I rossi e i neri/Primo volume/XXIX
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XXIX.
Nel quale si comincia a conoscere che uomo fosse il marchese Antoniotto
Uno dei personaggi più importanti della nostra storia, sebbene altro non abbia fatto ancora che una breve comparsa in queste pagine, è senza dubbio il marchese Antoniotto Torre-Vivaldi.
Intanto che i suoi convitati ballano, cenano, passeggiano e dicono che le sue feste sono le più belle e le più suntuose di Genova, intanto che i forestieri, ammessi in grazia dei loro titoli in casa Vivaldi, si fanno un ottimo concetto, se non al tutto vero, dell’umor socievole delle grandi famiglie genovesi, teniamo un po’ d’occhio il padrone.
Quando egli ebbe fatto tutto quello sfoggio di cortesie, che i lettori sanno, con Aloise di Montalto, e ricambiate alcune parole colle persone più ragguardevoli dei due sessi, il marchese Antoniotto chetamente disparve. Ma noi che abbiamo in mano il filo di quel labirinto, gli terremo dietro, e se il lettore vorrà lasciare in pace per un tratto la bella Ginevra, la bianca Maddalena, Aloise, e tutti i suoi simpatici personaggi, non avrà a pentirsi d’essere venuto con noi.
Il marchese Antoniotto, coll’aria sbadata di chi va a zonzo, ora conversando con questi ed ora con quelli, giunse fino al pensatoio della sua signora, che era in quel momento deserto. L’uscio che metteva nella stanze di Ginevra era chiuso: ma il marchese Antoniotto non se ne diede pensiero.
Andando ad un’altra parete, premè col pollice un nascosto congegno, e una porticina che era dissimulata dai fregi continuati della tappezzeria, si aperse per dargli il passo nello spogliatoio della marchesa, e di là fino al suo quartierino particolare. Colà giunto, salì il piano di sopra, dov’erano le camere dei servi.
Ma lassù non era anche finito il viaggio del marchese Antoniotto, il quale, infilata un’altra scala più stretta della prima, salì fino ad un pianerottolo cieco, dov’era agevole immaginare che un tramezzo vietasse di andare più oltre. Egli, nondimeno, a cui l’oscurità non faceva impedimento, trovò il catenaccio di una porta ferrata, e lo fece scorrere sugli anelli; quindi bussò due o tre volte con le nocche delle dita.
Un rumore di passi si udì poco dopo dall’altro lato dell’uscio; un altro catenaccio scorse sugli anelli, e l’uscio si aperse. Era il padre Bonaventura in persona, che si faceva ad accogliere il suo ospite.
I lettori non avranno certamente dimenticato che, per essere più vicino al padre Bonaventura, il marchese Antoniotto lo aveva allogato in un comodo quartierino, all’ultimo piano del suo palazzo; e vedono ora che per maggior comodità di ambedue, era stato rispettato l’uscio di comunicazione, sebbene raffermato da una parte e dall’altra con due catenacci. Di questa guisa, ognuno se ne stava tranquillo in casa sua, mentre riusciva agevole ai due amici il vedersi e lo stare a colloquio, senz’altra molestia che quella di rimuovere que’ due impedimenti.
I sullodati lettori vorranno adesso sapere il perchè di tanta intrinsichezza, e noi vediamo giunta l’occasione di dirlo. Era un’intrinsichezza fondata sulla comunanza dei propositi, e sul profitto che ognuno dei due cavava dall’autorità e dall’aiuto dell’altro.
È noto per che modo il marchese Antoniotto Della Torre fosse venuto a nozze con la bella marchesa Vivaldi. La giovinetta, rimasta orfana in piccola età, sotto la tutela di un suo parente materno, era uscita dal monastero del Sacro Cuore di Parigi, per diventar moglie del marchese Antoniotto. La Ginevra, unico avanzo dei Vivaldi del ramo di Valcalda, portava, insieme con un bel nome ed una stupenda bellezza, dieci milioni di patrimonio, e l’accorto tutore, tra le molte famiglie che lo chiedevano di quel parentado, aveva prescelto i Della Torre. Antoniotto era uno dei più operosi e dei più benemeriti caporioni del partito clericale; era ricco egli pure, e per giunta uomo da non star sul tirato nella faccenda dei conti, uomo da contentarsi del capitale, senza lesinare troppo sui frutti; epperò, detto fatto, si stabilirono le nozze. Non c’era altro che una piccola difficoltà per mandarle ad effetto; che l’Antoniotto era un po’ consanguineo della Ginevra; ma quella provvidenza della Curia di Roma non istette molto a venire in aiuto con una brava dispensa, e il Della Torre diventò facilmente il Torre-Vivaldi, a maggior gloria di Dio, o, per dire più esattamente, della setta gesuitica.
Era egli mai stato giovane, il marchese Antoniotto? Quei generosi concetti, que’ baldi rapimenti, che provano il bollore del sangue e il rigoglio della gioventù, non avevano mai persuasa la mente di quell’asciutto gentiluomo? Certo, a voler stare sui generali appare difficile e quasi impossibile che un uomo, poniamo anche il più freddo del mondo, non abbia percorso le sue fasi di ardore e di tiepidezza. Il medesimo Napoleone, che fu tipo straordinario della moderna tirannide, e a cui non mancò altro che il sangue regio per essere salutato gran mastro della reazione europea, ne’ suoi primi anni era stato un poeta, un sognatore, un rivoluzionario; insomma, era stato giovine.
Non così il marchese Antoniotto. Egli era nato vecchio, e tutti i suoi coetanei rammentavano di averlo sempre veduto lo stesso, fin da quando proseguiva lo studio delle leggi nella Università genovese. Già da quel tempo appariva contegnoso e severo, chiuso dell’animo, e nimico d’ogni cosa che sapesse di novità; di guisa che, tra per l’autorità del nome, e per l’inflessibilità de’ propositi, facilmente capitanava quella generazione di vecchi bimbi, detti allora i giovani sodi, che facevano contrapposto a quella coorte di giovani ingegni, forse soverchiamente innamorati delle teoriche forestiere, ma vogliosi di cose nuove, devoti al culto della patria e della libertà, i quali prendevano indirizzo dal loro condiscepolo Giuseppe Mazzini.
Il marchese Della Torre si vantava d’essere classico in letteratura, e condannava con Vincenzo Monti l’audace scuola boreale; ma nel fatto non poteva patire i poeti di nessuna scuola. Il suo classicismo non era altro che un arnese di guerra, nel campo della politica; e ciò trapelava anche dalla compiacenza con cui il giovine sodo si faceva a notare come i signori liberali, gli scapigliati, offendessero la purezza della lingua e delle tradizioni letterarie, non meno che della filosofia italiana.
Egli poi s’era chiuso nello studio delle cose economiche e di tutti i rami dell’arte di governo; si andava armando di tutto punto per comandare altrui, quando l’occasione gli si fosse offerta. Càrdini della sua politica erano i libri Du Pape e Les soirées de Saint-Petersbourg, che Giuseppe De Maistre, il gran propugnatore della teocrazia e della autocrazia, il panegirista del carnefice, aveva gettati come una protesta e una minaccia del passato moribondo, contro la rivoluzione rinnovatrice. L’umor severo, la ricchezza e la nobiltà dei natali avevano posto in rilievo questo discepolo dei Gesuiti, che avrebbe potuto giunger davvero al governo della cosa pubblica, se l’apostolato continuo e gagliardo1 del suo avversario coetaneo, conducendo dal martirio al trionfo il concetto dell’unità italiana, non avesse spinto il Piemonte ad afferrar la bandiera tricolore, e guasti i disegni, sgominate le fila della reazione.
In que’ tempi che tutti gli animi cominciavano a risvegliarsi e si preparavano alle prime battaglie, il marchese Antoniotto si era posto deliberatamente a capo dei nemici d’ogni novità. Però era stato dei primi a biasimare i grilli liberaleschi di Pio IX, e ora struggendosi per le vittorie dei rivoluzionari, ora rallegrandosi delle loro sconfitte, era giunto finalmente a vedere il trionfo della sua causa. Allora corse giubilante ad ossequiare al Vaticano quel pontefice che dapprima lo aveva fatto tanto tremare; allora accettò d’essere nominato senatore da quel governo a cui aveva augurate le busse austriache per farlo rinsavire.
Certo, restava ancor molto a fare, innanzi di mettere a segno i rompicolli; nella cenere covavano ancora di molte faville; il governo non faceva prova di bastevole energia contro i ribelli, e peggio ancora, ne’ suoi diportamenti verso i degni ministri della chiesa, non si mostrava troppo tenero della santa causa. Ma a questo avrebbe portato rimedio il tempo; le ire sarebbero sbollite; uomini di buona tempera andando man mano in alto, avrebbero rimutato l’indirizzo della cosa pubblica. Intanto le file del partito si ristringessero, non perdonando a fatiche, non dispregiando nessun argomento, anco il più modesto e lontano dallo intento comune, che desse modo di operare. Si facessero vivi, insomma, e sapessero usare di una certa larghezza d’animo, per raccattare que’ fuorviati della parte loro, capi scarichi i quali s’erano un bel giorno scaldati per le riforme e per la indipendenza italiana, e dopo aver scritto inni a Carlo Alberto, arringato il popolo plaudente e messo un tratto il berretto frigio sulla parrucca incipriata, s’erano spauriti del loro ardimento, doluti delle loro pazzie, a guisa di chi si svegli in quaresima, e si vergogni della baldoria fatta in carnevale. Queste pecore matte erano in buon numero, e ogni giorno facevano un passo verso l’ovile. Bisognava non disprezzarle, accoglierle anzi a braccia aperte, non tanto per il pregio delle persone, ch’era nulla, quanto per la opportunità dell’esempio.
Erano questi i consigli del marchese Antoniotto, e ognuno intende di leggieri che fossero ascoltati, sebbene taluni più irosi e più ostinati tra’ suoi colleghi non avessero voluto dapprima acconciarsi alle sue ragioni sottili. Nè questo era il solo lato per cui il Della Torre si mostrava accortamente più largo degli altri suoi pari.
Figlio ad uno di que’ parrucconi della oligarchia del Consiglietto, egli aveva dovuto da principio partecipare un tal poco a quella dispettosa opposizione, non già d’opere, ma di parole, che il patriziato di Genova faceva al governo piemontese, al quale la sua città, il teatro delle sue pompe senatorie, era stata regalata dal Congresso di Vienna. Ma il marchese Antoniotto non era uomo da inutili rancori. Ricco di ambizione e di volontà, sentiva che i suoi milioni e la sua corona di marchese erano due armi potentissime a farlo giungere in alto, e che dovevano restarsi inoperose, pel magro diletto di fare il broncio al re di Sardegna, il quale po’ poi era in quella parte della penisola il rappresentante della teocrazia di Roma e della autocrazia di Germania, il gran vassallo del papa e dell’imperatore, que’ due càrdini della società, quelle due dighe opposte dalla Provvidenza ai malvagi disegni della rivoluzione.
In cotesto adunque egli era già più innanzi di molti altri; ma saldo com’era ne’ suoi propositi, non correva neppure alla cieca, non si lasciava accalappiare dalle lusinghe del governo, i cui atti, diceva egli, non davano ancora quella sicurtà che potesse persuadere un gentiluomo a prestargli l’opera sua. Voleva insomma che il suo partito soverchiasse; e in quella stessa guisa che nel suo partito gli pareva di non dover essere secondo a nessuno, così non poteva immaginar possibile un governo apertamente reazionario, senza esserne a capo egli stesso.
Ed era proprio un uomo fatto per comandare altrui, il marchese Della Torre. Il nome, le ricchezze, le aderenze, l’ingegno, erano un nulla al raffronto del carattere, di solito asciutto e severo, ma che sapeva convenevolmente piegarsi, assumere quella grazia di modi che venuta dall’alto è sempre una lusinga pericolosa per chi sta in basso, e signoreggia di sovente gli animi più generosi.
Larghe testimonianze del suo ingegno sempre volto al comando, offriva il vasto podere di Quinto, dove egli passava i sei mesi caldi dell’anno, e dove ogni cosa procedeva ordinatamente giusta il suo concetto. Colà il marchese Antoniotto aveva tentato con frutto parecchi esperimenti di riforme agrarie, nella quale materia era versatissimo, di guisa che, alla più trista, egli avrebbe potuto riuscire al governo della cosa pubblica per la scorciatoia di un portafoglio di agricoltura e commercio. Ognuno ricorda che parecchi degli odierni uomini di Stato entrarono per questa viottola nei consigli della Corona.
Nelle letterarie discipline era valente del pari, sebbene dispettasse i poeti. Conosceva il latino e lo scriveva con quella eleganza che potevano ai suoi tempi insegnare i Gesuiti o gli Scolopii. Un suo volgarizzamento di Sallustio aveva fatto andare in brodo di succiole Tommaso Vallauri, e il teologo Margotti non aveva potuto beccarvi per entro nessun farfallone; della qual cosa aveva fatto un gran parlare sull’Armonia. Un suo trattatello Degli elementi dell’arte di governo lo aveva fatto salir in gran rinomanza presso i parrucconi di tutta Italia, e i legittimisti di Francia citavano «le marquis Torre Vivaldi» come uno «des hommes politiques les plus éminents de son temps, qui réunissait un esprit éclairé à un sentiment profond des droits du pouvoir légitime, en dehors duquel il n’y a point de garantie pour la vraie liberté et pour la civilisation du monde».
Tutti costoro, poi, quando per alcun loro negozio avessero a passar da Genova, erano gli ospiti del marchese Antoniotto, il quale, nelle lusinghe di una splendida accoglienza diventava due volte più ragguardevole al cospetto dei forestieri, e, non si muovendo da Genova, otteneva facilmente una fama europea.
Ma torniamo alla villa di Quinto. Colà Ginevra dagli occhi verdi accoglieva il fiore della civil compagnia, e colle grazie della sua persona e del suo conversare aiutava inconsapevolmente e mirabilmente ai disegni ambiziosi del marito. Intorno alla vezzosa gentildonna spirava come un’aura di medio evo, nella sua parte più bella, che allettava i più schivi. Si radunavano colà i discendenti di quelle grandi famiglie che avevano operato tante cose cinquecento anni innanzi; e all’udir conversare di belle imprese, o recitar versi, al veder corti d’amore, giostre di schermidori, corse di bei palafreni, gite sul mare ed altri simili passatempi, al sentirsi ad ogni tratto ferir l’orecchio da que’ nomi che avevano risuonato in Soria, alla Meloria, a Curzola, chi non avrebbe creduto ad un miracolo, il quale, sconvolgendo gli ordini del tempo, l’avesse ricondotto parecchi secoli indietro?
Gli uomini, veramente, apparivano vestiti secondo le brutte fogge dei nostri tempi. Non si potevano notare nè le calze divisate, nè il farsetto, nè la cappa, nè il lucco, nè la berretta di velluto; ma chi avrebbe badato più che tanto al vestimento degli uomini, pur sempre ingentilito dalle fogge campestri, dov’era una dama come Ginevra? Costei era bella come una di quelle superbe castellane che talvolta, a vederle dipinte, ci fanno desiderare di esser vissuti a’ tempi loro, anco a patto d’esser morti e sepolti da secoli e secoli. Si consideri inoltre che il vestir delle donne non è stato mutato così da non consentir l’illusione, e che la marchesa Ginevra non la guastava davvero con le rigonfiature soverchie, essa che, alta della persona e fatta a pennello, poteva romper guerra al crinolino e meritarne lode dagli intendenti.
Riviveva adunque il medio evo, intorno alla bella Ginevra. Il marchese Antoniotto, poi, da vero marito della castellana, faceva in ogni cosa il suo talento, esercitando, stiamo per dire, alta e bassa giustizia nelle sue terre. E basti questo fatto ad esempio. Egli aveva fatto chiudere in una camera sotterranea del suo palazzo un servo, figlio di uno dei suoi fittaiuoli, perchè esso gli aveva data una mala risposta, e in quella camera umida e buia lo aveva fatto rimanere quattro dì, senz’altro cibo che pane e acqua.
Come? griderà il lettore stupefatto. Questo egli ardiva di fare, a mezzo il secolo decimonono, sotto un reggimento di libertà? Sicuro, lo aveva osato, e non se n’era neanche pentito, poichè gli pareva la cosa più naturale del mondo. Nè il povero servo si era lagnato di quell’arbitrio padronale; e si fosse anco lagnato, chi gli avrebbe dato ascolto? Le leggi sono state molto acconciamente paragonate alle ragnatele, nelle quali le mosche incappano, ma che i mosconi strappano colle ali, passando pel rotto. E poi non vi sono esempi d’altri gran signori, che hanno fatto anche peggio?
Il povero Menico (che così si chiamava il servitore malcapitato) non aveva a lagnarsi molto della prigione, se altrove ad altri era toccato un carico di busse che li avea fatti andare allo spedale, o un colpo di pistola che li aveva freddati. Il marchese Antoniotto non era manesco; pregiava abbastanza le sue mani, da non insudiciarle sul viso o sul groppone della bordaglia, e si contentava di mettere in prigione.
Quella sua prepotenza del resto gli era passata liscia. Il marchese Antoniotto era padrone del paese, a cui recava tanto profitto colla sua villa, colla gente che vi attirava di continuo, colle limosine, coi donativi ond’era liberalissimo alla chiesa, al comune, e simili. I pochi che giunsero a risaperlo, non ne rifiatarono, e per certuni della sua pasta egli ebbe anzi fama d’uomo che voleva e sapeva farsi rispettare in casa sua, come fuori. Solo i giovani come il Pietrasanta e il Cigàla notarono che quello era un brutto arbitrio; ma essi per fermo non potevano farsi vendicatori della libertà offesa, e si contentarono di appioppare al marchese Antoniotto il soprannome di tiranno di Quinto.
In casa, tuttavia, quell’atto da medio evo non era stato compiuto senza un po’ di contrasto. La marchesa chiedendo grazia pel Menico, era giunta perfino a rammentare che la terra di Quinto era patrimonio dei Vivaldi, da lei portato al marito. Ma egli tenne fermo; rispose alla signora che un esempio era necessario, che la bordaglia bisognava farla stare a segno, e cento altre cose di quella fatta, dette con aria di molta deferenza alle preghiere di lei, ma che pure mostravano com’egli non volesse lasciarsi smuovere. Quando poi ne ebbe abbastanza, fece restituire il Menico in libertà, ma a patto andasse a ringraziar la marchesa, che aveva intercesso per lui.
E il pover uomo andò; rese grazie con le lagrime agli occhi; e il marchese Antoniotto, che era stato a vedere, gli disse con piglio amorevole:
- Andate, Menico, e non vi avvenga più mai di alzare la voce. Per quest’oggi intanto la marchesa vi concede di andarvene dai vostri parenti, ai quali ella v’incarica di dire che condona loro la pigione di quest’anno. -
Si trattava di un migliaio di lire e qualcos’altro; ma il marchese Antoniotto era largo signore, come tutti i despoti, e dopo averle negata la grazia di Menico, amava usare quella galanteria alla castellana di Quinto. Galanteria tanto più fine, in quanto che il perdono e il regalo erano concessi per modo che paressero venuti da lei.
Lasciamo argomentare a voi se il Menico fosse contento, e se corresse di buone gambe a, casa per annunziare quella benedizione. Gli parve anzi che il castigo fosse stato troppo lieve, e segnatamente meritato; laonde egli fu più ligio ai Torre-Vivaldi, più obbediente che mai. Natura umana!
Il marchese Antoniotto aveva inteso per bene che profittevole alleanza fosse per lui quella del padre Bonaventura. Era costui l’anima del partito; per domare tutte le ambizioni, per contentare tutte le vanità, per vincere tutte le riluttanze, per chetare tutte le diffidenze, non c’era spediente migliore di quello. Il gesuita sfratato, che curava in Genova le faccende della Compagnia, gli guarentiva l’aiuto di quel potente sodalizio; il gran capitano della reazione in Genova lavorava a pro’ della sua ambizione, proprio come un generale a pro’ di un re, o di un pretendente in esilio.
Ma se il padre Bonaventura rendeva di passata questo servizio al marchese Torre-Vivaldi, a ben più alto segno mirava l’opera sua. L’Antoniotto non era per lui che un ottimo strumento, un magnifico arnese di guerra, a cui molto volentieri concedeva la parte più bella del suo sistema. La frase costituzionale del re che regna e non governa, significava a puntino quello che il marchese Antoniotto doveva essere nei disegni del padre Bonaventura. Il quale teneva tutte le fila del governo in sua mano, nobili e ignobili, dorate e sozze. A quella mano facevano capo i tristi, i vanitosi, e gli stolti di tutte le classi sociali; usurai che volevano arricchire; ladri e furfanti che non volevano andare a marcire in prigione; avvocati senza clienti, medici senza ammalati, maestri senza discepoli, che volevano annaspare qualcosa; giovani che andavano a caccia di grasse doti e d’illustri parentadi; uomini da nulla che volevano parere d’assai; cervelli di gatto che s’industriavano a parer di leone; già s’intende, per averne la parte proverbiale nella spartizione delle prede.
Broglioni d’ogni fatta e d’ogni misura, lombrichi viventi nel limo, scorpioni allogati nelle sfaldature dei vecchi palazzi, Archimedi del malanno a cui non mancava altro che il braccio di leva per muovere e inabissare la loro parte di mondo, tutti, qual più, qual meno, per un verso o per l’altro, avevano bisogno del padre Bonaventura. Gli uni celati, gli altri palesi, secondo quel tanto di oneste apparenze che avevano i loro raggiri, davano mano all’opera del gesuita, e il lettore già ne conosce parecchi, contando dall’umile Garasso fino all’eccelso Torre-Vivaldi.
Abbiamo lasciato quest’ultimo sull’uscio, la qual cosa non parrà segno di cortesia. Ma si chetino i lettori cerimoniosi; il padre Bonaventura gli ha fatto accoglienze convenevoli, e non ha aspettato noi per farlo entrare nel suo studio.
- Signor marchese, è davvero un sommo onore per me, ch’Ella abbia lasciato la sua splendida festa per venirmi a visitare.
- Eh via, padre Bonaventura! Lasci la modestia in un angolo, come io ho lasciato le noie della mia festa sull’uscio. I miei convitati si dànno bel tempo, com’Ella ode di qui. Che farci? anche queste cose ci vogliono.
- Sì, certo, signor marchese. Gli uomini come Lei, che sono rari pur troppo, debbono serbare il decoro del loro illustre casato, e non disavvezzare la gente da quelle larghezze che tengono vivo il culto delle grandi memorie. Ella sa il proverbio francese: noblesse oblige. Il volgo poi ha bisogno di queste pompe esterne, in quella che gli uomini colti hanno in gran pregio il suo ingegno e la fortezza dell’animo.
- E che faceva Ella, mio ottimo padre? - chiese il Torre-Vivaldi, dopo essersi inchinato per ringraziarlo di quella incensata.
- Io? Me ne stavo là sul terrazzo ad ascoltare quella buona musica che si suona in casa sua, e non pensavo certamente ch’Ella fosse per venire quassù a rallegrare la mia solitudine.
- Gli amici come lei, padre Bonaventura, valgono assai più di tutte le feste del mondo, senza mettere in conto che queste non mi fanno nè caldo nè freddo. E che cosa abbiamo di nuovo?
- Nelle cose nostre nulla che Ella non sappia, signor marchese. Ah, mi dimenticavo.... Ho ricevuto lettere del visconte di Roche Huart, il quale m’incarica di salutarla tanto e poi tanto.
- Grazie, e che cosa fa quell’ottimo visconte?
- Non si è mosso da Parigi. Egli si lagna della gotta, che incomincia a dargli molestia.
- Pover’uomo! In così fresca età!... E da Torino non ha avuto notizie?
- Sì, ma di nessun rilievo. Ella saprà meglio di me che domani in Senato avrà fine la discussione sulla libertà dell’interesse.
- Dica in cambio della libertà dell’usura. A me è doluto grandemente che questa festa di consuetudine in casa mia mi vietasse di andare in Senato, dove avrei pur voluto correre una lancia contro quest’altra invenzione del mugnaio di Collegno. -
Il mugnaio di Collegno, come tutti rammentano, era il conte Camillo Cavour. A quel tempo l’audace ministro torinese non aveva anche operato nulla che gli amicasse la parte liberale; ma i partigiani del regresso aveva già fiutato l’uomo che si scioglieva dai loro abbracciamenti per correre al lato opposto e mettersi come addentellato tra la rivoluzione italiana e la monarchia piemontese.
Però incominciavano a dirne roba da chiodi, e facevano lor pro’ di tutti i più satirici soprannomi che la sospettosa vigilanza dei democratici gli andava di giorno in giorno appioppando, secondo l’opportunità degli assalti.
- C’è ben altro da fare, - rispose il padre Bonaventura, - che andare al Senato per tenere un discorso contro la libertà dell’usura. L’indirizzo dei nostri è buono, ma non mi sembra che sia proseguito molto efficacemente finora.
- Ella ha ragione pur troppo, padre Bonaventura. In verità, io non intendo tutte queste lentezze. Il tornaconto della monarchia è di ripulire i gradini del trono da tanti grami senatori che la tradiscono, che ne accarezzano le ambizioni per condurla a mal partito. Non vi sarà mai pace nè sicurezza per lo Stato, fino a tanto che tutti questi arruffoni di emigrati ci stanno a loro bell’agio; e quel cencio di bandiera tolta ad imprestito dalle società segrete....
- Che vuole, signor marchese? - interruppe ghignando il gesuita. - Dicono che sia necessaria come uno sfiatatoio.
- Oh, se ne avvedranno, - gridò il marchese Antoniotto, mettendo fuori le sue frasi dogmatiche, - se ne avvedranno! L’eccletismo dà così gramo frutto in politica, come nelle discipline filosofiche. Non pare a Lei?
- Lo dico io pure, signor marchese, e il mal frutto non vuol farsi aspettar molto. Esso intanto matura qui in Genova....
- Come? Che altro malanno c’è in aria?
- La congiura.... Non sa?
- La congiura! Siamo già a questo segno? Ed Ella mi diceva poc’anzi che non c’era nulla di nuovo....
- Mi pareva di averle già toccato....
- Sì, me ne ricordo, ma in aria, e senza scendere a particolari. Ma davvero si vuol venire ai ferri corti?
- Sicuro, e so ancora quando pensano di smascherare le batterie. Volevano far subito, nel qual caso ci avrebbero còlti alla sprovveduta, o quasi; ma poi ha prevalso il consiglio di pigliar tempo. Insomma, l’ha da scoppiare verso gli ultimi giorni di giugno.
- Ma stiamo per entrarci, nel mese di giugno! - esclamò turbato il marchese Antoniotto. - E il governo che fa?
- Non sa nulla.
- Possibile?
- Certo! Costoro hanno lavorato di fine, e il governo è ancora al buio di tutto.
- Ed Ella.... come ha potuto?...
- Io? Ella non ignora, signor marchese, che il padre Bonaventura dorme poco, e quando dorme non chiude mai tutti e due gli occhi.
- È verissimo, e bisogna darlene lode; ma per iscoprire tutto ciò che Ella mi dice, il vigilare non basta. Ella, sicuramente, non è stata nei conciliaboli della setta mazziniana....
- No, certo; ma altri c’era per me, il quale sa tutto a menadito, e viene a darmene ragguaglio.
- Davvero? Ella è un uomo prezioso, padre Bonaventura.
- Eh, fo quel che posso. Ma torniamo ai nostri polli. Costoro hanno lavorato alla cheta; hanno tirato armi in quantità dentro le mura; si sono ordinati a drappelli, con incarichi particolari: preparano una spedizione sul Napoletano e in Toscana....
- E la Questura?
- E la Questura non sa nulla, proprio nulla.
- Bisogna avvertirla subito.
- Sì, - rispose il padre Bonaventura col suo risolino consueto, - perchè si faccia bella della scoperta e guasti le uova nel paniere! Io, con sua licenza, signor marchese, non penso che s’abbia a far ciò.
- Che altro, dunque?
- Tal cosa che salvi la società dai criminosi disegni dei rivoluzionarii, e torni nel medesimo tempo profittevole alla parte nostra. Però m’è venuto in mente di mandar la nuova al governo di Francia, il quale già comanda a Torino come in casa sua. L’imperatore sarà grato ai cattolici dell’avvertimento che essi gli dànno, e il governo di Torino, avvertito da Parigi delle congiure che si tramano sotto i suoi occhi, si chiarirà ancora una volta impotente a frenare i rivoltosi, poichè non si mette nelle nostre mani. Ella ha detto una profonda verità, signor marchese, dando a questo governo il nome di eccletico. Ora crede Ella che il suo eccletismo possa durare più a lungo, dopo che vengano in chiaro questi maneggi dei mazziniani? L’Europa minacciata da queste macchinazioni continue, chiederà a questo governo una miglior guarentigia pel futuro, ed esso non potrà darla se non mutando il registro. Allora, signor marchese, verrà il nostro giorno, o, per ragionare più dirittamente, verrà il suo; perocchè Ella non è uomo da tenersi in disparte, dove occorra una mano di ferro al timone dello Stato. -
L’incensata, questa volta, giungeva troppo diritta; ma non era altrimenti sgradita. Certuni pensano che debba riuscire molesto ad un valentuomo il vedersi rompere quasi il turibolo sul naso; ma costoro, a nostro credere, non pongono mente che l’incenso è sempre incenso, comunque si dimeni il turibolo, e che non v’ha uomo così ottuso di nari che non senta nel fumo il profumo.
Qui poi non era il caso di un incensatore da dozzina. Però il marchese Antoniotto si pigliò quelle cortesi parole come roba sua, e tirò innanzi.
- Ma, di grazia, su che gente fanno assegnamento costoro?
- Oh, non è la gente che manchi; ce ne hanno d’ogni risma. Ella incominci a metter nel conto tutti gli emigrati.
- Maledetti emigrati! - esclamò il marchese Antoniotto. - E il governo vuol sempre tenersi in casa tutti quegli avanzi di galera! E poi?...
- E poi gli artigiani di Genova.
- Ah, anche costoro?
- Sì, certo, e sono il grosso dell’esercito. Ella non ignora, signor marchese, che tutta questa bordaglia è salita sul trèspolo, come se il mondo fosse fatto per loro. Hanno inventato una nuova maniera di blasone, colle squadre, i compassi, le mani strette, il berretto frigio, e la nuova impresa della eguaglianza e d’altre simili parole che accennano a socialismo pretto. È il diritto di associazione, che ha portato questi bei frutti! Ora il tumulto che stanno maturando, mira a mandar sossopra ogni cosa.
- Vogliono dunque regalarci un altro Novantatrè?
- Per l’appunto. Io so che nelle loro conventicole si va dicendo che il popolo ha diritto a goder la sua parte come i signori; che ne’ passati rivolgimenti non s’è dato unto che bastasse alle macchine, e che s’ha da rinnovare anche ora, in casa nostra, la mareggiata di sangue.
- È il solito ragionamento dei rivoltosi. Ma qui ci bisognerà pigliare provvedimenti solleciti....
- Non tema, signor marchese. Veglia Bonaventura, che li metterà tutti a segno. Ho gente fidata che li vigila, e taluno fra gli altri che ci ha le sue brave rivincite da prendere.
- Rivincite! E chi mai?
- Il dottor Collini. Quello è un uomo che si metterà all’opera colle mani e coi piedi. -
All’udir quel nome, il marchese Antoniotto fece un tal verso colle labbra che voleva dire: non mi parlate di costui.
- Ella non vede di buon occhio il Collini? - chiese il padre Bonaventura, che si era avveduto dell’atto.
- Io no, lo confesso schiettamente; - rispose il Torre-Vivaldi. - Sarà un mio dirizzone, un pregiudizio, e quanto Ella vorrà di peggio; ma, tant’è, io non posso mandarlo giù. I miei maggiori furono gentiluomini e prodi soldati, che non temettero di offendere la fede dei loro padri sguainando la spada per difendere l’onore, quando credettero che fosse in pericolo. -
E così dicendo il marchese Antoniotto, alla baldanza dello sguardo e dell’accento, mostrava chiaramente che un po’ di buon sangue lo aveva pure nelle vene.
- Nè io potrei darlene biasimo, - soggiunse il padre Bonaventura, la cui religione si piegava facilmente a tutti i rispetti umani, a tutte le debolezze, come a tutte le tirannidi; - ma che vuole? Chiedere forse la prodezza dell’animo a chi non l’ha ereditata col sangue? Il Collini non è un leone; ma per contro è accorto, operoso e fedele....
- Sì, perchè si strugge d’ambizione; perchè vuole arricchire a ogni costo.
- Questo poi è verissimo; ma noi dobbiamo pigliare gli uomini come sono, e contentarcene, purchè giovino all’intento comune.
- Ma non stimarli punto! - interruppe il gentiluomo. - Ed ora mi dica su chi ha da pigliarsi la sua rivincita costui.
- O come, non l’ha indovinato? Sul giovine Salvani, quel tale che è sceso a combattere invece del Collini col marchese di Montalto. Costui è uno dei capi, come in altri tempi suo padre. Già, chi di gallina nasce convien che razzoli.
- Ah, ah, capisco; - disse con piglio ironico il marchese Antoniotto. - Il dottor Collini non può menargli buono di essersi mostrato più animoso di lui. Benissimo. Queste cose del resto non mi riguardano punto; ognuno la pensa a suo modo, e noi finalmente caviamo il bene dal male.
- È una gran massima, signor marchese! Ma, a proposito del Montalto, lo ha veduto Ella?
- L’ho veduto; egli è in casa mia, mentre parliamo. Un giovine garbato, in fede mia, quantunque assai malinconico! Dalle poche parole che abbiamo barattate, mi è sembrato che debba avere molto ingegno ed altrettanta alterezza di mente.
- Lo credo; è di buona schiatta. Ed Ella, signor marchese, gli avrà fatto buon viso....
- L’ho accolto come il più ragguardevole de’ miei convitati.
- Benissimo! Questo giovanotto ci riuscirà di molto giovamento. Senza mettere in conto che i milioni del Vitali....
- Altro briccone! - esclamò il Torre-Vivaldi.
- Sì, Ella ha ragioni da vendere; altro briccone. Senza mettere in conto che i milioni di costui appartengono alla Compagnia di Gesù e, spinte o sponte, bisognerà che li snoccioli, il giovane Aloise sarà un buon acquisto per noi. Egli è animoso, colto e nobilmente ambizioso per giunta.
- Lo crede Ella?
- Lo so, e penso d’aver trovato il modo di stimolarlo.
- Quale?
- È un mio segreto, perdoni! - rispose, ridendo del suo noto risolino a fior di labbra, il gesuita. - E poi, il giovanotto è probo e magnanimo. Basterà narrargli il furto di suo nonno, perchè egli s’impegni a restituire il mal tolto.
- E le prove?
- Le prove? Le troverò; - rispose il padre Bonaventura con quello istesso piglio con cui avrebbe detto: le fabbricherò.
Ma il marchese Antoniotto non si avvide di quella sottigliezza. Quel negozio non lo risguardava punto, ed egli non poteva già indovinare che pensieri girassero in capo al gesuita.
- Sta bene; - diss’egli. - Io pure fo grande assegnamento sul Montalto. La nostra gioventù è un po’ fiacca e generalmente inetta. Si direbbe che questi vagheggini non siano neppure i nostri figli. Non hanno nerbo di volontà, sibbene arroganza inutile; non ambizione stimolatrice, ma vanità contenta di sè medesima. Soltanto quell’Aloise mi pare abbia ad essere uno del vecchio stampo, e tutto sta a tirarlo dei nostri, perchè diventi un ottimo arnese di guerra. Crede Ella, padre Bonaventura, che pieghi già da qualche altro lato?
- No, no, è impossibile! - rispose il gesuita. - Egli è libero d’ogni vincolo, e la sua alterezza lo ha tenuto discosto fino ad ora da ogni commercio di pensieri e di propositi con altri. Non so se le ho detto che egli si tiene grandemente del suo nome e della sua nobiltà. È questo il suo lato debole, ma fortunatamente è dalla parte nostra; noi soli possiamo cavarne profitto.
- È vero; lasci dunque fare a me. Il Montalto sarà con noi, ed io sono veramente superbo di tentare l’impresa. -
Bonaventura a queste parole del marchese Antoniotto non potè rattenere un sorriso. Ma i sorrisi del padre Bonaventura erano come i suoi pensamenti, e non uscivano fuori se non quando a lui paresse dicevole. È dunque da credere che quel sorriso di compiacimento, misto a un tal po’ d’ironia, non gli increspasse neanche le labbra. Quanto al marchese Antoniotto, egli non si addiede neppure di quest’altra parentesi mentale del suo degno collega.
- Ora, - proseguì il marchese, - per quanto risguarda la congiura....
- Sarà sventata a tempo, - disse il gesuita, - e per modo che torni profittevole ai nostri fini. Io del resto la terrò ragguagliata d’ogni cosa, a mano a mano che ne verrò in chiaro.
- Glie ne sarò grato, mio ottimo padre, e non dimenticherò mai di quanto utile alla buona causa torni l’opera sua avveduta e la sua dimora preziosa tra noi. Adesso, poi, ritorno ai miei ospiti, per lasciarla dormire; perchè, dopo una così lunga veglia. Ella avrà pur bisogno di riposo. -
Con queste ed altre parole di cerimonia, il marchese si accomiatò, accompagnato fino all’uscio di comunicazione dal padre Bonaventura, che tirò il catenaccio innanzi di tornarsene alle sue stanze.
Ma il gesuita non andò già a dormire, siccome il suo ospite credeva. Egli entrò nel suo studio, dove fece due o tre giri, stropicciandosi le mani in segno di molta soddisfazione; poi andò ad un armadio che era scavato nella parete; lo aperse e ne trasse fuori uno dei ventiquattro libroni che vi stavano entro disposti.
Erano le opere di Sant’Agostino: così diceva la scritta d’inchiostro nero sul dorso della cartapecora di cui erano coperti quegli smisurati volumi. Il padre Bonaventura recò il suo librone sullo scrittoio, e dopo averlo sfogliato un tratto per cercare la pagina, intinse la penna nel calamaio e al lume della sua lampada, si mise a scrivere.
Sulle opere di Sant’Agostino? Sicuro. Il volume era interfogliato; il che vuol dire, per coloro che non sono pratici del negozio, che tra i fogli stampati erano cuciti altrettanti fogli bianchi, siccome si usa in certi libri importanti, ad uso di scrivervi giunte, annotazioni, ed altre simili cose.
Che diamine scriveva egli, il padre Bonaventura, a quell’ora inoltrata della notte? Annotava forse le opere del gran vescovo di Ippona? No certo, e il lettore, anco se volessimo dargliela a bere, non la manderebbe giù, e ci vorrebbe un mal di morte della canzonatura.
Diciamogli dunque ogni cosa, per non tenere a bada chi è stato tanto cortese da seguirci fin qua. Ma anzitutto finiamo questo capitolo, che è ormai troppo lungo.
Note
- ↑ Nell’originale "gagiardo".