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9. Esame particolare delle sculture dell’arco di Benevento: quadri minori

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9. Esame particolare delle sculture dell’arco di Benevento: quadri minori
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[p. 180 modifica]Quadro dell’incoronazione o vittoria Dacica nel mezzo del lacunare del fornice (fig. 1 intercalata nel testo).

Rossi intitola questo quadro Vittoria Dacica, per riferirlo al primo trionfo da Traiano riportato su i Daci; ma feci vedere che il quadro espresso nella tav. XVIII può ritenersi siccome la rappresentazione di quel primo trionfo. Poi non saprei trovare ragioni per giustificare all’artista la intenzione di porre in questo quadro, minore sì, ma pur tanto importante e in luogo così segnalato, unico, nel mezzo del lacunare del fornice, un fatto di minore interesse, quando ne avrebbe avuto uno più strepitoso, quello della seconda vittoria Dacica. Quindi opino che questo quadro, sia per le esposte ragioni che per essere stato il monumento dedicato dopo la seconda vittoria Dacica, esprima appunto questa vittoria e non la prima.

Stimo pure che non per vaghezza di composizione l’artista abbia ideato di metter questo quadro in tal posto, in cui nell’arco di Tito è raffigurata l’Apoteosi di quest’ultimo Imperatore, [p. 181 modifica]già Divo, in atto di esser portato al cielo da un’aquila; ma eziandio per esprimere che la Vittoria assegna a Traiano il meritato premio, quasi che costui, vittorioso ritornando dall’oriente e circondato da carri carchi di spoglie opime, fosse nell’atto di passare sotto quest’arco di trionfo e vi ricevesse il premio. Tito era morto quando gli fu dedicato il suo monumento, e quindi il quadro dell’apoteosi gli andava adattato in questo posto; nel nostro quadro, invece, vi è la severa e maestosa figura di Traiano in ricca veste eroica, col paludamentum fermato sull’omero destro, al modo che fu descritto per Adriano nel quadro XVIII.

Fig. 1.

Al suo fianco una Vittoria alata, con stola e palla, gli posa sul capo una ricca corona di lauro con nastri svolazzanti. Il principe ha ambo le mani rotte, e per conseguenza non più si ravvisa bene se portava nella sinistra il parazonio. Con la destra certo reggeva l’asta dell’imperio, perchè, oltre ad aver il braccio in relativa posizione, si scorgono ancora sul fondo del marmo tre attacchi dell’asta medesima, uno al di lui piede e due al di sopra del braccio. [p. 182 modifica]

Bello e maestoso è l’aspetto di Traiano, precisa e naturale la movenza, col corpo poggiato più sul sinistro piede, per ricever la corona; al tempo stesso ha graziosamente inflesso alquanto il ginocchio destro e con la punta del ricco coturno preme appena da questa parte il suolo. Nè men bella è la Vittoria, con maestose ali, con ricchissime vesti mirabilmente scolpite in graziosi avvolgimenti, con la destra in atto di posar la corona di alloro sul capo augusto e con la sinistra reggente la palla. Elegante ha l’acconciatura delle chiome, espressivo quanto mai il volto. Io conservo una moneta in bronzo di Traiano, sul cui diritto è la sua testa laureata, con la scritta in giro IMP. CAES. NERVA. TRAIAN. AVG. GERM. DACICVS. P. M; e nel rovescio una Vittoria alata, in piedi, con una corona di alloro nella destra protesa e veste lunga, simile in tutto a questa del presente quadro, con le iniziali di lato S. C. e nel giro la scritta: TR. P. VII. IMP. IIII. COS. V. P. P.

Ricca e artistica è la cornice di questo quadro. di perfetta composizione ad esecuzione, formante un trofeo dì armi, insegne e vesti militari. Son targhe, scuri, lance, faretre, scudi, corazze, cosciali, elmi, vesti eroiche, giachi, in vario modo composti e intrecciati. È un accessorio del quadro, e pur quanto sentimento artistico ci rivela questa cornice.

Quadri dei misteri Mitriaci (fig. 2 intercalata nel testo).

Questi quadri son quattro, affatto simili, messi negli intercolunnii delle due facciate, al disopra dell’imposta del fornice.

Pria di descriverli, per poterli intendere meglio, fa mestieri dire qualche cosa intorno al culto di Mitra ed ai suoi misteri.

Mitra, il maggior nume dei Persi, era il Sole, che essi adoravano nelle caverne1, e anche il fuoco2. Lo reputavano nato dalla pietra, la quale nell’attrito con l’acciaio emette le scintille. Mitra, secondo Plutarco, desiderando aver prole e in pari tempo aborrendo dalle donne, si sposò ad una pietra, dal quale connubio nacque Diorfo3. Presso di quelle genti Mitra era rappresentata con testa di leone in abito Persico e tiara splendente, in atto [p. 183 modifica]di trattenere un indomito bue per le corna4, onde i versi di Stazio5:

. . . . ., seu Persaci sub rupibus antri
Indignata sequi torquentem cornua Mithram.

Il bue prostrato era il simbolo della terra; Mitra, o il Sole, il calore che la feconda6. Ma, secondo Luctazio7, interprete di Stazio, il bue indica la luna, guidata nel suo corso dal Sole che le infonde la luce. È bene riferire le parole sue proprie, che danno un più chiaro concetto della cosa: «Persae in spelaeis coli Solem primi invenisse dicuntur; et hic Sol proprie nomine vocatur Mithra; quique eclipsim patitur ideoque intra antrum colitur. Est enim in spelaeo Persico habitu, leonis vultu, cum

Fig. 2.

tiara, utrisque manibus bovis cornua comprimens, qua interpretatio ad Lunam dicitur; nam indignata sequi fratrem, occurrit illi et lumen subtexit. Sol enim Lunam minorem potentia sua et humiliorem docens, taurum insidens cornibus torquet: quibus dictis Statius Lunam bicornem intelligi voluit». Montfauçon si attiene più a questa spiega di Luctazio, poggiandosi sul potere che il Sole [p. 184 modifica]ha sulla Luna e su gli astri, pensiero espresso da Claudiano8 nel verso

Et vaga testatur volventem sidera Mithram.

I Romani, che in ogni tempo trassero in Roma le deità dei varii popoli, introdusservi anche il culto di Mitra, traendolo dai Persi, giacchè trovasi l’iscrizione Mithras Persidicus. Plutarco dice che questo culto venne importato dai pirati dopo la sconfitta che loro diè Pompeo. Nei secoli posteriori crebbe ogni credere.

Mitra era detto anche invincibile, invitto, onde la iscrizione: DEO SOLI INVICTO MITHRAE, che corrisponde all’altra: SOLI INVICTO COMITI nelle medaglie di Costantino il Grande. L’appellativo di invincibile si appropria bene al Sole, di cui non v’ha forza mortale che possa arrestare il corso, nè diminuire la influenza. Anche Muratori riporta la seguente iscrizione: S. I. M. TI. CLAVDIVS TI. F. ROM. PANSIENVS. VI. VIR. AVGVSTALIS V. S. che è stata tradotta: Soli Invicto Mithrae Tiberius Claudius Tiberii Filius Romilia (tribu) Pansienus Sevir Augustalis Votum Solvit. Accennando alla quale, De Vita9 riporta un avanzo di monumento marmoreo, trovato quì in Benevento, sul cui fronte sono scolpiti successivamente un ramo di lauro, una specie di tripede, una pàtera ed un lituo, con la sigla M. SS. che egli traduce: Mithrae Soli Sacrum.

Variamente gli artisti rappresentarono il simbolo di Mitra; alcune sculture ce lo mostrano sotto le sembianze d’un leone, o un uomo con testa di leone, come dissi di sopra10; più sovente i Romani lo espressero sotto l’aspetto di un giovane dal coppolo Frigio in testa11, o di una giovine alata12, nell’atto di immergere un coltello nel collo d’un toro. Quando vi è il primo, egli porta sempre un mantello svolazzante a mo’ d’ala. Questo lembo e quelle ali indicavano il moto veloce del Sole. [p. 185 modifica]

Così pure o Mitra istesso o un altro personaggio di lato portano una face; altre volte questa è assicurata a qualche pianta o è sostenuta da un candelabro messo dinanzi a lui13. Tale face è il simbolo del fuoco, così come del Sole, introdotto per indicare la natura di questo nume non solo, quanto, il più delle volte, il corso del Sole istesso. Quando ve ne ha una tra due gruppi di rincontro, come nella nostra figura, essa esprime l’oriente e l’occidente, cioè l’aurora e il tramonto insieme; quando ve ne ha due, esse esprimono distintamente questi due punti cardinali; e, quando tre, esse accennano all’aurora, al mezzodì ed al tramonto.

V’ha poi esempii di trovar dinotate tutte le ore della giornata, non meno che le diverse costellazioni14.

Ma è tempo oramai di venire allo esame dei nostri quadri, rappresentati dalla sola figura 2, essendo affatto simili fra loro.

Nel mezzo del quadro è un candelabro con base o piedistallo triangolare, ornato sugli spigoli triedri di teste di ariete e sostenente l’un sull’altro cinque anelli vagamente ornati, alla cui cima son due sporgenze, pure ornate, a guisa di corni, da cui pendono, a mo’ di festoni, due fili di perle, secondo vedonsi in qualche scultura di sacrifizii portare il toro15 pendenti dalle corna. Questo candelabro, massime nella base16, imita tanti altri simiglianti che riscontransi nei monumenti romani. Esso divide il quadro in due campi; in entrambi i quali scorgesi una figura alata, premente con un ginocchio un toro. Rossi asserisce erroneamente che delle due figure alate una sia muliebre e l’altra maschile; invece sono entrambre muliebri, e diversificano soltanto nei particolari. Quella a sinistra del riguardante ha nudo quasi tutto il corpo, meno la coscia sinistra, e preme il toro con il ginocchio sinistro, che è involto da un ricco drappo che va a cadere sino a terra in artistici avvolgimenti e con uno svolazzo che scappa di dietro come sollevato dal vento. L’altra, a destra, ha nudo soltanto il busto, ed ha scoverto il rimanente del corpo da un drappo che le si [p. 186 modifica]avvolge in ricche pieghe. Che sieno ambedue muliebri lo si riconosce chiaramente al profilo del volto, alle curve opulenti delle anche e del petto ed all’acconciatura delle chiome.

Esse premono, come ho detto, con un ginocchio il toro, di cui con una mano sostengono la testa, torcendogliela verso il di fuori del marmo, e stendon tutta l’altra gamba sino a trattenere col piede, da questa parte, una delle gambe dell’animale. Il quale è disteso, con la pancia a terra, ed allunga una delle cosce, sin che la soprastante figura gliela trattenga; ripiega sotto di sè una delle gambe anteriori e inarca l’altra, torcendo con uno sforzo supremo il collo, che mostra le molte rughe della torsione. Vi si vede evidente la lotta tra esso che vorrebbe svincolarsi e la donna che lo trattiene. Altro non si riconosce più perchè questi quadri han sofferto molte ingiurie.

Forse Rossi si impensierì che, se fosse mancata la figura maschile in uno dei due gruppi, non avrebbe potuto giustificare la sua affermazione di credere che i quadri in esame rappresentino i misteri mitriaci, per la ragione che il Montfauçon17 affaccia dei dubbi se queste figure muliebri sul toro possan significare i sudetti misteri, ritenendo che piuttosto sieno delle vittorie sagrificanti. Ma le dubbiezze del citato autore restano eliminate innanzi tutto dalle affermazioni sue stesse, quando egli, dando spiegazione d’una lucerna antica18, su cui è scolpito un gruppo affatto simile ad uno dei due della nostra figura, e proprio a quello destro rispetto all’osservatore, asserisce abbia riscontro nei misteri mitriaci e in Mitra. Io mi spiego tal dubbiezza con la tenacità sua a voler ritenere che vogliavi la figura maschile e non femminile per Mitra.

Appoggiandosi all’autorità di Erodoto, il quale dice che i Persi adoravano Venere Celeste, che in loro lingua chiamavasi Mitra, egli ritiene che quella figura muliebre sul toro possa essere Venere Celeste. Ma sono fisime. Io credo che Montfauçon da quella lucerna avrebbe dovuto trarre il miglior argomento che il gruppo scolpitovi rappresenti Mitra, essendo questo nume il simbolo della [p. 187 modifica]luce e del fuoco, che da quella lucerna dovevansi emettere. È un concetto, secondo me, molto semplice.

Ma egli doveva tener molto alla sua opinione se non lo vediamo arrestarsi dinanzi a nessun esempio in contrario; e di fatti nel supplemento alla sua opera19 egli riporta una scultura rappresentante una testa di donna al di sopra di un sasso, sul quale vedonsi scolpiti un serpe ed una tavoletta con la scritta: DEO INVICTO MITHIR SECUNDINVS DAT. Negar che questa testa sia di Mitra è il massimo della tenacità di opinione.

Che non sieno poi due vittorie sacrificanti queste del nostro monumento lo designa anche il fatto dell’esistenza della face, retta dal candelabro, la quale, come vedemmo di sopra, indica la luce di Mitra; e, se Montfauçon mostrava reticenza ad accettare queste figure muliebri per Mitra, era appunto o la mancanza di face in qualche scultura (ma nella lucerna ve ne era una molto più chiara, quella proprio del lucignolo) o per non potersi discernere bene qual fosse l’oriente e quale l’occidente. Ora il nostro quadro lo avrebbe contentato anche in ciò, giacchè i due gruppi, rivolgenti la faccia al candelabro, esprimono appunto l’oriente e l’occidente, il sorgere e il tramontare del Sole, nè su di una facciata sola, ma, ciò che più monta, su entrambe, perchè l’una rivolta ad oriente e l’altra ad occidente.

Oh, se Montfauçon avesse conosciuto, questo nostro disgraziato monumento!

Ed ora passiamo ad indagare il sentimento dell’artista che volle scolpire questi simboli di Mitra nel nostro arco, e come si adattino a Traiano.

Io non divido la opinione di Rossi, che in questo monumento sieno stati scolpiti i misteri Mitriaci per ragione di opportunismo da parte di Traiano in adottare il culto di genti soggiogate, per veduta politica. Sarebbe stata una debolezza di si gran Principe ed una bassa adulazione, non degna di artisti così valenti quali furon quelli che scolpirono questo grandioso arco. Nè gli reca valido argomento l’affermazione del Montfauçon che su alcune medaglie consolari vedasi scolpita una simile figura con la [p. 188 modifica]scritta Armenia capta, e quindi fosse una divinità pure dell’Armenia ed ispiegasse la conquista di questa Provincia per parte di Traiano; imperocchè Muratori20 fa osservare che questi si mosse per imprendere la guerra in quella contrada soltanto nell’anno CXII e non prima.

Ora, se il nostro monumento fu dedicato al massimo nel CXIV, come vedemmo, egli non è possibile che gli artisti avessero avuto tempo di scolpirvi allegorie, fatti ed avvenimenti di questa guerra. E mi soccorre ancora l’affermazione dello stesso Muratori che ritiene essere avvenuta la dedicazione della celebre colonna Traiana in Roma nell’anno CXIII. Essendo in essa scolpiti i soli avvenimenti della Dacia, non par possibile che sia avvenuto il contrario del nostro Arco, monumento quasi coevo di quella. Bisogna dunque spiegar diversamente il simbolo di quelle figure.

Io penso che questi quadri dei misteri mitriaci esprimano il campo d’azione delle straordinarie imprese di si celebre Principe in occidente e in oriente, la bontà delle sue leggi e del suo governo in ambo le regioni; e, di più, che Traiano, qual Mitra, rifulse per il suo genio e per la sua potenza. A me questi quadri parlano un linguaggio più chiaro della iscrizione seguente:

A Traiano più invitto di Mitra.

Come opera d’arte questi quadri sono capolavori di scultura. Nelle linee eleganti dei due genii alati e nella perfezione plastica dei due tori si ravvisan le orme della più splendida arte greca.

Quadri minori a livello dei capitelli, rappresentanti voti pubblici (fig. 3 intercalata nel testo).

Negli intercolunnii su tutte e due le facciate, tra il sommoscapo della colonna e l’architrave della trabeazione sono scolpiti altri quattro quadri rettangolari. Ai due estremi, verso i capitelli, vi sono scolpiti due vasi, che a prima giunta si scambiano per due balaustri, molto massicci, alti quanto tutto il quadro, ornati di foglie d’acqua sul rigonfiamento inferiore. Accosto ad essi son [p. 189 modifica]due figure di camilli, in parrucca e tunica manicata, reggenti con l’antibraccio sinistro uno scudo e con la destra mano una lancia astata. Seguono altri due personaggi vestiti alla maniera stessa dei due precedenti e trattenenti, l’uno con la destra mano e l’altro con la sinistra rispettivamente da ambo i lati, un ricco candelabro con le fiamme divampanti sull’alto.

Questi quadri, secondo me, han relazione pure ai sacrifizii ed ai voti pubblici, e di vero, come nei quadri dei varii voti di Traiano dell’arco di Costantino21, nel quale tanto quel Principe che i personaggi del seguito portano una lunga lancia astata, così pure i personaggi dei nostri quadri la portano. Di più quel candelabro fiammante sulla cima, riccamente ornato, era un istrumento dei sacrifizii. E stimo che quei due oggetti simili a

Fig. 3

balaustri sieno pur essi due vasi simbolici, cioè due prefericuli, praefericula, che eran di bronzo, e servivano per il vino delle libazioni. Anzi, secondo ne dice Festo, il prefericolo era proprio così fatto, senza manico ed aperto alla sommità come un piatto: «Praefericulum vas aeneum sine ansa appellatur, patens summum ut pelvis, quo ad sacrificia utebantur in sacrario Opis consivae22.» E di questa specie neppur ne aveva veduti il [p. 190 modifica]Montfauçon, perchè egli afferma non trovar rispondente questa definizione di Festo ai prefericuli da lui conosciuti. Poichè Opis o Ops venne detta Cibele o la Terra, perchè, significando tal voce latina aiuto, potere, era ritenuto che da Lei provveniva ogni forza o alimento a tutte le cose che nell’orbe si conteneano23, io non stimo difficile che in questi quadri l’artista abbia voluto scolpire un altro simbolo delle virtù preclare di Traiano.

Solenne trionfo Dacico scolpito nel fregio della trabeazione. Tav. XXVIII e XXIX.

Presso i Greci ed i Romani il massimo degli onori e dei premii concessi ai più illustri capitani fu il trionfo; ma i più splendidi si videro in Roma, allorchè, segnatamente, il suo dominio si estese a dismisura fuori d’Italia24. Il Senato conferiva il trionfo, ma vi dovevano concorrere le seguenti condizioni:

a) che il richiedente avesse disfatto un esercito non minore di cinquemila uomini, dopo regolare e formale dichiarazione di guerra;

b) che fosse stato o dittatore o Console o Pretore;

c) che avesse inviato avvolto nel lauro le lettere di petizione sull’oggetto;

d) che avesse egli stesso condotto i soldati alla vittoria nella provincia da lui governata, non altri; che avesse finita la guerra e senza grande spargimento di sangue, in maniera che la vittoria non fosse costata troppo cara; (È l’esempio più splendido della prudenza e sapienza delle menti romane!)

e) che avesse dovuto trionfare soltanto il capo, ancorchè con un Dittatore fossero stati o un Console o un Pretore;

f) che fosse dovuto il trionfo soltanto a chi avesse accresciuto il territorio Romano con nuovi acquisti, non con il recupero o la restaurazione dei vecchi dominii;

g) che il richiedente avesse dovuto ricondurre in Roma l’esercito vittorioso, dopo pacificata la provincia, rimanendone la cura al successore;

h) che avesse dovuto attendere fuori Roma, innanzi il [p. 191 modifica]tempio di Bellona, il Senato raccolto, il quale aveva diritto di richiedere i particolari ed i chiarimenti della vittoria dalla di lui bocca, a fine di potergli accordare il trionfo; sino alia quale epoca egli doveva rimanersene fuori la città;

i) che egli avesse diritto ai littori laureati ed ai fasci di verghe sin dopo compiuto il trionfo.

Ritenutone degno dal Senato, egli nel fausto giorno entrava trionfante in Roma, ascendeva al Campidoglio, faceva un sacrifizio, dava un sontuoso banchetto e quindi, a sera, si restituiva a vita privata.

Ecco poi i particolari della solenne funzione. Il trionfante, vestito della toga pretesta, che era di color porpora fregiata d’oro e adorna di palme, si presentava al popolo ed ai soldati, ed a quest’ultimi ed ai centurioni ed ai tribuni faceva delle largizioni in ricompensa del valore addimostrato. Compiuto, da indi, il sacrifizio, montava sul carro di trionfo, chiamato thensa, e ripeteva questa prece: O Dei, giacchè per vostro aiuto e sotto i vostri auspicii l’imperio di Roma si è accresciuto, siategli propizio e conservatelo. (Dii nutu et imperio quorum nata et aucta est res romana, eamdem placati propitiatique servate). Il carro, di forma cilindrica quasi sempre e sol di rado rettangolare, era dorato e ornato di gemme; aveva due ruote splendidamente decorate di immagini divine. Questi ornamenti però variavano. Un idolo del Fallo o del fascino (il nostro mal’occhio) pendeva sotto il carro dalla parte ove sedeva il trionfante; il quale solo guidava il carro tirato da quattro bianchi cavalli, e portava sul capo una corona di oro ingemmata. Un’altra corona gli tenea sospesa sulla testa un uomo, a ciò deputato ed a rammentargli spesso che fosse tutto in sè raccolto e inteso affatto alla solenne funzione. Queste corone dopo la cerimonia venivano appese nel tempio di Giove Capitolino. Così percorrea la città di Roma; e, passando pria per dinanzi il circo Flamminio e poi per quello Massimo, recavasi al Campidoglio, preceduto dal Senato e da gran calca di popolo, tutti in veste bianca.

Innanzi al trionfante eran portate le spoglie opime e le immagini delle città e regioni conquistate. Precedevanlo eziandio nei carri i Re o i Capitani prigionieri, seguiti dalle rispettive [p. 192 modifica]famiglie, avvinti da catene di oro o di argento. I meno segnalati andavano a piedi, con le mani legate, per lo più dietro il dorso. Appresso a costoro venivano le vittime destinate al sacrifizio, le quali in questa occasione eran rappresentate da candidi bovi ornati di stola e di festoni, che lor pendevan dalle corna dorate; al loro fianco e dinanzi marciavano i popi e i vittimarii. Seguivan da presso il trionfante i parenti e congiunti più prossimi e da ultimo l’esercito vincitore. I soldati che si eran segnalati avevano cinto il capo di lauro, e portavano in mostra i premii ricevuti in dono. I legionarii, che seguivan da presso il trionfante, portavano delle corone di alloro e andavano gridando «Io, Io, triumphe!» Cantavan pure delle canzoni in lode del vincitore; ma, tra l’ebbrezza e la soverchia licenza, talora insultavanlo con descriverne colpe e vizii.

Le vie erano adorne di vaghi fiori e cosparse di delicati profumi; per lasciar libero il passo al corteo alcuni littori con una frusta dorata obbligavan la gente a sgombrarla.

Pervenuto al Campidoglio, dove tutti i templi si facevano trovare aperti e splendidamente ornati di fiori, mentre si sgozzavan le vittime, il trionfante pronunciava quest’altra preghiera: »Gratias tibi, Iupiter Optime Maxime, tibique Iuno Regina, et caeteris huius custodibus habitatoribusque arcis diis, lubens laetusque ago, re Romana in hanc diem et horam per manus, quod voluistis, meas servata, bene gestaque, eamdem ut facitis fovete, protegite propitiati, supplexoro».

Dopo avere offerti a Giove la corona trionfale e le spoglie opime, giacchè allora come oggi tutto finiva in cene e in desinari, il trionfante conduceva a banchetto sontuoso i convitati. Ed affinchè in mezzo all’ebbrezza di tante gioie egli non avesse dimenticata la fragilezza e caducità delle cose umane, un servo, per fiaccargli l’orgoglio, di tratto in tratto gli susurrava all’orecchio «magis servo tuo pareo, quam tibi25».

È splendida la descrizione che fa Plutarco del trionfo di Paolo Emilio. [p. 193 modifica]

Ma torniamo al fatto nostro.

Abbiamo già visto che Traiano trionfò in ambedue le guerre Daciche26, la prima volta quando obbligò Decebalo a chieder pace, e ad umiliarglisi ai piedi, e fu allora che si ebbe il titolo di Dacico; la seconda allorchè, debellato completamente quel principe e strettolo da presso, lo spinse al suicidio. Alla celebrità di quest’ultima vittoria, la quale arricchì l’impero Romano di una provincia così importante, seguirono le feste più splendide che Roma abbia viste, durate nientemeno che cento ventitre giorni, secondo riferisce Dione, ed alle quali convennero i legati delle più lontane regioni, fin dell’India: Ad Traianum reversum in urbem quam plurimae legationes a barbaris gentibus et in primis ab Indis venerunt. Is spectacula edidit dierum centum viginti trium, in quibus interdum caesae sunt ferae mansuctaeve bestiae mille, interdum etiam ad decem millia: itemque gladiatorum decem millia inter se certaverunt27. Questo secondo trionfo Dacico fu il più segnalato, e pari alla grandezza della vittoria.

Rossi28 opina che il passo della Cronaca di M. Aurelio Cassiodoro, ove dice: «His Coss. Traianus de Dacis et Scythis triumphavit29», si riferisca proprio a questo secondo trionfo; ma a me non pare, per la ragione che ciò sarebbe avvenuto sotto il consolato di Tiberio Giulio Candido e di Aulo Giulio Quadrato, cioè secondo Muratori30 proprio nell’anno in cui Traiano aveva appena iniziata la spedizione. Sebbene questo punto della vita di Traiano non resti chiarito dai fasti consolari, v’ha motivo di credere che Cassiodoro siasi voluto riferire al primo trionfo Dacico. Ma tutta questa discettazione la lascio ai dotti, imperciocchè essa sola meriterebbe un volume, per il confronto dei passi più difficili dei varii storici.

Ora, sebbene il titolo di Dacico fosse stato assegnato a Traiano dopo la prima vittoria e il primo trionfo Dacico, questo [p. 194 modifica]Arco, insigne, come abbiam visto, per la preziosità delle sculture e l’epilogo delle virtù civili e militari, sacre e profane di lui, gli fu eretto dopo che egli ebbe ottenuta la seconda completa vittoria contro Decebalo e il relativo trionfo. Narrazione non se ne trova negli storici, ma solo qualche accenno, con nostro rammarico, essendo andate perdute le opere che ne trattavano: Plinio Secondo lo accenna in una lettera a Caninio Rufo, il quale andava allora scrivendo in versi Greci le due guerre Daciche, e avrebbe dovuto dire di entrambi i trionfi: «Super haec, actos bis triumphos: quorum alter ex invicta gente primus, alter novissimus fuit31».

Essendo dunque stato eretto il nostro Arco dopo il secondo trionfo Dacico, è manifesto come questo vi abbia dovuto occupare il posto più ragguardevole, con una larga rappresentazione scultoria nel fregio della trabeazione; laddove vedemmo che nella tavola XVIII è scolpito un accenno del primo.

Questa scultura è una vera caratteristica dell’arco di trionfo, mancando in quelli che son semplicemente onorarii. E se nell’arco di Tito in Roma, nei due quadri sotto il fornice, vi sono pure scolpiti due episodii del trionfo, e se vi erano talvolta le vittorie e il cocchio trionfale sull’alto dell’attico per designare lo stesso concetto, pure nel fregio si soleva scolpire a solenne e imperitura ricordanza la celebrità del trionfo; anche per la ragione che in tal sito l’artista aveva maggiore spazio per potervi rappresentare il lungo corteo della marcia trionfale.

Per tal guisa a noi è pervenuto sotto forme sensibili la maestà del secondo trionfo Dacico, mentre le storie ed i poemi che lo descrissero furono vittime del tempo. I monumenti, quando non sono proprio essi la più bella pagina di storia, proiettano su di questa la loro luce.

Anche in tale rappresentazione il nostro Arco è grandioso, giacchè, mentre in quello di Tito la marcia del trionfo è interrotta sugli aggetti delle colonne d’angolo, nel fregio della trabeazione del nostro monumento è tutta continua sulla ricorrenza delle quattro facciate. Il lettore la vedrà interamente rappresentata nelle tavole XXVIII e XXIX. [p. 195 modifica]

Le figure non sono tutte d’ugual dimensione per le difficoltà incontrate nel rilevarne le fotografie, nè completamente chiare per le avarie del marmo; ma, non per tanto, vi si scorge tutto quello che occorre per una sufficiente cognizione del trionfo, che ora passo a descrivere.

Quando l’erudito Giovan Camillo Rossi scrisse la sua opera su questo insigne monumento, le case dei signori Marchese di Carife e Parziale vi si addossavano sui due lati minori; ma, come dissi32, dopo la venuta di Papa Pio IX in questa città, fu tutto isolato. Di maniera che nell’opera del Rossi non si trova disegnato e descritto tutto il fregio; ed a suo luogo farò vedere quali parti vi mancano.

È giuocoforza cominciare la descrizione dalle prime figure della facciata occidentale, e più propriamente dalla cantonata tra questa e la facciata meridionale, giacchè essendo quelle le prime ad arrivare al tempio, sono, per tanto, addirittura esse che aprono la marcia.

In prossimità della sudetta cantonata (Tav. XXVIII, fig. 1.) è scolpito un tempio con colonne angolari, dai capitelli ionici e dalle basi atticurghe. Nella nostra figura si vedono solo due delle quattro colonne d’angolo, che fanno da cantonale, e due se ne vedono pure sulla facciata meridionale. Una del prospetto non è scolpita perchè supposta rientrante nel marmo per non ingenerare confusione nel fronte del tempio. I muri della cella, scompartiti a bozze piane divise da canaletti, s’innestano alle colonne. L’astragalo del capitello ricorre da una colonna all’altra, così come la trabeazione, la quale è completa di architrave, fregio e cornice. Questa sostiene il tetto a due pioventi, i quali danno nascimento sulle facciate minori a due frontispizii triangolari, ornati, quello che guarda settentrione di un disco in rilievo, e l’altro di una corona di alloro. Il tetto, come ben si distingue nella figura, è formato di embrici e tegole.

Rossi asserisce che questo tempio sia di forma periptero, ma s’inganna. Già, pria d’ogni altro, i Greci non usaron mai di incastrar le colonne nella fabbrica, ed invece le mettean tutt’affatto [p. 196 modifica]isolate; furono i Romani quelli i quali d’ordinario le usarono più a scopo di decorazione che di sostegno. E poi diceasi periptero quel tempio il quale, secondo il suo significato greco, avea le colonne tutt’in giro alla cella e staccate da essa, al numero di sei, comprese le angolari, nei lati minori, e di undici, comprese pure le angolari, nei lati maggiori, in guisa da lasciare un portico intorno intorno.

Il tempio che vediamo scolpito nel nostro fregio, tutto al più, può dirsi in antis (prescindendo dalle colonne mediane, che mancano, nelle facciate minori e che vi dovrebbero essere per dirsi tale33), perchè questa specie di tempii aveva i pilastri sporgenti ai cantoni oltre i muri della cella. Nel nostro caso le colonne farebbero le veci di quei pilastri. Ove si distinguesse nel disegno il lato minore del tempio, non lo si scorgerebbe guari difforme, a parte l’ordine, da quello che è scolpito nella tavola XVIII.

Il riscontrare l’ordine Ionico invece del Corintio in questo tempio ha fatto dire a Rossi varie inesattezze. È vero che il tempio di Giove Capitolino, come lo abbiam visto scolpito nella tavola XVIII, era di ordine Corintio; ma gli artisti talvolta si appartavano dalla fedeltà. E se di sovente, per mancanza di spazio e semplicità del bassorilievo, omettevano il giusto numero delle colonne che adornavano il tempio rappresentato, non curavano neppure di riprodurne fedelmente l’ordinanza architettonica.

Ad ogni modo quello che vedesi scolpito nel nostro fregio è il tempio cui il trionfante recavasi a sciogliere il voto ed a compiere i sacrifizii di rito.

Le prime due figure presso il tempio sono indubitatamente quelle di due stipatori, o servi, i quali facevan largo al corteo tra la folla, mantenendola a rispettosa distanza. A tale oggetto portan sulla spalla sinistra una scopa o granata. Se però il pubblico non fosse stato tanto indiscreto da esser trattato con si vile istrumento, esso poteva servir pure a nettar la via man mano che il corteo procedeva. Rossi dice, invece, che quelli portino sulla spalla sinistra le armi, a foggia di bastone o alabarda; altro che [p. 197 modifica]alabarda, quelle sono scope! Questi due personaggi veston la tunica solita che abbiamo vista negli altri quadri. Nessun altro loro particolare può scorgersi, per le molte avarie.

Seguon due altre figure vestite alla guisa stessa delle prime. Quella che va appresso sostiene con ambo le mani una cesta di vimini a tronco di cono; nella quale la prima figura è in atto di affondar la destra, mentre colla sinistra già sostiene qualche cosa che esprimer dovrebbe un mazzo di fiori. Entrambe hanno lunghi capelli che in due ciocche scendono sin su gli omeri; per cui si vede bene sieno due camilli, intesi evidentemente a spargere fiori lungo la via. Non mi sembra verosimile l’altra opinione di Rossi che essi portino dell’uva, a simboleggiare la Dacia.

Appresso sono scolpiti tre suonatori. Erano i tubicini che andavan cantando a suon di tromba34; e si appellavano così dall’istrumento musicale chiamato tuba, che era una tromba lunga e diritta. Però suonavan pure altri istromenti, quali il lituo, che era alquanto curvo, il corno, che lo era ancor più, e la buccina che era una specie di questo ma più corta; in tali casi nomavansi liticini, cornicini e buccinatori. E se questi istrumenti eran di bronzo, quelli si dicevano pure aeneatores35. Siccome questi tre personaggi sono molto avariati, non si distinguono perfettamente; però sembra che sieno tre tubicini. Vestono la tunica di sotto come le precedenti figure, ma indossano di più una sopravveste, chiusa sul dinanzi, simile al sago cucullato che vedemmo nel quadro XXV.

Poi vengono due figure vestite di tunica, e portanti infilato all’avambraccio sinistro uno scudo ovale ornato, non rotondo come dice Rossi, imperciocchè allora sarebbe il clipeo36. Esse hanno i capelli lunghi cadenti sugli omeri, nel modo dei due camilli innanzi descritti. Il suddetto autore suppone che essi sieno dei gladiatori, ma non vi sarebbe fondamento nell’aspetto in cui si presentano, con i capelli lunghi a mo’ dei camilli. Piuttosto son delle allegorie guerresche, usandosi dai romani di scolpire a titolo [p. 198 modifica]di onore anche solo gli scudi di varie forme sui monumenti. Così questi due giovinetti, camilli, portan gli scudi quale insegne guerresche per simbolo del trionfo. Forse con la destra reggevano pure la lancia astata.

All’epoca di Rossi, come ho detto sopra, qui si arrestava la parte visibile di questo lato del fregio, essendo coperto il rimanente dalle fabbriche della casa Parziale; ma oggi ne vediamo il prosieguo, che qui appresso descriverò.

Segue un popo, identico a quelli che abbiamo visti già nel quadro del sacrifizio sotto il fornice (Tav. XXI), con tutto il torace e le braccia denudati, con una corta veste frangiata stretta alla vita da una fascia, e cadente sino al ginocchio; con la guaina dei coltelli al fianco destro. Egli, secondo la sua attribuzione37, conduce per la briglia una vittima, che in questo caso è un bel toro, scolpito egregiamente, quasi in tutto rilievo, portante sul dorso una stola riccamente ornata e frangiata che gli pende fin al di sotto della pancia, ed al collo il capestro, col quale il popo lo guidava con cautela e dolcezza, riguardandosi come segno di cattivo augurio ogni moto, men che regolare, della vittima38.

Un’altra figura, simile alla precedente, è scolpita in minor rilievo sul lato sinistro del toro; nel disegno non la si discerne per un ciuffo d’erbe cresciuto in questo sito, e che non si ebbe la diligenza di togliere nel ritrarre la fotografia; è un vittimario, col capo laureato e recante nella destra distesa una specie di grosso cilindro come nell’atto di percuoter la vittima.

Gli va appresso un altro vittimario, con eguale veste frangiata degli altri due dalla cintola ai ginocchi, con la guaina dei coltelli al fianco destro, e col capo laureato, reggente sull’omero sinistro un vase senza manico, specie di pignatta, detto pátera, ove, per lo più, riponevasi il sangue della vittima.

Poi viene un altro gruppo di popo, toro e due vittimarii come quelli descritti, con la differenza soltanto che il vittimario procedente alla sinistra della vittima porta sull’omero sinistro una grossa scure con lungo manico. [p. 199 modifica]

E finalmente un altro popo, un toro ed un vittimario con la scure sull’omero destro completano questo lato del fregio. Manca a questo gruppo il secondo vittimario portante la pátera; certo, essendo scolpito sulla cantonata, fu vittima a sua volta delle ingiurie del tempo; e di vero ravvisansi ancora sulla tegola dell’architrave gli avanzi dei suoi piedi.

Passiamo ora alla facciata esterna che guarda la campagna (fig. 2 della tav. XXVIII).

Sul risaltato corrispondente alla colonna vedesi una figura con tunica. È molto danneggiata, per la qual cosa non si ravvisa più quale ufficio avesse disimpegnato e quali simboli avesse avuti. Appresso a questa figura, nel mezzo del risalto del fregio, ne dovea esistere altra, a giudicar dal molto vuoto lasciatovi e dalle tracce di scultura sulla tegola dell’architrave.

Segue altra figura di militare con tunica e mantello, del quale sostiene un lembo con la mano sinistra. Essendo simile questa figura ad altre che incontreremo, e le quali evidentemente sono dei prigionieri, opino che esso tal sia pure.

Sulla rivolta di questa sporgenza vedesi un vessillifero, vestito di tunica, coronato di alloro e reggente con la sinistra un’asta, alla cui cima è una tabella rettangolare con due orecchioni trapeziali agli estremi, cioè della forma che vedesi sovente nei monumenti e negli edifizii romani. Forse vi era scritta qualche indicazione del corteo, come il nome della legione ecc.

Passati nel primo intercolunnio, vedesi da prima un vittimario con la pátera sull’omero sinistro simile ai già descritti. Rossi crede che ei porti, invece, un prefericolo; ma vedemmo39 già, parlando dei quadri minori, che cosa questo sia e qual forma si abbia.

Segue un altro vittimario con la scure levata nella sinistra e vestito come i precedenti.

Appresso a lui va un altro toro con la stola e il capestro come i descritti. Se non che esso è guidato dal vittimario che gli va a fianco, sulla sinistra, invece che dal popa, come nei gruppi antecedenti. Tal vittimario che lo conduce porta nella man destra una specie di cilindro destinato a percuoter la vittima. [p. 200 modifica]

Seguono altre due figure con sola tunica, molto danneggiata, e per conseguenza poco riconoscibili.

Quindi viene un personaggio togato nella più splendida foggia, cioè col sinus, umbo e dalteum40. Ha il capo coronato di alloro, e con la destra sostiene in petto un lembo della toga. Sembra che sia un sacerdote.

Gli va appresso un uomo con sago cucullato; ed è l’ultima figura dell’intercolunnio.

Sulla rivolta del fregio è scolpito un altro stipatore, simile ai già descritti. Che sia tale apparisce chiaramente dalla granata che sostiene in alto, sulla sinistra.

La prima figura del corpo avanzato, corrispondente alle colonne che fiancheggiano il fornice, è quella di un vessillifero con tunica. Sebbene sia molto logora, scorgesi ancora la sua special covertura del capo, formata, a quanto sembra, di una testa di leone chiomata, come quella dei vessillìferi nei quadri dell’arco di Costantino41.

La seconda figura è quella di un auriga con tunica e clamide, il quale con la man destra si sforza a tirar le briglie di due muli, che sembran riottosi a camminare.

Questi sono appaiati dinanzi un cocchio semicilindrico, sostenuto da due ruote con razzi. Nel cocchio son due personaggi; quello sulla sinistra, porta il mantello affibbiato sull’omero destro, ed ha la man sinistra aperta e levata in alto; l’altro ha le mani giunte sui ginocchi, strette da una catena di metallo, la quale va a girare sul fianco destro del cocchio. Rossi opina che quello che va a sinistra sia un disertore romano e l’altro un prigione nemico; ma, perchè barbuti, io li credo entrambi prigionieri nemici.

Segue immediatamente il cocchio un militare con tunica e clamide, la quale porta rialzata e rovesciata sulle spalle da lasciargli libero il braccio e la mano destra.

Vien poi un prigioniero, il quale move frettoloso il passo. Egli è notevole, siccome l’altro già veduto, per un mantello che [p. 201 modifica]in ricche pieghe gli passa dal petto sull’omero sinistro e quindi per di sotto il braccio destro; quest’ultimo lembo ei sostiene colla mano in una bellissima posa. Si scorge pure che avea la mano destra ravvicinata e forse avvinta alla sinistra.

A costui tien dietro un terzo vessillifero, e quindi un’altra figura di militare con clamide e tunica.

Segue altro auriga affatto simile al precedente, guidante due buoi appaiati innanzi ad un altro cocchio dalla cassa rettangolare, sulla quale vedesi scolpito un graticcio a doppia croce, che si scambia per il numero XIX. Il carro ha le ruote piene di un sol pezzo, ed i bovi hanno le corna e la nuca ornate. Nel cocchio vedonsi due prigionieri affatto simili a quelli del precedente.

Appresso al carro va un altro militare con clamide, simile in tutto a quello che precede l’ultimo auriga.

Quindi viene un altro vessillifero; e dopo di lui un gruppo di prigionieri di minor conto, perchè procedenti a piedi. Questo gruppo si forma di due donne e di un fanciullo. La prima di quelle conduce per mano il fanciullo, ignaro della triste sorte che tocca ai vinti, essendo in età da non poter comprendere la immensità della loro sventura. Così son pur descritti nel trionfo di Paolo Emilio42 i fanciulli del re prigione. La seconda donna va a mani giunte. Entrambe, oltre la veste, portano una sopravveste. È notevole il fanciullo per i calzoni lunghi, all’uso Dacico. Egli porta pure la tunica ed il mantello simile ai nostri, fermato sul petto da una fibbia, e rovesciato all’indietro. L’uomo che scorgesi in bassorilievo alle loro spalle è un soldato romano.

Va dietro a questi prigionieri un altro soldato romano con tunica e clamide. Non si ravvisa se, come dice Rossi, porti fra mano un capo della catena con cui erano avvinti i prigionieri; ma è sicuro che tanto esso che l’altro soldato alle spalle abbiano l’ufficio di guidare questi.

Seguon due vittimarii, i quali con una mano sostengono insieme una pátera e nell’altra portan ciascuno un malleo.

Quindi un popa, armata la sinistra della solita scure, conduce con la destra un’altra vittima ornata come le precedenti. [p. 202 modifica]

Alla sinistra di essa vedesi il consueto vittimario con la solita pátera sull’omero destro.

Procede, in seguito, un altro vessillifero, e appresso a lui va un altro gruppo di prigionieri, formato pure di due donne e di un fanciullo condotto per mano dalla prima di esse, laddove la seconda stringe al seno un tenero bambino.

Questo gruppo è più commovente del primo.

Le due donne ed il fanciullo vestono identicamente a quelli dell’altro gruppo. Alle loro spalle vedesi il solito romano che li guida.

Segue un altro soldato romano con tunica e clamide; ed è notevole che egli sia intento a sospingere con la mano sinistra quegli sventurati.

Viene da indi un altro auriga, guidante due buoi aggiogati dinanzi ad un cocchio dalle ruote piene e dalla cassa rettangolare. Questo cocchio ha di particolare però una specie di mantice, come nelle nostre carrozze, il quale covre la testa dei due prigionieri che vi son dentro.

Ultima figura di questo sporto del fregio, proprio accosto allo spigolo, è uno dei soliti militari romani con tunica e clamide, non con la veste senatoria, come dice Rossi.

Passiamo ora nel secondo incolunnio di questa facciata.

Per primo vedesi il solito vessillifero, cui tengono dietro quattro uomini tunicati, i quali portano con barre sulle spalle una specie di cassa, ornata sul fronte esteriore; sulla quale vedesi una massa voluminosa ellissoidica, ornata di tanti rosoni in rilievo. Abbiam visto43 che Traiano ebbe la fortuna in questa guerra di scovrire il tesoro di Decebalo sotto le acque della fiumana Sargezia. Forse questi portatori recano appunto parte di quel tesoro.

Va appresso a loro un uomo togato, il quale certo disimpegnava un ufficio particolare ragguardevole. Qui forse era messo a tener d’occhio i portatori del tesoro, altrove a non perdere di mira e ad accompagnare i più eminenti prigionieri.

Egli è seguito da un militare in tunica e clamide, il cui lembo destro ha sollevato sull’omero e lo trattiene con la mano. [p. - modifica]
Meomartini, I monumenti e le opere d'arte della città di Benevento Tav. XXVIII.

Fig. 1

Fig. 2

[p. - modifica]
Meomartini, I monumenti e le opere d'arte della città di Benevento Tav. XXIX.

Fig. 1

Fig. 2

[p. 203 modifica]

Segue altro militare in semplice tunica, e regge nella mano destra qualche cosa, che più non si discerne bene.

Quindi viene un altro vessillifero; e da ultimo, proprio nell’angolo dell’intercolunnio, un auriga, con un’asta nella mano sinistra, il quale guida due cavalli, scolpiti sul risalto del fregio corrispondente alla colonna della cantonata. I cavalli tirano un cocchio con ruote a razzi, nel quale vedesi la solita coppia di prigionieri.

E finalmente sulla cantonata è scolpito un militare in tunica, simile a tutti gli altri precedenti.

Passiamo alla terza facciata (fig. 1, tav. XXIX), il principio della quale ai tempi di Rossi era coperto dalle case dei Marchesi di Carife.

Da prima vedesi (non tenendo conto della figura che scorgesi appena appena sfumata sulla cantonata, perchè è la stessa descritta innanzi, vista alle spalle) la figura di un prigioniero con tunica e mantello ripiegato per su l’omero sinistro e per di sotto il braccio destro, con ambo le mani ligate in croce sul dinanzi. A prima giunta la si prenderebbe per un uomo togato, come quegli altri tre che ho descritti di sopra, ma è indubitato che sia un prigioniero.

È seguito da un vessillifero, cui tien dietro un uomo simigliantemente vestito, cioè con sola tunica, col capo laureato e recante nella mano destra qualche cosa che somiglia ad un mazzo di fiori.

Queste tre figure son quelle che mancano nelle tavole di Rossi.

Vengono quindi altri quattro portatori, vestiti e laureati come i precedenti; essi, divisi in due coppie, recan sulle spalle le barre che sostengono la cassa, sul fronte della quale sono scolpiti una testa di bue, nel mezzo, e due festoni ai fianchi. Sulla cassa si vedono un vase a forma di patera, quasi semisferica, scoperchiata, ed una grande cornucopia, formata, alla sommità, di un tronco di cono più ampio e, sul basso, di un cono ricurvo. In questi due utensili doveasi contenere altra parte del tesoro, probabilmente monete ed oggetti preziosi minuti.

Va appresso ai portatori il solito personaggio laureato con [p. 204 modifica]tunica e mantello, del quale sostiene con la destra il lembo rialzato sull’omero.

Lo segue un uomo in tunica, il quale, per aver le mani rotte, non si discerne più quale ufficio avesse avuto.

Poi vedesi un altro vessillifero; appresso un altro prigioniero pedestre a mani giunte, in tutto simile agli altri descritti; e quindi vengono quattro altri portatori alla foggia dei precedenti. La tavola che essi recano sulle spalle è ornata come l’ultima descritta, e sostiene una specie di cassa rettangolare chiusa, la quale doveva contenere altra parte del tesoro della Dacia.

Li segue un personaggio in tunica con il capo laureato. Egli stringe nella mano sinistra, sul petto, una specie di rotolo.

È scolpito appresso a lui un altro prigione a mani giunte, nelle vesti e nella posa simile agli altri veduti.

Poi vengono altri due romani, il primo in semplice tunica, ed il secondo in tunica e clamide, della quale con la mano destra regge il lembo che gli si rimbocca sull’omero. Questa è l’ultima figura dell’intercolunnio.

Sullo sporto corrispondente alla colonna son tre figure; la prima è di un vessillifero dei soliti; la seconda è di un prigioniero, il quale procede a mani giunte sul dorso, e veste la tunica ed una specie di clamide con fibbia sull’omero destro; la terza, che è l’ultima di questa facciata, è quella di un romano con tunica e clamide.

Sul prospetto che guarda la città, (fig. 2, tav. XXIX) innanzi tutto, sull’aggetto della colonna della cantonata, vedonsi scolpite tre figure, due soldati e un vessillifero, alquanto corrosi.

Passati nell’intercolunnio, vedonsi da prima due uomini che insieme sostengono una cesta di vimini, a cono tronco, piena di fiori.

Segue un uomo togato, e quindi vengono altre cinque persone, in varie vesti ed atteggiamenti, molto corrose dal tempo da distinguersi a mala pena. Però scorgesi ancora che le prime quattro rappresentino dei suonatori, come quelli che vedemmo nella figura 1.a della tavola XXVIII, essendovi ancora gli avanzi dei loro istrumenti musicali.

Appare pure certo che l’ultima figura sia quella di un popa, [p. 205 modifica]e perchè ha la solita veste corta frangiata, e perchè è seguita dalla consueta vittima.

Alla sinistra della quale distinguesi il solito vittimario recante la patera sull’omero sinistro.

Un altro vittimario è nell’angolo tra l’intercolunnio e la rivolta del fregio.

Sullo spigolo dello sporto è scolpito un altro soldato romano assai avariato, ed appresso a lui va un personaggio a cavallo tenente il braccio destro levato all’indietro. Egli è vestito di un ricco mantello; e dalla sinistra del cavallo vedesi pendere un largo drappo frangiato. Non si distinguono più i ricchi finimenti del cavallo. Rossi sostiene che il personaggio a cavallo sia una donna e vada seduto; ma, sebbene molto deteriorato, non pare che tal sia; ed apparisce poi chiaramente che non vada seduto ma a cavalcioni.

È notevole il militare che gli va appresso, perchè, oltre ad una veste più stretta di quella degli altri finora veduti, porta delle cinghie, due in croce sul petto, una che avvince le prime orizzontalmente, quasi presso il collo, ed una quarta intorno alla vita; le prime son congiunte da un fermaglio a disco ad ogni incrocio, e l’ultima è frangiata di bandelle semicircolari ornate. Egli è laureato.

Gli sta sulla destra un prigioniero pedestre, simile ai già veduti; alle spalle del quale è un vessillifero nel più basso rilievo.

Seguono altri quattro portatori, recanti sulle spalle la solita tavola, sulla quale, perchè logora, non si distinguono i particolari come nelle precedenti.

Appresso a loro va un militare dalle vesti e cinghie incrociate sul petto, simile al descritto da poco. È seguito da un personaggio a cavallo, pure affatto simile al precedente.

Viene dopo un prigioniero (non due come vede Rossi) con le mani giunte sul dorso; e appresso a lui un soldato romano con tunica e clamide.

Segue un auriga, il quale guida due cavalli appaiati dinanzi un cocchio a ruote con razzi.

In questo sono due prigionieri. Il personaggio sulla destra par che sia una donna, a giudicare dal volume speciale delle [p. 206 modifica]vesti; ma sventuratamente poco o nulla se ne discerne più per le gravi ingiurie sofferte. Rossi ritiene non solo che sia una donna, ma che sia addirittura la sorella di Decebalo, presa prigioniera da Massimo, generale di Traiano, nella prima guerra Dacica44.

Quegli che va a sinistra nel cocchio ha una catena ligata al polso sinistro.

Quindi vedonsi scolpiti due soldati romani, l’uno nel maggior rilievo e l’altro nel più basso, entrambi con tunica e clamide.

Alla loro destra è un altro prigioniero, con le mani strette sul dorso e con i calzoni all’uso dei Daci nella Colonna Traiana. Un soldato romano con clamide lo segue, e par che lo guidi. Rossi vede pure, in mezzo a questo gruppo, ma io non ve lo scorgo, un fanciullo barbaro con la sua veste detta sarcina.

Poi viene un altro soldato, simile nelle vesti al precedente, seguito da altra figura di militare con le cinghie incrociate sul petto siccome gli altri descritti da poco. Esso al presente è monco delle gambe, e poco riconoscibile nel volto.

A costui va appresso un militare in tunica e clamide, col capo laureato. Al suo fianco vedesi un uomo togato, col semplice sinus45, quindi un vessillifero, e dopo di questo un altro soldato in semplice tunica con atteggiamento speciale delle mani, quasi avesse retto qualche oggetto, che poi il tempo ha distrutto.

Seguono i soliti quattro portatori, recanti con barre sulle spalle la tavola, sulla quale è parte del tesoro. Questa è ornata sul fronte con festoni, e sostiene una massa, al presente quasi informe.

Poi vengono altri due militari; il primo è laureato, il secondo manca della testa e delle gambe.

Essi sono seguiti da un vessillifero. Alle spalle di costui vedesi un uomo dal capo laureato, scolpito in bassorilievo.

A diritta di lui procede un uomo togato, con la man destra reggente in petto il sinus della toga.

Quindi vedonsi altri quattro portatori con la solita tavola [p. 207 modifica]ornata, sulla quale è scolpita una massa, pure quasi informe. Queste son l’ultime figure dell’avancorpo.

Passati all’intercolunnio, vedesi sulla rivolta la figura di un militare, ma poco riconoscibile. Così pure è perita interamente la prima dell’intercolunnio stesso, non ravvisandosene che un pezzo sulla tegola dell’architrave.

Vien dopo, ed è il primo delle figure esistenti, un militare in semplice tunica, il quale è seguito da un altro militare dalle cinghie intorno alla vita e sul petto, come i precedenti descritti.

Vedesi in seguito la figura di un auriga vestito di doppia gonna, come le vittorie dei timpani (tav. X e XI). Sebbene mancante di una gamba e molto avariato nel volto, dal tutto insieme però traspare che sia la figura di una donna, come attesta Rossi, e forse una specie di Vittoria, tal quale vedesi nel quadro del trionfo di Tito dell’arco omonimo.

Questa figura guida i quattro cavalli della quadriga imperiale ornati di splendidi finimenti. Quelli tirano il cocchio, di forma semicilindrica, convesso sul dinanzi, dove vedonsi scolpite delle vittorie; era quello che appellavasi thensa46.

L’imperatore, vestito della toga, vi sta dentro all’impiedi, non seduto come dice Rossi, e guida con la destra le redini dei quattro cavalli, mentre regge nella mano sinistra qualche cosa che oggi più non si distingue.

Una figura muliebre, in abito di Vittoria, gli sta ritta alle spalle e gli posa sul capo una corona.

Sulla sinistra dei cavalli, in basso rilievo, è scolpito un altro militare laureato, recante un’asta appoggiata sull’omero sinistro, la quale dovea sostenere qualche insegna.

Appresso al cocchio immediatamente va un personaggio vestito quasi come colui che precede l’auriga muliebre, col petto fregiato ed ornato. Rossi suppone che sia Lucio Quieto47, ma con qual fondamento?

Alle sue spalle va il solito vessillifero, e quindi galoppa una coppia di cavalieri; nel più rilevato dei quali Rossi suppone [p. 208 modifica]Adriano, ma le ingiurie han così danneggiato queste figure da non potersene discernere che picciola cosa.

Nella rivolta tra questo intercolunnio ultimo e lo aggetto è scolpito un signifero o vessillifero che sia, portante con la sinistra un’asta, alla cui cima è infilata una specie di corona murale, cilindrica con due fori sul convesso anteriore.

Un altro militare pedestre è scolpito quasi accosto allo spigolo interno del risalto; e finalmente appresso a lui vanno due altri cavalieri simili ai precedenti.

Rossi vede un altro vessillifero dopo di loro, ma io non vi scorgo nulla più. Soltanto si distingue alle loro spalle la faccia posteriore del tempio, nel di cui frontone è scolpita una corona di alloro.

Da questa rapida descrizione il lettore avrà desunta una nozione della importanza storica ed artistica del trionfo raffigurato nel nostro monumento. La storica è accresciuta dal silenzio o dal semplice accenno degli scrittori dell’epoca su di un avvenimento così grandioso, avendo visto che Dione, Sifilino, Marco Aurelio, Cassiodoro appena appena lo accennino, e che quest’ultimo non lasci intendere neppure a quale dei due trionfi si riferisca. Plinio Secondo fa menzione di entrambi nella citata lettera a Caninio Rufo, il quale si accingeva a scrivere in versi delle guerre di Traiano contro i Daci, ma gli scritti di costui non ci pervennero. Plinio scriveva all’amico48: «Tu fai benissimo ponendoti a scrivere la guerra Dacica; imperocchè quale materiale storico è così recente, così copioso, così vasto, più poetico infine e, mentre così vero, pur tuttavia così ricco di fatti che sanno del favoloso? Parlerai di nuovi fiumi aperti fra i campi, di nuovi ponti gittati su i fiumi, di eserciti accampati sulle balze dei monti, di un re, il quale, privo di scampo alcuno, dopo essere stato scacciato dalla reggia, fu costretto eziandio darsi la morte. E, sopra tutto ciò, i conseguiti due trionfi, l’un dei quali fu il primo riportato su gente indomita, l’altro fu l’ultimo.

E diceva bene Plinio che questi due trionfi furono il primo e l’ultimo conseguiti dai Romani sui Daci, imperciocchè [p. 209 modifica]quello di Domiziano era stato piuttosto un vitupero che un trionfo49.

Ora, fra mezzo alle lacune, al laconismo ed alle dispersioni dei brani di storia scritta, questo fregio è il monumento più classico del linguaggio figurato, una delle pagine più splendide della vita di Traiano.

La sua importanza artistica poi è messa in rilievo da diversi fatti. A parte i pregi speciali di ciascuna figura nei suoi più minuti particolari, i quali a voler tutti descrivere non basterebbe un volume, è notevole la tecnica di tutte quante e dello insieme. Si osservi che l’artista romano non mancava di quelle regole fondamentali che danno risalto e conferiscono effetto all’opera d’arte. Se gli Egizii, i Greci e gl’Itali-Greci trassero dalla policromia i meravigliosi effetti dei loro colonnati e delle loro trabeazioni, i Romani, che quella non usarono, trassero partito dai profondi intagli, dai pronunziati aggetti dell’ornato e della scultura per accrescere maestà e vaghezza ai loro monumenti. Di tal che, siccome essi pensarono a scavare, nelle parti in ombra, quasi intero l’ovolo, il dentello, la foglia, così ebbero pure il giudizioso concepimento di scolpire nel maggior rilievo le figure del fregio, dove, la sopracornice della trabeazione proiettando le sue maggiori ombre, quelle non avrebbero il sussidio delle proprie, come nella piena luce.

È questa la ragione per la quale noi vediamo le figure del fregio scolpite nel più gran rilievo. Oggi esse son mutilate in gran parte, per cui non puossene ammirare tutta la venustà delle forme e dello stile; ma, ciò non pertanto, l’intelligente può scorgervi ancora le loro bellezze ed intuire l’effetto meraviglioso che nello stato integro dovevan produrre.

Del resto, relativamente fortunati artisti furono coloro che scolpirono questi capolavori dell’arte, se attraverso tanti secoli, ed alcuni di vandalismo e barbarie, poterono tramandarci questo monumento grandioso, così importante per l’arte e per la storia.

Note

  1. Pomey, op. cit. pag. 42.
  2. Montfauçon, op. cit. tom. I. pag. 367.
  3.  Id. pag. 368.
  4. Pomey, op. cit. pag. 42.
  5. Thebaid. lib. 1.
  6. Romanum Museum, M. Angeli Causei, Tom. I. pag. 68.
  7. Montfauçon, op. cit. Tom. I. pag. 375.
  8. De laudibus Stiliconis, lib. 1.
  9. Op. cit. Antiquae Inscriptiones Beneventanae pag. V. num. 26 e nota (a).
  10. Montfauçon, op. cit. Tom. I. tav. CCXV. fig. 1 e 2.
  11.  Id. id. tav. CCXVII. fig. 1 e 3.
  12.  Id. id. tav. CCXVIII. fig. 2; tav. CCXIX, fig. 1 e 2.
  13. Vedi Montfauçon, tav. CCXV, CCXVI, CCXVII, CCXVIII.
  14.  Id. id. op. cit. Tom. I. pag. 367 e seg. 375 e seg.
  15. Montfauçon, op. cit. Tom. II. tav. LXXIII. fig. 2.
  16.  Id. id. Tav. L.
  17. Opera e luoghi citati, e specialmente a pag. 383 e seg. del Tom. I.
  18. Op. cit. Tom. V, tav. CXC, pag. 229
  19. Supplem. all’opera citata, Tom. I. Tav. LXXXII, fig. 2.
  20. Op. cit. pag. 421.
  21. Vedi pag. 179 di quest’opera.
  22. Montfauçon, op. cit. Tom. II. pag. 140.
  23. Pomey, op. cit. pag. 172.
  24. Montefauçon, op. cit. Tom. IV, pag. 152.
  25. Montfauçon, op. cit. Tom. IV. pag. 152 a 157. — E Nieupoort, op. cit. pag. 392 e seg.
  26. Pag. 106.
  27. Sifilino, Comp. di Dione, nella vita di Traiano.
  28. Op. cit. numero 663.
  29. M. Aurelii Cassiodori Cronicon, Historiae Romanae Epitomae Amsterodami 1630 pag. 438.
  30. Op. cit. pag. 406.
  31. Lettera IV. del libro VIII.
  32. Pag. 28.
  33. Vitruvio, op. cit. lib. III. numero 16 e 19.
  34. Ferdinando Secondo, Della vita pubblica dei Romani, Napoli 1784, tom. II. pag. 55.
  35. Nieupoort, op. cit. pag. 371.
  36. Aula, op. cit. vol. 1. pag. 213.
  37. Ferdinando Secondo, op. cit. tom. II. pag. 56.
  38.  Id. id. pag. 65.
  39. Pag. 189.
  40. Vedi pag. 75.
  41. Vedi Bellori, op. cit. tav. 27 e 31.
  42. Montfauçon, op. cit. tom. IV. pag. 159.
  43. Pag. 65.
  44. Sifilino, comp. di Dione, nella vita di Traiano.
  45. Pag. 75.
  46. Pag. 191.
  47. Pag. 164 di quest’opera.
  48. Lettera IV del libro VIII.
  49. Nota 4. alla sudetta lettera di Plinio nell’edizione citata.