m’invade:
lèvati, non ti curare di stringerti i sandali ai piedi.
Non odi il piú piccino dei bimbi, come urla? Non vedi
che le pareti tutte, sebbene sia notte ancor buia,
sono fulgenti, quasi brillasse la limpida Aurora?
C’è, c’è qualcosa di nuovo, in casa, marito mio bello».

Disse. E Anfitríone, udita la sposa, balzò giú dal letto,
stese la mano alla spada sua bella, che sopra il giaciglio
appesa, pronta sempre, teneva a un piolo di cedro.
E d’una mano impugnò il balteo di fresco intessuto,
con l’altro la guaina leggiadra di legno di loto,
e tutta la gran sala fu invasa di nuovo dal buio.
I servi indi chiamò, sprofondati nel grave sopore:
«Portate presto il fuoco, prendetelo dal focolare,
famigli miei: levate dagli usci le spranghe massicce».

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— Levatevi, operosi famigli: vi chiama il padrone —
disse una donna fenicia che presso i mulini dormiva.
E accorser tutti quelli, recando le fiaccole accese:
ognuno s’affrettava, la casa era tutta un tumulto.
Ed ecco, appena videro Alcíde tuttora poppante,
che con le tenere mani stringeva alla strozza i due mostri,
un urlo tutti insieme levarono; e il bimbo a suo padre
mostrava i due serpenti, li palleggiava alti sul capo,
con bambinesca festa; e infine, ridendo, ai suoi piedi
gittò gli orrendi mostri, sopiti in letargo di morte.
E poscia, Alcmena al seno si strinse il minore dei figli,
Ificle, esangue tutto, e trepido per lo spavento:
sotto il villoso mantello raccolse Anfitríone l’altro,
e nuovamente al letto tornò per riprendere sonno.
Ecco, e tre volte i galli cantaron già alto il mattino.
AIcmena fece allora chiamare Tiresia indovino,
che presagiva il vero, gli disse del nuovo prodigio,
d’esprimer tutto ciò che doveva avvenire gl’ingiunse.
«Né se qualcosa di tristo preparano i Numi, riguardo
tu devi avere, e celarlo: ché tanto, non posson gli umani
quello evitare ch’abbia filato la Parca fatale.
Ma che vo’ dando, o figlio d’Evère, consigli ad un saggio?».
Disse cosí la regina: cosí l’indovino rispose:
«Madre di sommi figli, di Pèrseo sangue, fa’ cuore,
e serba in mente il meglio dei prosperi eventi futuri.
Per questa dolce luce degli occhi, da tanto perduta,
molte donne d’Acaia, torcendo sovresso il ginocchio
il morbido filato, il nome d’Alcmena nel canto
esalteranno; e sarai l’onor delle femmine d’Argo:
tal uomo il figlio tuo, tal eroe dal petto possente
crescerà, salirà sino al cielo che regge le stelle.
Gli uomini tutti, tutte le fiere, saranno piú fiacche
di lui. Poi, quando avrà compiute ben dodici prove,

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e salirà presso Giove, lasciando la spoglia in Trachíne,
genero detto sarà dei Numi, che questi dragoni
spinsero dalle spelonche, perché divorassero il bimbo.
E verrà giorno che il lupo, trovando nel covo un cerbiatto,
stringere non vorrà, per sbranarlo, i terribili denti.
Ma ora, o donna, sotto la cenere il fuoco sia pronto,
e preparate legna di giuggiolo secco o ginestra,
o di perúggine o rovo risecco, sbattuto dal vento,
e su le loro schegge selvagge bruciate i serpenti,
a mezzanotte, quando essi cercaron d’ucciderti il bimbo.
Ed al mattino un’ancella, dal fuoco la cenere tolta,
il fiume varchi, ed oltre la porti, e in burroni scoscesi
tutta la gitti, fuori dei vostri confini; e poi torni
senza rivolgere il capo. La casa indi pura si renda,
prima con solfo schietto; metteteci poscia del sale,
com’è costume; e un ramo cingete di bende, e spruzzate
limpida linfa; e a Giove sgozzate un porcello di latte.
E sempre allora avrete trionfo dei vostri nemici».

Cosí disse; e respinto da sé lo sgabello d’avorio,
partí, sebbene grave per gli anni suoi molti, Tiresia.
E crebbe Ercole, come ne l’orto una pianta novella,
presso la madre; e fu detto figliuol d’Anfitríone argivo.
E suo maestro fu, ne le lettere sperto lo rese
Lino vegliardo, l’eroe senza sonno, figliuolo d’Apollo.
A tender l’arco, al segno lanciare lontano lo strale,
Èurito, d’ampie terre, dai padri redate, opulento.
L’ammaestrò nel canto, gli apprese a comporre le mani
sopra la lira di bosso Eumòlpo figliuol di Filammo.
E quanti modi sanno gli Argivi dall’agili cluni,
d’abbatter con l’intreccio dei piedi l’un l’altro a la lotta,
quanti i pugilatori, pei cesti terribili, e quanti,
1 pancraziasti, quando si gittano al suolo rovesci,

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tanti ne apprese al fanciullo Arpàlico figlio d’Ermète,
di Fanotèa, cui niuno, vedendolo pur da lontano,
cuore d’attendere avea, quand’ei ne l’agone lottava:
tale era impresso a lui sul viso terribil cipiglio.
Ad eccitare cavalli al cocchio aggiogati, e nel giro
schivar la meta e incolume l’asse serbar de le ruote,
al suo figliuolo fu maestro Anfitríone stesso:
ché prezïosi doni sovente egli avea dagli agoni
impetuosi, ad Argo l’equestre recati; ed i cocchi
dove ei salía, perdevan col tempo consunte le briglie.
Ad affrontare un guerriero con l’asta protesa e lo scudo
dietro le spalle, a sfidare le crude ferite dei brandi,
ad ordinar la falange, a computo far d’una squadra,
quando s’avanza ostile, dare ordini a gente a cavallo,
Càstore l’ammaestrò, l’Ippàlide, giunto fuggiasco
d’Argo, ove tutto Tidèo regnava il vitifero piano,
ché Adrasto il regno d’Argo l’equestre gli aveva lasciato.
Ercole, dunque, cosí venía dalla madre educato.
Presso al giaciglio del padre steso era il giaciglio del bimbo,
un vello di leone, che assai gli piaceva. Il suo pasto
era di carne arrostita, e dentro un canestro, un gran pane
dorico: un zappaterra poteva di certo far sazio.
Ma sobria era sul vespro la cena, e di cibi non cotti.
E rozza era la veste, né a mezzo copriva le gambe.


Nota

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XXIV

ERCOLE IN CULLA

Anche qui Teocrito non isfugge al terribile confronto con Pindaro; e anche qui n’esce sconfitto. Vero è, che l’ode per Cromio di Siracusa, in cui il poeta di Tebe descrive anch’egli la prima impresa di Ercole, contiene tratti che sono meravigliosi anche fra la perpetua meraviglia di Pindaro. Per esempio: [p. 264 modifica]

Alcide, levando su erta la testa,
compié quella prima sua zuffa,
le strozze ghermendo ai due draghi
con ambe le mani; né quelli
sfuggiron la stretta; e brev’ora
spazzò le loro anime dall’orride membra.

Oppure, quando Anfitrione corre al soccorso del figlio:

Ed Anfitrióne, scotendo
ignuda nel pugno la spada,
moveva, ferito d’acuto travaglio:
ché il duolo domestico
ci schiaccia: pei danni degli altri,
ben presto serenasi il cuore.
E stette, sospeso fra gaudio
e immenso stupore;
ché vide l’ardire incredibile
del figlio, e la possa.

Ma addirittura schiacciante riesce il confronto fra le profezie che concludono rispettivamente i due carmi. Fra i «metodi» poetici dei dottissimi Alessandrini, ce n’era anche uno non discaro neanche a qualche poeta moderno: prendevano il testo, e spesso spesso anche le glose, di qualche bel manuale di mitologia, di storia, d’etnografia, e lo mettevano bravamente in versi, preferibilmente in distici elegiaci, e in paludamento di profezia. Teocrito fa qui come gli altri, e ci presenta un quadro dell’educazione di Ercole, che ha l’impostatura, anch’esso, di una profezia, ma la sostanza d’un programma di corsi ufficiali d’una scuola di cultura fisica.

Ben diversa è l’arte di Pindaro. Affissandosi alla gran moltitudine delle gesta compiute da Ercole, ne coglie, con profondo [p. 265 modifica]spirito sintetico, i tratti essenziali, e li fa passare, con accenni balenanti, dinanzi ai nostri occhi, sino ai due momenti supremi, la lotta coi Giganti, sostenuta a fianco dei Numi, e l’apoteosi e il matrimonio con Ebe. La materia mitica non è freddamente travasata, bensí dominata e gittata in alate vibranti forme lirico-musicali.

Tiresia, solenne verace profeta,
disse alle turbe fra quante venture
il pargolo avvolto sarebbe,

e a quante darebbe la morte
crudissime belve
per terra, ed a quante nel pelago;
e disse che alcuno degli uomini avvezzi
a obliqua violenza, da lui
verrebbe anche spento; e soggiunse
che quando i Giganti, nel piano
flegrèo, pugneranno coi Numi,
sottessa la furia dei dardi d’Alcíde,
le fulgide chiome
dovranno insozzar nella polvere.

E ch’ei, nelle case beate, godendo una pace perenne,
un placido eterno riposo, compenso ai suoi gravi travagli,
unitosi ad Ebe fiorente, con lei celebrate le nozze,
vicino al Croníde, l’elogio
dirà delle sante sue leggi.

È chiaro che io non ho istituito questi raffronti per stabilire priorità, e per deprimere Teocrito; bensí, al solito, per distinguere: per rendere chiaro, quasi tangibile, mediante un parallelo appropriato, quanto differisce la concezione della poesia [p. 266 modifica]epico-lirica del gran periodo classico da quella degli Alessandrini, che pure la predilessero. D’altronde, tutti sanno che la grandezza di Teocrito non è qui; la colpa che, al massimo, gli si potrebbe apporre, sarebbe quella di non aver bene valutate le proprie attitudini, e di non aver saputo resistere alla moda del tempo.