cresce l’ulivo selvaggio, d’Apollo custode dei greggi
sacro sacello, del Dio che manda i veraci presagi.
Sorgono, accanto lí, di noi villici l’ampie capanne,
che custodiamo del re le ricchezze; e son tante, che dire
mal si potrebbe: il seme gittiamo talora nei solchi
della maggese scalzata tre volte e persin quattro volte.
Stanno ai confini quelli che seduli piantan le vigne,
e vengono quand’è la stagione di premere l’uva:
ch’è tutta quanta questa pianura d’Augèa, del re savio,
e i campi di frumento feraci, e i poderi alberati,
fino all’estremo confine dei vertici irrigui di polle,
dove operosi noi soggiorniam dal mattino alla sera,
come s’addice ai servi che passan la vita nei campi.
Ma dimmi adesso tu, ché a cuor deve stare a te stesso,
quale necessità t’indusse a cercar questi luoghi,
se tu cerchi lo stesso sovrano, o se alcun dei famigli
che vivon qui: ch’io so tutto quanto a puntino, e son pronto
a dirti tutto il vero: ché figlio di gente dappoco
non saprei dirti; e un dappoco tu stesso davvero non sembri:
tanto è la tua figura prestante: i figliuoli dei Numi
han tale aspetto, appunto, se scendono mai fra i mortali».
E a lui queste parole rispose il figliuolo di Giove:
«O vecchio, sí, vorrei vedere il sovran degli Epèi,
Augèa: necessità di lui qui mi spinse a venire.
Se dunque egli in città si trova, fra i suoi cittadini,
se le faccende cura, giustizia amministra a le genti,
additami qualcuno dei servi, e conducimi a lui,
ch’abbia prestigio, che sia capoccia dei villici: a quello
potrei parlar, sapere da lui ciò che bramo: ché il Nume
volle che avesser l’uno bisogno dell’altro, i mortali».
E a lui queste parole rispose l’accorto aratore:
«Tu giungi, ospite, qui, per volere d’alcuno dei Numi:
ché tutto ciò che tu brami, d’un tratto si vede compiuto: