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188 TEOCRITO

lunga, e si preparò senza indugio alla lotta. Nell’ira
turgido tutto il collo si fece, la rossa criniera
orrida ed irta, curva la spina del dorso divenne
al par d’un arco, e i fianchi raccolse in un groppo e i garetti.
E come un carradore, provato ai segreti dell’arte,
d’un caprifico i rami flessibili curva, che prima
li scalda al fuoco, e ruote ne foggia per l’asse del carro;
ed ecco, a un tratto, il ramo curvato dell’agil ficastro
di man gli sfugge, e via lontano si lancia d’un balzo:
cosí piombò su me da lungi l’orrendo leone,
stretto in un groppo, ché bere voleva il mio sangue. Ma io
con l’una man le frecce protesi e il mantello addoppiato,
l’arida clava con l’altra levai, la vibrai su la testa,
sopra la tempia del mostro: in due su la testa villosa
della terribile fiera si ruppe il nodoso oleastro.
Ed esso, a terra giú piombò, ch’era a mezzo del salto,
prima che a me giungesse. E stette, sui piedi tremanti,
giú ciondolando la testa: ché tenebra a lui sopra gli occhi
scendea: sí forte fu la percossa su l’osso del cranio.
Ed io, come lo vidi smarrito pel grave cordoglio,
prima che recuperasse lo spirito, sí lo prevenni:
a terra l’arco, a terra gittai la mia salda faretra,
all’indomabile collo m’avventai, lo strinsi alla nuca,
e lo strozzai, stringendo le mani mie fiere, da tergo,
cosí ch’ei non potesse con l’unghie straziarmi la carne.
E coi talloni al suolo premendogli presso alla coda
le zampe, mi schermivo, ché il ventre m’avesse a ferire,
finch’ei piú breve trasse l’anelito, e senza respiro
restò stremato; e l’Ade terribile l’anima accolse.
E poi, pensar dovei come fuor dalle membra potessi
trarre del mostro spento la pelle tutta irta di peli:
travaglio assai penoso, perché né col ferro tagliarla,
né con le pietre potevi, né in altro qualsiasi modo.