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Che diamine scriveva egli, il padre Bonaventura, a quell’ora inoltrata della notte? Annotava forse le opere del gran vescovo di Ippona? No certo, e il lettore, anco se volessimo dargliela a bere, non la manderebbe giù, e ci vorrebbe un mal di morte della canzonatura.

Diciamogli dunque ogni cosa, per non tenere a bada chi è stato tanto cortese da seguirci fin qua. Ma anzitutto finiamo questo capitolo, che è ormai troppo lungo.



XXX.

Della relazione che c’era tra le opere di Sant’Agostino e la "Società del Parafulmine"

Egli fu nell’anno di grazia 1834, che ebbe principio in Genova la Società del Parafulmine, fiorentissima società anonima, la quale, sebbene non avesse avuta la sanzione del governo, tirava innanzi senza paura, come il cavaliere Baiardo, ma non già senza macchia.

Che cos’era questa società, e a che razza di negozi s’applicava? Non era una società politica, quantunque fosse segreta; coloro che ci avevano mano non congiuravano contro alcuno dei poteri costituiti, e il signor Governatore non li teneva d’occhio. Non era una società di buontemponi, quantunque tutti amassero mangiar bene e ber meglio, e convenissero di sovente a geniale convito. Che diamine di società era dunque cotesta del Parafulmine? Una brutta società, veramente; diciamo anzi bruttissima.

Ecco in che modo essa ebbe principio, e nome, e tutto quello che bisogna per la fondazione di una società.

Una notte di carnevale, una brigata di giovanotti, usciti dalla veglia delle maschere, s’erano radunati a cena in una sala remota di una delle migliori trattorie che ci fossero allora tra porta Pila e porta San Tommaso. Scorreva il Bordò e lo Sciampagna, perchè i giovanotti erano ricchi e potevano spendere; ma non scorreva neppure un filo di vera gaiezza, perchè quei dodici (chè tanti erano colà convenuti) non avevano nessuna avventura galante da raccontare, ed erano, qual più, qual meno, tutti adirati colle signore donne, che non s’erano punto curate dei fatti loro.