Idilli (Teocrito - Romagnoli)/XXII - I Dioscuri

XXII - I Dioscuri

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
XXII - I Dioscuri
XXI - I pescatori XXIII - L’innamorato
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XXII

I DIOSCURI

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Cantiam di Leda e Giove, signore dell’ègida, i figli,
Càstore, ed il tremendo nel pugile gioco Pollúce
che ne le grandi guigge di cuoio costringe le mani:
i due maschi rampolli cantiamo due volte e tre volte
della figliuola di Testi, cantiamo i gemelli di Sparta,
patroni ai giovinetti che imberbe tuttora hanno il mento,
ed ai cavalli, quando si sbandan fra mischie cruente,
ed alle navi, quando ribelli al presago spuntare
e tramontar degli astri, s’imbattono in fiere procelle.
E i venti un alto flutto sollevan di sotto alla poppa,
o van sotto la prora, van dove ciascuno piú brama,
e ne la cala s’avventano, e spezzano entrambe le coste.
E tutte quante vedi sull’albero e gómene e vele
pendere a caso, squarciate: dal cielo, calando la notte,
fitta la pioggia cade, i flutti rimbombano a furia,
percossi dagli spiri del vento, e da grandine fitta.
Ma, tuttavia, dall’abisso del mar voi traete le navi
coi naviganti, quando credean già sicura la morte.
Súbito allora i venti si placano, è molle bonaccia

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sul mar, di qua di là si sperdono tutte le nubi,
l’Orse compaiono in cielo, degli Asini in mezzo, la Greppia,
fioca brillando, accenna che tutto è propizio ai nocchieri.
O protettori voi degli uomini entrambi ed amici,
atleti, cavalieri, maestri di cetera, aèdi,
prima di Càstore o prima cantare dovrò di Pollúce?
L’inno sarà d’entrambi, ma prima dirò di Polluce.

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INNO PER POLLUCE


La nave Argo, com’ebbe schivate le rupi cozzanti
e la terribile bocca del Ponto coperto di neve,
giunse ai Bebríci, i figli recando diletti dei Numi.
E dalla nave qui di Giasone, discesero fitti
con una sola scala, da un fianco e dall’altro, i guerrieri,
sopra una spiaggia di sabbia profonda, a riparo dal vento,
stesero a terra i giacigli, si diedero cura dei fuochi.
Ma Castore dai ratti puledri e l’adusto Pollúce
mossero entrambi soletti, lontan dai compagni, pel monte,
a contemplare una selva selvaggia, d’ogni albero folta.
Ed una fonte perenne trovarono sotto una pietra
nitida, ch’acque volgeva copiose purissime: al fondo
brillavano lapilli, parevano argento e cristallo,
dall’imo gorgo; e pini sorgevano eccelsi d’intorno,
candidi plàtani, ed altochiomati cipressi, e corolle
di fior’, fragranti, dolce lavoro per l’api villose,
quanti, allorché primavera declina, germoglian sui prati.
E qui seduto stava un uomo gigante al sereno:
terribile a vedere: schiacciate le orecchie dai pugni
duri, ed il petto immane rotondo, la schiena possente,
polpe di ferro, come dal màlleo battuto colosso,
e nelle braccia, sotto dall’omero, i muscoli duri
stavano come blocchi monòliti, cui rotolando
torrenzïale fiume lisciò coi suoi vortici grandi;

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e sopra il dorso e sopra la nuca, giú giú, delle gambe
sino all’estremo, appesa la pelle d’immane leone.
Primo Pollúce a lui, vincitore di gare, si volse.
polluce
Salute, ospite, chi tu sii: di che genti è la terra?
àmico
Come salute, se vedo persone che mai non ho viste?
polluce
Fa’ cuor: sappi che iniqui non vedi, né figli d’iniqui.
àmico
Cuore, ne faccio: da te non devo imparare il mestiere.
polluce
Sei selvatico? Nutri per tutti rancore e disprezzo?
àmico
Quale mi vedi io sono. Dei fatti tuoi forse m’intrigo?
polluce
Vieni: ospitali doni gradisci, ed a casa ritorna.
àmico
No, non offrirmi doni: ché io non son pronto al ricambio.

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polluce
Non lasceresti, brav’òmo, neppur che bevessi quest’acqua?
àmico
Se i labbri schiusi t’arda la sete, da te lo vedrai.
polluce
Quanto denaro vuoi, che compenso per cedere? Dillo.
àmico
Piantarti a tu per tu contro un uomo, e venire alle mani.
polluce
Pugni vibrando, e coi piedi battendo lo stinco? Io son pronto.
àmico
Coi pugni; e risparmiare non devi risorsa dell’arte.
polluce
L’uomo dov’è, con cui provar debbo le mani ed il cesto?
àmico
Presso lo vedi; né alcuno chiamarlo potrà femminetta.
polluce
Ed anche il premio è pronto, per cui ci dobbiamo azzuffare?

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àmico
Io servo tuo, tu mio sarai detto, se vincerti io posso.
polluce
S’azzuffano a tai norme gli augelli di cresta vermiglia.
àmico
Sia che possiamo augelli sembrare, o sembrare leoni,
per questo premio a zuffa venire dovrem, non per altri.


Disse. E alla bocca una cava conchiglia portò, trasse un mugghio
Àmico. Ed a quel soffio, dei platani all’ombra, veloci
corsero i Bèbrici tutti, che mai non si radon le chiome.
Càstore si spiccò similmente, l’eroe prode in guerra,
e dalla nave magnesia chiamò tutti quanti i guerrieri.
E i due, rese ben dure le pugna con guigge di bove,
raccolte le coregge d’intorno alle solide braccia,
l’un contro l’altro, morte spirando, si fecer nel mezzo.
E qui, mentre moveano, fu grande lo sforzo d’entrambi,
chi sopra il dorso ricever dovesse la luce del sole;
e assai, Polluce, tu superasti in destrezza il rivale:
il sol tutto coi raggi percosse d’Àmico il volto.
Avanti si lanciò questi, dunque, con l’animo in furia,
ed avventò le pugna; ma il figlio di Tíndaro, al sommo
del mento lo colpí, mentr’egli avanzava. Piú fiero
quei si riscosse, e, a terra chinando la testa, tremendo
sopra gli fu. Grida alte levarono i Bèbrici; e cuore
gli eroi, dall’altra parte, faceano al gagliardo Polluce,
temendo che quell’uomo, che Tizio pareva, dovesse
in quell’angusto spazio domarlo, schiacciarlo col peso.

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Ma da una parte e dall’altra il figlio di Giove lo incalza,
lo batte a colpi alterni con ambe le pugna, e trattiene
per grande che la forza ne sia, di Posídone il figlio.
E si fermò, briaco di colpi, ed il livido sangue
sputò. Levaron tutti quei prodi alte grida di gioia,
come le sconce piaghe mirar su le guance e la bocca:
tanto era gonfio il viso, che gli occhi sembravan piccini.
E, finti colpi, poi, d’ogni parte lanciando, Polluce
lo sconcertò; poi, quando lo vide smarrito, di sopra
il pugno spinse, sotto le ciglia, nel mezzo del naso,
e tutta gli scoprí, sino all’osso, la fronte. Percosso
quegli piombò, disteso supino tra l’erbe fiorenti.
E ancor s’alzò, di nuovo la zuffa avvampò furïosa,
e con i duri cesti, l’un l’altro batteva, struggeva.
Ma sopra il petto e i lombi lanciava dei Bèbrici il sire
le pugna, e sopra il collo; ma invece, di sconce percosse
lui strazïava sempre sul viso l’invitto Pollúce.
E s’afflosciarono a quello, sudando, le carni; e, da grande,
fatto pareva piccino; ma quanto cresceva il travaglio,
tanto parean piú massicce le membra dell’altro, e rubeste.

Or, come vinse il figlio di Giove il vorace gigante?
Dea che lo sai, tu dillo: agli altri io dirò ciò che appresi,
o Dea, da te, per quanto tu voglia, per quanto ti piace.

Àmico, dunque, ardendo di compiere qualche gran fatto,
con la sinistra afferrò di Polluce la mano sinistra,
obliquamente il corpo piegando nel lancio; e da destra
gli spinse, verso il cavo del fianco, il suo pugno massiccio.
E, se colpito l’avesse, finito era il re degli Amícli;
ma sguisciò sotto; e il capo ferí del gigante col pugno,
sotto la tempia sinistra, gravando la spalla sul colpo:
livido il sangue tosto sgorgò dalla tempia squarciata.

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E con un altro percosse la bocca; e stridettero i denti.
E gli struggeva il viso con sempre piú aspro remeggio,
finché sbranate gli ebbe le guance. Ed a terra proteso
senza piú senso giacque; e in su, rinunciando alla lotta,
protese ambe le mani, ché presso era giunto alla morte.
E tu, sebben domato l’avevi, non inferocisti
su lui, pugilatore Pollúce; e un gran giuro ei ti fece,
per testimonio dal mare chiamando suo padre Nettuno,
che non avrebbe mai piú molestati per primo i foresti.


Cosí l’inno, o Signore, tu avesti. Or te, Càstore, canto,
rapidalancia, puledriveloce, corazzadibronzo.

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INNO PER CASTORE


I due figli di Giove traevano dunque, rapite,
di Leücippo le due figliuole: a inseguirli veloci
moveano i due fratelli figliuoli del sire Afarèo,
Ida gagliardo, e Lincèo, promessi e vicini alle nozze.
Quando alla tomba presso fûr giunti del morto Afarèo,
scesero giú dai cocchi, balzarono gli uni su gli altri,
delle zagaglie gravi, dei concavi scudi. E Lincèo
parlò, di sotto all’elmo lanciando la voce possente:
«O sciagurati, perché bramate la pugna? E feroci
per l’altrui donne, ignude nel pugno stringete le spade?
Ai nostri doni queste sue figlie promise Leucippo:
fûr prima assai per noi che per voi, queste nozze giurate.
Bello non par che voi, pei talami ch’erano d’altri,
con muli, con giovenchi, con altri molteplici doni,
quell’uomo corrompiate, prediate coi doni le nozze.
E ben sapete ch’io, piú volte, d’entrambi al cospetto,
tanto, sebbene io non sia di molte parole, vi dissi:
— Amici cari, cosa non è che agli onesti convenga,
voler le spose avere per cui son già pronti gli sposi.
È grande Sparta, è grande l’Arcadia nutrice di greggi,
l’Èlide è grande anch’essa, che nutre corsieri, e Micene,
le rocche degli Achei, di Sísifo tutta la spiaggia.
Crescono qui, pensiero dei lor genitori, fanciulle
innumerevoli, e menda non hanno di membra o di senno.

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Facil per voi, fra queste sposar quale meglio vi piaccia;
ch’essere molti padri vorrebbero suoceri a prodi;
e voi distinti siete fra quanti pur vivono eroi,
e i vostri padri, e tutta, salendo, la stirpe paterna.
Amici, e dunque voi lasciate che giungano a mèta
le nostre nozze; e tutti per voi ci daremo pensiero. —
Cosí parlavo; e mai non ebbero grazia i miei detti;
ché li rapiva ai gorghi del mare una furia di venti.
Inesorabili sempre voi foste, e crudeli; ma ora
datemi retta; entrambi ci siete cugini paterni.
Se, poi, guerra il cuor vostro desidera proprio, e col sangue
lavar convien la lite fraterna, e spezzare le lance,
Ida e il fratello mio, Pollúce dal braccio gagliardo,
tengano lungi le mani dall’urto di lotta odïoso;
e noi, che siamo d’anni piú giovani, io con Lincèo,
decideremo col ferro: cosí meno fiero il travaglio
dei genitori sarà: basti un morto per una famiglia;
e colmeranno gli altri il cuor degli amici di gioia,
ché non saranno defunti, ma sposi di queste fanciulle:
col minor danno conviene comporre le liti piú grandi».

Disse cosí; né il Dio dovea rendere vani quei detti.
I due ch’eran piú avanti con gli anni, dagli omeri a terra
giú deposero l’armi. E in mezzo si fece Lincèo,
che, fatto il primo giro, scotea dallo scudo la lancia;
e parimenti, dell’asta scoteva la cuspide somma
Càstore: sopra i cimieri le creste ondeggiavano a entrambi.
E primo l’uno l’altro tentò col travaglio dell’asta,
se un punto a caso ignudo paresse del corpo; ma prima
che nocumento alcuno recare potessero, frante
eran le punte, confitte restaron sui duri palvesi.
Dalle guaine allora le spade fuor trassero; e morte
l’un disegnava all’altro; né tregua era mai dalla pugna.

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Càstore molti colpi su l’elmo crinito e lo scudo
vibrò: molti Lincèo dallo sguardo acutissimo, a lui
sopra lo scudo, o dove paresse il purpureo cimiero.
Ma mentre un colpo questi vibrava al ginocchio sinistro,
Càstore indietro, sul pie’ sinistro, si fece, e la destra
man gli percosse. Gittò la spada il ferito, e di corsa
fuggí súbito verso l’avello del padre, dove Ida
stava sdraiato, e la pugna mirava dei prodi parenti.
Ma si lanciò, la spada sua larga di Tíndaro il figlio
tra l’umbelico e il fianco gl’immerse: le visceri il bronzo
lacerò súbito dentro. Lincèo su la bocca supino
si giacque; e greve a lui piombò su le pàlpebre il sonno.
Ma neppur l’altro dei figli veder Läocosa doveva,
compier le grate nozze vicino all’altare paterno.
Ida Messenio, d’un tratto, la pietra strappò dall’avello,
e s’accingeva già l’uccisore a colpir del fratello;
ma Giove l’impedí, gli fece cader dalle mani
lo sculto marmo, e lui bruciò con l’ardente saetta.
Facil non è venire coi figli di Tíndaro a lotta:
ché sono essi gagliardi, da padre gagliardo son nati.


Figli di Leda, salvete! Largite perpetua fama
anche a questi inni miei: ché sono di Tíndaro ai figli
cari i cantori tutti, ad Elena, a quanti campioni,
per vendicar Menelao, distrussero d’Ilio la rocca.
Al vostro nome, eroi, provvide il cantore di Chio,
quando le navi cantò degli Achivi, di Priamo la rocca,
e le battaglie d’Ilio, e Achille, gran torre di guerra.
Ed ora il miele anch’io per voi delle Muse, quel miele
ch’esse largiscono a me, che a me la mia casa provvede,
v’offro: ed i canti sono pei Numi l’offerta piú bella.


Nota

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XXII

I DIOSCURI

Ricordo benissimo che, una ventina d’anni fa, nel mondo letterario italiano si diffuse una certa commozione perché un romanziere aveva introdotti nei suoi racconti dei dialoghi ex-abrupto, senza preparazione narrativa. In realtà, Teocrito, l’aveva già fatto parecchi secoli prima, in questo idillio sui Dioscuri.

Il poeta vi rappresenta due episodii mitici famosi: la lotta di Polluce col gigante Amico, e il ratto delle Leucippidi. Il primo di essi, offre un singolare interesse, ai nostri giorni di delirio sportivo, e, specialmente, pugilatorio. E non c’è bisogno di essere specialisti, per riconoscere, nella descrizione teocritea, tutti, piú o meno, i colpi della boxe moderna.

Come avviene, quasi sempre negli scontri reali, e sempre in quelli inventati, uno dei due campioni supera molto l’altro per mole, per forza brutale, e per ferocia; ma l’altro è piú agile e piú scaltrito nell’arte. E, al solito, da principio sembra che Amico debba, col semplice suo peso, schiacciare l’elegante Polluce. Ma non c’è da temere: si sa bene che, anzi, in questi casi, vince sempre il piú elegante e cavalleresco.

Prima di tutto, dunque, si provvede al bendaggio. E non è davvero bendaggio molle, bensí fatto con guigge di durissimo cuoio. Lo scontro comincia poi con un’azione per guadagnare il vantaggio del terreno, facendo rimanere l’avversario col sole in faccia: giuoco non troppo frequente nelle gare contemporanee, che si svolgono in luoghi chiusi, o verso il tramonto, ma che aveva [p. 261 modifica]una parte importante in altri cimenti, per esempio nei classici duelli alla spada dei tempi di Carlo IX, o di Enrico III.

Nei primi colpi, dunque, che Amico avventa lanciandosi contro Polluce, è facile riconoscere altrettanti swings, i famosi colpi orizzontali, tanto al viso, quanto al corpo, repudiati dagli Americani, ma tenuti sempre in grande onore dagli Inglesi. E nel colpo con cui Polluce frena quell’impeto brutale, anche gli orbi riconosceranno il celeberrimo «uppercut», il colpo dal basso in alto, che paralizza quasi sempre l’avversario, e non di rado ha virtú di spedirlo all’altro mondo. Amico rimane stordito per un istante, e poi si precipita di nuovo su Polluce, a testa bassa, certo per dargli una capata nello stomaco: colpo non proprio elegantissimo, ma di efficacia non discutibile. Ma Polluce para, e contrattacca con una fittissima serie di destri-sinistri, che arrestano il gigante; e poi, storditolo con una serie di finte, gli vibra tra gli occhi, al disotto del naso, un terribile «diretto» che lo fa stramazzare al suolo.

Un round è compiuto; ma lo scontro non è ancora terminato. Amico si rialza; e comincia fra i due un lavoro di «demolizione» (il testo dice proprio cosí: ὄλεκον). Ma, mentre i colpi del colosso riescono irregolari o inefficaci, quelli di Polluce arrivano tutti al viso, e riducono il bruto a mal partito.

Ed eccoci all’ultimo round. Come sempre accade, il campione soccombente tenta un colpo disperato. Con una duplice irregolarità, afferra la mano di Polluce, e gli vibra un «colpo basso», sotto le costole, nella parte indifesa del torace. Ma Polluce si libera con un nuovo scarto, e, raccogliendo anch’esso tutte le sue forze, gli vibra una serie di terribili colpi sul volto. E qui Teocrito aggiunge un particolare tecnico, dicendoci che insisté sul colpo con la spalla. Si oda che cosa dice un manuale di boxe recentissimo1: «La forza deve essere fornita esclusivamente dallo slancio della spalla, aiutata da quello della gamba destra, poiché [p. 262 modifica]l’efficacia del colpo dipende dallo scatto simultaneo della gamba e del braccio».

E questa volta, Amico è proprio messo knock-out, e non gli rimane che chieder grazia.

In onore di Castore è poi cantata la sua lotta con Ida. Il mito è troppo noto perché occorra ripeterlo. È qui narrato secondo una versione differente dalla pindarica; e il racconto è pieno di vivacità e di colore, sebbene non possa reggere il confronto con quello del poeta di Tebe. In sede lirico-epica, due tocchi di questo Titano valgono tutte le squisitezze dei poeti alessandrini. Ecco, in Pindaro, la morte di Ida e Linceo:

Giove dall’Ida scagliò la fiamma ed il fumo del folgore;
e derelitti i due corpi quivi arser. Ben ardua cosa,
per l’uomo, lottar coi piú forti.

L’invocazione ai Dioscuri, che apre l’idillio con la pittura della tempesta, è bella ed efficace. Non mi pare improbabile che Teocrito ne abbia tolta l’ispirazione dall’ode d’Alceo, di cui i papiri ci hanno, tempo fa, restituito qualche frammento. Ed anche qui conviene osservare che una strofe d’Alceo compera tutta la pittura di Teocrito.

Ché su la cima delle salde navi,
fulgidi intorno agli alberi balzate,
e luce, ne la notte orrida, al negro
legno recate.

Impareggiabile rimane invece Teocrito in altre due pitture. In quella del paesaggio, non inferiore a nessuna di quante abbiamo finora ammirate negli idilli; e in quella di Amico; che è poi di carattere schiettamente alessandrino; perché non scolpita evidentemente da un dilettante, che abbia visto e ammirato corpi d’atleta; [p. 263 modifica]bensí da un tecnico, oppure da un appassionato frequentatore di studi di scultura, Arte un po’ di seconda mano, e sia pur nobilissima: e tendenza a varcare i confini della propria arie, per assimilare i modi d’un’altra: segni entrambi di deciso alessandrinismo.

Ad ogni modo, i pregi di questo idillio sono tali e tanti, che credo proprio ingiustificato qualsiasi dubbio su la paternità teocritea.

Note

  1. A. Cougnet: Il libro della boxe - Milano, Hoepli.