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IDILLIO XXII 157

Ma da una parte e dall’altra il figlio di Giove lo incalza,
lo batte a colpi alterni con ambe le pugna, e trattiene
per grande che la forza ne sia, di Posídone il figlio.
E si fermò, briaco di colpi, ed il livido sangue
sputò. Levaron tutti quei prodi alte grida di gioia,
come le sconce piaghe mirar su le guance e la bocca:
tanto era gonfio il viso, che gli occhi sembravan piccini.
E, finti colpi, poi, d’ogni parte lanciando, Polluce
lo sconcertò; poi, quando lo vide smarrito, di sopra
il pugno spinse, sotto le ciglia, nel mezzo del naso,
e tutta gli scoprí, sino all’osso, la fronte. Percosso
quegli piombò, disteso supino tra l’erbe fiorenti.
E ancor s’alzò, di nuovo la zuffa avvampò furïosa,
e con i duri cesti, l’un l’altro batteva, struggeva.
Ma sopra il petto e i lombi lanciava dei Bèbrici il sire
le pugna, e sopra il collo; ma invece, di sconce percosse
lui strazïava sempre sul viso l’invitto Pollúce.
E s’afflosciarono a quello, sudando, le carni; e, da grande,
fatto pareva piccino; ma quanto cresceva il travaglio,
tanto parean piú massicce le membra dell’altro, e rubeste.

Or, come vinse il figlio di Giove il vorace gigante?
Dea che lo sai, tu dillo: agli altri io dirò ciò che appresi,
o Dea, da te, per quanto tu voglia, per quanto ti piace.

Àmico, dunque, ardendo di compiere qualche gran fatto,
con la sinistra afferrò di Polluce la mano sinistra,
obliquamente il corpo piegando nel lancio; e da destra
gli spinse, verso il cavo del fianco, il suo pugno massiccio.
E, se colpito l’avesse, finito era il re degli Amícli;
ma sguisciò sotto; e il capo ferí del gigante col pugno,
sotto la tempia sinistra, gravando la spalla sul colpo:
livido il sangue tosto sgorgò dalla tempia squarciata.