Parte seconda

Capitolo 7

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[p. 413 modifica]Al matrimonio del principe con la cugina Graziella, celebrato tre mesi dopo la cessazione dell’epidemia, solo i parenti e pochissimi intimi furono invitati: il vedovo era ancora in gramaglie e il chiasso d’una festa sarebbe stato inopportuno. Del resto il principe stesso spiegava che quel matrimonio era di semplice convenienza: tanto lui quanto la sposa avevano molti autunni sulle spalle, associavano quindi i loro destini senza nessuna delle fantasticherie giovanili, e solo per fare assegnamento sull’aiuto reciproco che si sarebbero prestato: la cugina aveva bisogno d’un uomo che tutelasse gli interessi di lei, che le ridesse una posizione in società, il principe trovava una nuova madre ai proprii figliuoli. Quell’unione, prevista da alcuni, fin da quando la cattiva salute della principessa aveva fatto temere per la sua vita, aspettata poi da un giorno all’altro dopo la catastrofe affrettata dal colera, riscoteva perciò l’approvazione quasi generale: il confessore, il vicario, tutti i preti che bazzicavano per la casa l’avevano giudicata conveniente e provvida. I preparativi della cerimonia nuziale furono molto modesti perchè non i soli sposi erano in lutto: non c’era quasi famiglia, dopo quella terribile epidemia, che non piangesse qualche persona cara. Benedetto Giulente aveva perduto in un giorno il padre e la madre, a Mascalucia; la principessa di Roccasciano era rimasta vedova, alla duchessa Radalì era morto uno zio, il cavaliere Giovanni Artuso; ma questa disgrazia non era stata causa di grande dolore, poichè il cavaliere, ricchissimo e senza figli, aveva lasciato in casa Radalì tutta la sua sostanza: l’usufrutto alla duchessa, la proprietà a Giovannino che aveva [p. 414 modifica]tenuto a battesimo. Doleva piuttosto alla madre che la eredità non fosse andata al primogenito, per amor del quale ella aveva sacrificato la propria vita. La soppressione dei conventi aveva già sconvolto tutti i suoi disegni, non potendo Giovannino professarsi più, e tornando al secolo; adesso l’eredità veniva a pareggiare la condizione dei due fratelli, cioè a diminuire quella del primogenito. Ella voleva bene ad entrambi, ma al duca, oltrechè bene, portava anche una specie d’istintivo rispetto, come capo della casa, come erede e continuatore del nome e della potestà ducale. Perchè la chiusura dei conventi e l’errore dello zio non disturbassero i piani di lei, bisognava che Giovannino non prendesse moglie: ella lavorava a questo scopo, lasciandolo padrone di spendere e di sbizzarrirsi a suo modo, secondando tutti i suoi gusti per la caccia, pei cavalli, per tutti i diporti, in modo che il giovane non fosse tentato di mutar vita.

Che donna Graziella avrebbe fatto da madre ai figli del principe, era frattanto fuori di dubbio. Baldassarre aveva riferito ai suoi dipendenti, e questi ripetevano dovunque i particolari delle lettere scambiate tra la sposa e la principessina. La ragazza aveva saputo a Firenze la morte della mamma, e che pianto! che convulsioni! basta dire che la direttrice del collegio s’era messe le mani in capo, non sapendo come fare. Povera signorina, aveva pure ragione! sola, lontana da casa sua «senza poterla abbracciare un’ultima volta! Mamma mia! Mamma mia!...» Bisognava leggerle, queste lettere; perchè alla Santissima Annunziata le signorine ricevevano un’istruzione comi fo; e la principessina otteneva sempre i primi premii, tanto era svegliata e studiosa. Ma finalmente, quando la madrina le mandò una ciocca di capelli della sant’anima, e il suo libro di preghiere, e il suo rosario, promettendole che il principe l’avrebbe ripresa più presto in casa e raccomandandole frattanto di non affliggerlo di più, poveretto, con quelle lettere, la padroncina si venne calmando a poco a poco: «Hai [p. 415 modifica]ragione, mia buona madrina; dimenticavo il dolore del povero babbo per pensare al mio solo; e ciò non è giusto...» E le lettere scritte al principe direttamente? «Non ti affliggere più, babbo mio; pensa come me che la santa mamma è in paradiso, e di là ci guarda tutti, e veglia su noi, e vuole che ci consoliamo perchè ella è tra i beati e noi tutti, con la grazia del Signore, un giorno la raggiungeremo....» Cosa veramente da strabiliare che una ragazza di quattordici anni scrivesse a questo modo!... E il principe le aveva dato allora la gran notizia: inconsolabile per la perdita di quella santa, egli l’avrebbe pianta fino all’ultimo giorno della propria vita; ma i suoi figli avevano bisogno di qualcuna che tenesse loro luogo di madre, e per quest’unico scopo egli accettava i consigli di tutti i parenti che lo persuadevano a riammogliarsi: sposava quindi la cugina che gli aveva dato tante prove d’affezione nella circostanza della «grande disgrazia», ed era la più adatta, nella sua qualità di parente, a compiere la delicata missione di seconda madre. La cugina, da suo canto, scrisse in coda sotto la dettatura del Padre confessore: «Mia cara figlia, da quel che t’ha detto tuo padre, tu comprendi che da ora innanzi ho più diritto di chiamarti con questo nome che il mio cuore t’ha sempre dato. La mia più grande ambizione è quella di renderti meno sensibile la mancanza della nostra santa, non di fartela dimenticare, che sarà sempre impossibile non solo a te ma a noi tutti. Stringendo ancora più i vincoli che già ci uniscono, io ti sarò sempre a fianco per vegliare su te e tuo fratello, come quella benedetta raccomandò al letto di morte. Sono impaziente di stringerti al mio cuore: se i tuoi studi non ti permetteranno di tornare per ora a casa, verremo noi a trovarti al più presto....» Passarono però molti giorni, senza che a questa lettera venisse risposta. Che cosa succedeva? La posta ne aveva fatta qualcuna delle sue? O la signorina stava poco bene? Oppure accoglieva male l’annunzio del matrimonio?... Baldassarre fece di tutto per dissipare quest’ultimo dubbio. [p. 416 modifica]Veramente egli lavorava del suo meglio per nascondere alla gente anche il malumore del principino, ma non ci riusciva, perchè Consalvo, fin dal primo annunzio delle nozze, aveva preso posizione contro la futura madrigna e il padre. Naturalmente, aspettando lo sposalizio, la cugina non veniva più a palazzo, adesso che non c’era più nessuna signora che la ricevesse; ma il principe andava da lei e voleva che il figliuolo le facesse visita; tutto fiato perduto: il principino non ci sentiva da quell’orecchio, e quando incontrava la promessa del padre in casa dei parenti, la salutava appena, rispondeva con una freddezza mortificante alle effusioni di lei che gli dava del «figlio mio» a tutto andare, o addirittura la sfuggiva, lasciando intendere l’avversione che quella donna gl’ispirava. Il principe, con grande e generale stupore, pareva non accorgersi di questo, e quasi avesse mutato carattere, quasi volesse ingraziarsi anche lui il figliuolo, largheggiava a quattrini, gli lasciava fare quel che voleva, gli comperava carrozzini e cavalli inglesi; ma Consalvo era freddo anche col padre, lo evitava, stava settimane intere lontano, in campagna, a caccia, tanto che a poco a poco si vedeva il principe gonfiare, gonfiare, gonfiare. Il maestro di casa, tanto amante della pace, se n’accorava, e lavorava a rabbonire il padroncino. Consalvo lo lasciava dire; a un certo punto gli rispondeva, freddo freddo: «Non mi seccare. Bada al tuo servizio. Non mi seccare....» Giovanotti! Giovanotti! Bisogna aver pazienza con essi, lasciarli fare a modo loro, perchè mettano giudizio! Ma la principessina? Era possibile che anche lei si voltasse contro il padre e la madrigna? Una figliuola savia, obbediente, educata alla Santissima Annunziata?...

Dopo essersi fatta aspettare quasi una settimana, arrivò finalmente la risposta della signorina. «Caro babbo, cara mamma,» diceva, «non v’ho scritto più presto perchè sono stata poco bene; una cosa da nulla, non v’inquietate; ora, grazie a Dio, posso dirvi con quanta [p. 417 modifica]gioia ho appreso ciò che fate per noi:» e così via per due pagine piene d’espressioni affettuose, fino alla chiusa che diceva: «Vostra affezionatissima e gratissima figlia, Teresa.» Scrisse anche al fratello, nello stesso senso; ma il principino, rispondendole, neppur nominò la madrigna, neppur fece un’allusione al prossimo matrimonio, come se mai ne avesse udito parlare. Due giorni prima della cerimonia, anzi, andò via con Giovannino Radalì ed altri amici, a caccia, dicendo che sarebbe rimasto fuori ventiquattr’ore; invece il giorno degli sponsali, quando il padre e la madrigna con gl’invitati andarono al municipio, egli non era ancora arrivato. Non arrivò neppur la sera, quando gli sposi tornarono dalla chiesa: uno scandalo straordinario, la servitù che mormorava, i lavapiatti sulle spine, la sposa che sorrideva per forza, Lucrezia che ripeteva ogni quarto d’ora: «Ma Consalvo? Perché non lo mandate a chiamare?...» nonostante le avessero spiegato parecchie volte che il giovanotto era in campagna, alla Piana. Il principe, un poco pallido, diceva che doveva esser capitata qualche disgrazia alla comitiva; infatti nessuno dei compagni di Consalvo era ancora tornato, e la duchessa Radalì e il duca Michele suo figlio mandavano ogni mezz’ora a casa, inquieti per il loro Giovannino. La barca capovolta, al Biviere? La carrozza ribaltata? Un fucile, Dio liberi, scoppiato?... Donna Ferdinanda era invece tranquillissima, sapeva bene che il suo protetto aveva dovuto combinar la cosa per non assistere alla cerimonia nuziale; e in cuor suo lo approvava. Bella sciocchezza, da parte di Giacomo, quella di dar a intendere che si ammogliava per non lasciar senza madre i proprii figli! I suoi figli non erano più bambini, da doverli allattare!... E poi, e poi, che grande autorità aveva esercitato su loro la madre! il principe non le aveva mai permesso d’attaccar loro un bottone! Adesso, invece, che si sarebbe visto? La pettegola cugina far da padrona in casa Francalanza!

La zitellona diceva queste cose, piano, all’orecchio di Chiara e di Lucrezia, le quali le ripetevano al marchese, [p. 418 modifica]a don Blasco; e tutti riconoscevano che Giacomo sposava Graziella unicamente perchè, da giovane, s’era messo in capo di sposarla. La madre non aveva voluto, ed egli s’era piegato, allora, alla ferrea volontà di lei; pareva anzi aver dimenticato la propria, trattando la cugina freddamente, quasi non l’avesse pensata mai, badando solo agli affari; ma appena finito di accomodarli, egli s’era messo con l’antica innamorata, e ora, dopo tanti anni, non più giovane, con due figli grandi e grossi sulle spalle, il suo primo pensiero appena libero, era quello di sposarla, vedova, invecchiata, imbruttita, pur di prendere la rivincita, pur di disfare l’opera della madre. Non l’aveva disfatta in un altro modo, eludendo le volontà che ella aveva manifestate nel testamento, spogliando i legatari e il coerede? E che restava oramai dell’opera della defunta? Raimondo non aveva anch’egli disfatto il matrimonio voluto da lei? Lucrezia che doveva restare in casa non s’era sposata?... «Strambi!... Cocciuti!... Pazzi!...» Così essi scambiavansi le stesse accuse; ma stavolta tutti erano stati d’accordo nel biasimare il principe, nel coalizzarsi contro di lui; ad eccezione del solo Priore. Gli interessi mondani, le lotte della famiglia lo lasciavano adesso molto più indifferente di prima, sul punto com’era di partire per Roma. Dopo la soppressione dei conventi tutti avevano riconosciuto, alla Curia, che il dotto e santo Cassinese doveva andare avanti in altro modo. Gli era stato offerto un vescovato, a sua scelta; ma egli, che mirava più alto, aveva chiesto di andare a Propaganda. E giusto in quei giorni, con la nomina di Vescovo in partibus, era stato chiamato alla grande Congregazione. Che gl’importava del matrimonio del fratello, del testamento della madre e di tutte le trame meschine che ordivano i suoi? A Roma egli era preceduto da una fama così chiara, da raccomandazioni tanto efficaci, che in poco tempo era sicuro di raggiungere, con la propria accortezza, i più alti gradi della gerarchia.... Come a lui, lo scioglimento delle corporazioni religiose aveva dato a don Blasco [p. 419 modifica]altri desiderii, altre ambizioni. Convertiti in bella rendita sul Gran Libro i quattrini portati via dal convento, il monaco aveva finalmente visto avverarsi il sogno della sua giovinezza: aver del suo, essere capitalista. Allora aveva quasi dimenticato l’odio contro il rivale nipote, non s’era più curato nè di lui nè degli altri. Ma l’appetito vien mangiando, dice il proverbio, e don Blasco non si contentava di quelle poche migliaia d’onze, voleva arricchire per davvero, studiava il modo di batter moneta. Per questo voleva assaggiare i beni delle Cappellanie e dei Benefizii; e vedendo che Giacomo gli dava erba trastulla e nonostante le promesse iniziava la causa per conto proprio, era stato l’anima della lega ordita contro di lui, mettendo in opera il sistema da lui adoperato contro i fratelli. Chi la fa l’aspetta, dice un altro proverbio, e il principe, che s’era fatto pagare da Raimondo e da Lucrezia per dar loro il suo appoggio, aveva dovuto chiuder la bocca allo zio perchè questi, che non aveva mai avuto peli sulla lingua, s’era messo a cantare che la faccenda della morte della principessa non era tanto liscia, e che aver costretto la «povera Margherita» a scappare a Cassone mentre stava così male ed aveva anzi i primi sintomi del colera, era stato un voler sbarazzarsi di lei, dopo averle dettato un testamento nel quale s’era fatto lasciare ogni cosa, e niente ai figli; e che la freddezza di Consalvo non era poi senza ragioni, e che.... e che.... Allora il principe aveva riconosciuto i diritti della parentela alla spartizione dei beni, e tutti s’erano placati. Placati in apparenza, perchè i rancori ribollivano sordamente. Giacomo non se la poteva prendere col monaco, per non disgustarselo, adesso che aveva quattrini, nè, per la stessa ragione, con la zia Ferdinanda; tanto meno col duca alla cui autorità di deputato ricorreva per essere assistito contro il fisco rapace. Ma sfogava contro tutti gli altri, incagnato, una furia. L’agente delle tasse, specialmente, un certo Stravuso, era il suo incubo: oltre che di ingordo, costui aveva la fama di terribile jettatore, e il principe, [p. 420 modifica]pigliandosela con lui, non lo poteva neppur nominare, dalla paura; non lo chiamava altrimenti che «Salut’a noi!», tenendo nel pugno un amuleto, un ignobile pezzo di ferro a foggia di mano che fa il segno delle corna.

— Che io parli con Salut’a noi?... — diceva allo zio, quella sera degli sponsali. — Fossi pazzo!... Fatelo andar via! Fatelo traslocare, cotesto ladro imboscato per spogliar la gente!... Non gli basta farmi pagare il 20 per cento sugli svincoli, la doppia tassa di successione fra estranei! Ma se fossimo estranei non erediteremmo! I beni vengono a noi appunto perchè i fondatori furono nostri antenati!

Il duca, che portava al cielo le nuove leggi, gli consigliava di non lagnarsi: anche dedotto il 20 per cento, il resto era tanto di guadagnato. L’importante in tutto questo, per il legislatore, era che tante proprietà e tante rendite fossero sottratte ai monaci e destinate ad impinguare la fortuna dei privati cittadini, quindi ad aumentare la pubblica prosperità. Per questo, aspettando di prender la sua parte nella divisione dei beni svincolati, egli era rimasto aggiudicatario del Carrubo e di Fontana Rossa, due feudi della Badia di San Giuliano, dei quali a giorni sarebbe entrato in possesso, e incitava il nipote a fare altrettanto, a scegliere qualche bel tenimento di terre da pagare a tanto l’anno con gli stessi frutti e da migliorare in modo da moltiplicarne il valore; ma il principe:

— Eccellenza, non posso. Il confessore non vuole. Mi ha messo uno scrupolo di coscienza; e giusto in questa circostanza solenne del mio matrimonio intendo rispettarlo. Ciò non vuol dire che Vostra Eccellenza abbia fatto male; ma i nostri casi sono diversi....

Il duca lo guardò un poco nel bianco degli occhi, come per sincerarsi se diceva sul serio o se scherzava; poi uscì nella stessa obbiezione che il principe aveva rivolta a don Blasco:

— O allora perchè rivendichi i beni delle Cappellanie? Non sono della Chiesa anche quelli? [p. 421 modifica]

— Eccellenza no, — rispose il principe. — La Chiesa ne era semplice amministratrice, secondo l’intenzione dei fondatori. Le sole rendite debbono essere convertite a scopi sacri, e di ciò siamo responsabili tutti....

Mentre essi tenevano questi discorsi, l’assenza del principino continuava a far ciarlare gli altri parenti, di nascosto alla nuova principessa, la quale si mostrava sovrappensieri, temendo, come il marito, non fosse capitato un accidente al giovanotto, e parlava di spedir messi alla Piana per appurare che cos’era successo. Nonostante l’inquietudine, ella badava al servizio, dava ordini sottovoce a Baldassarre, insisteva perchè gl’invitati riprendessero dolci e gelati, esercitando così per la prima volta l’ufficio di padrona di casa. Don Blasco non si facea pregar molto: adesso che a San Nicola c’era tanto di catenaccio, egli poteva far tardi quanto gli piaceva; e mentre masticava a due palmenti, utilizzava il suo tempo chiedendo informazioni alla gente sulle firme solvibili, giacchè anch’egli s’era messo a dar quattrini in piazza. Di tanto in tanto s’avvicinava anche al crocchio d’uomini in mezzo al quale il duca, finito di discorrere col nipote, parlava delle pubbliche faccende. La quistione che impensieriva pel momento il deputato era quella del Municipio. Le cose vi andavano male, gli amici del grand’uomo lo pregavano con insistenza di prenderne le redini, di dare questa nuova prova di affetto al paese; ma egli dichiarava che non la volontà ma la forza gli faceva difetto. Era già deputato, consigliere comunale e provinciale, membro della Camera di commercio, del Comizio agrario, presidente del consiglio d’amministrazione della Banca di Credito, consigliere di sconto alla Banca Nazionale e al Banco di Sicilia e, quasi tutto questo non bastasse, lo mettevano in tutte le giunte di vigilanza, in tutte le commissioni di inchiesta. Ad ogni nuova nomina, egli protestava che era troppo, che non aveva tempo di grattarsi il capo, che bisognava dar luogo ad altri, ma dopo una lunga e cortese discussione doveva finalmente arrendersi alle insistenze [p. 422 modifica]degli amici. Gli avversari, i repubblicani, i malcontenti gridavano contro questo accentramento di tanti uffici in una stessa persona; e giusto il duca s’era fatto forte di tale ragione per rifiutare la sindacatura. Benedetto, dopo il gran dolore delle disgrazie sofferte, ricominciava allora ad occuparsi degli affari pubblici, e insisteva presso lo zio, gli ripeteva l’invito a nome del consiglio comunale, adducendo la mancanza di persone capaci.

— Non mi darai a intendere, — rispose il deputato, — che io solo possa fare il sindaco! Perché non lo fai tu?

— Perchè io non ho i titoli di Vostra Eccellenza!

— Dimmi che accetti, e fra quindici giorni avrai la nomina.

Benedetto continuava a schermirsi, sorridendo, fingendo di non credere alla serietà dell’offerta; in cuor suo, egli non desiderava di meglio; ma una grande difficoltà lo arrestava: l’opposizione di sua moglie. Costei dimostravasi sempre più irascibile quando udiva parlare di cariche pubbliche, di uffici elettivi, di politica liberale; minacciava di far mandare ruzzoloni giù per le scale le persone che venivano a cercar di lui nella sua qualità di consigliere comunale o di presidente del Circolo Nazionale; di lacerare, prima che egli le leggesse, le carte indirizzate a suo marito. Se gli moveva tanta guerra per così poco, che avrebbe fatto sapendolo sindaco? E Benedetto, soggiogato dal timore, si schermiva contro le rinnovate offerte dello zio, il quale, come argomento irresistibile, riserbato per il colpo di grazia, gli diceva: «Il giorno che io mi ritirerò, troverai preparato il terreno....»

Mentre il deputato insisteva, e Lucrezia sparlava di suo marito con Chiara, e donna Ferdinanda sparlava del principe col marchese, e i lavapiatti facevano la corte alla nuova principessa, e don Blasco ciaramellava da un gruppo all’altro, s’udì il fracasso d’una carrozza che arrivava di carriera e tutti esclamarono:

— Consalvo!... Il principino!... [p. 423 modifica]

Baldassarre erasi precipitato ad incontrarlo. Il giovanotto aveva l’abito in assetto e gli stivaloni puliti come sul punto di andar fuori; ma al maestro di casa che gli domandava ansiosamente che cosa fosse successo:

— Sono vivo per miracolo, — rispose.

Entrato nel salone, mentre tutti gli si affollavano intorno, cominciò a narrare la storia d’un accidente complicatissimo, il suo smarrimento nel Biviere, la fame sofferta per dodici ore, il naufragio della barca che lo portava. «Gesù!... Gesù!... Santo Dio d’amore!...» esclamavano tutt’intorno; la principessa, specialmente, ripeteva ogni momento: «Ah, questa caccia!... Figlio mio!... Che paura!...» lo stesso principe mostrava di credere quella storia, e tutti, per prudenza, fingevano di rallegrarsi dello scampato pericolo; solo donna Ferdinanda increspava le labbra sottili ad un ironico sorriso, sapendo bene che il suo protetto non aveva corso pericolo di sorta.... Benedetto, frattanto, riferiva sottovoce alla moglie l’offerta della sindacatura fattagli dallo zio e il proprio rifiuto. Lucrezia si voltò a guardarlo in faccia e gli disse sul muso:

— Sempre bestia sarai?


Le era parso che quel titolo di sindaco avrebbe nobilitato in qualche modo il marito, conferendogli l’autorità, il lustro, l’importanza che non aveva; invece, dopo che il duca ottenne per Giulente la nomina, s’accorse che gli restava più Giulente di prima, una specie d’impiegato, un miserabile passacarte, un servitore del pubblico. E quando le diedero della sindachessa, arrossì come un papavero, quasi l’insultassero, quasi le intonazioni più complimentose fossero studiate e nascondessero un ironico dileggio. Ella non diede più quartiere a Benedetto; dopo averlo spinto ad accettar l’ufficio, glie ne rinfacciò l’inutilità, le noie, i pericoli; se per la moltitudine degli affari egli tornava a casa più tardi del consueto, stanco, affamato, l’accoglieva con tanto di muso, gli faceva trovare la tavola mezza sparecchiata e il [p. 424 modifica]desinare freddo; se veniva gente a chieder del sindaco, ella gridava alla cameriera: «Non c’è! Non c’è nessuno! Mandate via cotesti seccatori!...» in modo che i seccatori udissero e che passasse loro la voglia di mai più tornarci; se Giulente, ciò nonostante, riceveva quella gente, per prudenza, per necessità, ella si metteva lo scialle in testa e se ne andava dalle parenti, o dalle amiche, e cominciava a sfogarsi:

— Non ci posso più reggere! Mi par d’impazzire! Che vita d’inferno! Se avessi saputo!...

A misura che le dimostravano il suo torto e l’affezione e il rispetto di cui Benedetto la circondava, la sua avversione cresceva: ella immaginavasi d’esser maltrattata, attribuiva al marito ogni specie di torti. Giacchè i Giulente non avevano avuto concessione di feudi, lo giudicava miserabile; ma, non potendo ragionevolmente dare a intender questo, l’accusava d’avarizia. Egli la lasciava libera di spendere ciò che voleva ma, fittosi in capo che fosse avaro, la fissazione prendeva nel cervello di lei più consistenza di un fatto; e con l’aria d’una vittima rassegnata al suo destino, quasi piangendo, rifiutava di comperar nulla per sè, rinunziava agli abiti, ai cappelli, ai gioielli, andava attorno come una cameriera. Suo marito non riusciva a strapparle la spiegazione di quella sciatteria; ma al palazzo ella si nettava la bocca contro di lui, e se il principe o donna Ferdinanda le rammentavano che smania aveva avuto di sposarlo, se la prendeva con loro:

— Perchè non mi apriste gli occhi? Che ne sapevo! Toccava a voialtri avvertirmi!

— Oh! Oh! Hai dunque dimenticato tutto quello che facesti?

— Che ne sapevo! Colpa vostra che non v’ostinaste a impedirmi di commettere una pazzia!

E questa nuova idea le s’inchiodava talmente in testa, che sfogandosi coi primi venuti, lagnandosi della propria infelicità con gente a cui aveva parlato appena una volta, ella l’adduceva a propria discolpa: [p. 425 modifica]

— La mia famiglia m’ha fatto un tradimento. Questo marito non faceva per me: me l’hanno dato per forza.... sono stata sacrificata!...

Poi denigrava in altro modo Giulente, metteva in ridicolo il suo patriottismo, lo attribuiva all’ambizione o lo negava del tutto.

— Cotesto sciocco ha fatto il liberale per essere qualche cosa. Ma non è divenuto niente, ed ha fatto meno che niente. Il ferito del Volturno? Guardategli la coscia: l’ha più sana delle mie!

Diceva spesso cose più enormi, senza pudore, un poco perchè non ne comprendeva la sconvenienza, un poco perchè credeva le fosse lecito tutto. Non si levava mai prima di mezzogiorno, e per due buone ore restava discinta, con una gonna sulla camicia, il collo e le braccia nude, i piedi nudi, nelle pantofole; si mostrava così al cameriere ed al cuoco, era capace di ricevere anche qualche visita; e se Benedetto, presente, esclamava, giungendo le mani: «Ma Lucrezia? Per carità!...» ella lo guardava stupita, spalancando tanto d’occhi: «Che c’è? Sono visite di confidenza! Ho da mettermi gli abiti da ballo? Quelli che m’hai fatto venire da Parigi?...» E se egli le diceva di ordinarli pure, di spendere tutto quel che voleva, ella si stringeva nelle spalle: «Io? A che pro? Per qual Santo? Non vado più da nessuna parte, non conosco più nessuno della mia società! Risparmia, risparmia i tuoi quattrini!...»

Messo con le spalle al muro, egli perdeva talvolta la pazienza; allora ella minacciava d’andarsene via.

— Ah, la prendi su questo tono? Bada che ti pianto!... Non mi far saltare il ticchio d’andar via, perchè altrimenti non mi tratterrai neppur con gli argani!... Sai come siamo noi Uzeda, quando ci mettiamo una cosa in testa! Raimondo ha posto il mondo sottosopra per piantar sua moglie e prenderne un’altra! Giacomo aveva giurato di sposar Graziella, ed ha fatto morire quella disgraziata prima del tempo....

— Taci!... Che dici!... [p. 426 modifica]

Egli sopportava pertanto le stramberie, i capricci, le contraddizioni, i rimproveri, le ironie di lei. Ma la sorda guerra della moglie non gli noceva meno della protezione dello zio duca. Questi, che oramai non andava più alla capitale, consacrava tutto il suo tempo ai proprii affari, badava alle cose di campagna, migliorava le proprietà comprate dalla manomorta, speculava sugli appalti, si giovava del suo credito presso le amministrazioni pubbliche per rifarsi di quel che gli costava la rivoluzione. E con l’aria di consigliare Giulente, lo persuadeva a fare ciò che voleva. Ufficialmente, il sindaco era suo nipote; in fatto, era egli stesso. Non si rimoveva una seggiola, al municipio, senza la sua approvazione; ma specialmente nella nomina degli impiegati, nella concessione di lavori pubblici, nella distribuzione di incarichi gratuiti ma indirettamente o moralmente profittevoli, egli faceva prevalere la propria volontà, proteggeva i suoi adepti, fossero anche inetti, metteva avanti la gente da cui poteva sperare qualcosa in cambio, non dava quartiere a quelli del partito avverso, qualunque titolo possedessero, da qualunque parte glie li raccomandassero. Aveva l’abilità di fingersi assolutamente disinteressato, di spingere il nipote a fare ciò che egli stesso voleva come se invece non gl’importasse nulla di nulla, e il Municipio diventava così, a costo di patenti ingiustizie, di manifeste violazioni della legge, un’agenzia elettorale, una fabbrica di clienti. Per rispetto e per soggezione, sopra tutto per la speranza di raccogliere l’eredità politica dello zio, Benedetto non osava contrariarlo; se, per qualche fatto più grave degli altri, egli esitava un momento, il duca vinceva quegli scrupoli, o adducendogli le necessità della lotta politica, o impegnandosi a riparare più tardi, o facendogli semplicemente comprendere che, in fin dei conti, a quel posto l’aveva messo lui, perciò conveniva che facesse ciò che a lui piaceva. Per compenso, gli garantiva l’appoggio del governo e della prefettura, lo sosteneva in consiglio, tesseva i suoi elogi perfino in famiglia, tenendo fronte a [p. 427 modifica]Lucrezia, che lo vilipendeva dinanzi a tutti. Questa, per far la corte allo zio, rispondeva che un po’ di bene suo marito lo faceva solo quando seguiva i consigli di lui; viceversa, da sola a solo con Benedetto, gli rinfacciava la cieca obbedienza prestata al duca.

— Bestia! Sciocco! Stupido! Non capisci che ti spreme come un limone? Che vuol prendere la castagna dal fuoco senza scottarsi?... Almeno, sapessi farti dare la tua parte!

E gli consigliava di mettersi nei loschi affari del deputato, di vendere la propria autorità, di farsi pagare gli atti che era in dovere di compiere; e ciò senza scrupoli, come una cosa naturalissima, come avevano fatto i Vicerè al tempo della loro potenza. Così, un po’ per la moglie, un po’ per lo zio, Giulente commetteva ingiustizie d’ogni sorta rifiutandone il prezzo, metteva a rischio la sua bella riputazione di liberale disinteressato, di «ferito del Volturno.» Ma l’ambizione lo accecava, egli voleva rappresentare una parte in politica, e il Parlamento era la meta per la quale sopportava adesso il municipio. Il giorno in cui il duca si sarebbe ritirato, egli voleva sostituirlo; tutta la parentela uccellava i quattrini messi assieme dal deputato, egli aspirava all’eredità politica; il seggio alla Camera sarebbe stato la conferma, il riconoscimento del suo patriottismo, della sua capacità. Per tanto, il disprezzo di sua moglie cresceva: ella non capiva che si potesse esercitare un ufficio pubblico pel piacere di esercitarlo, senza specularci sopra, perdendoci il tempo, trascurando per esso ogni altra occupazione, non badando agli affari proprii, non andando mai in campagna, lasciando fare ai castaldi e agli affittaiuoli. Quasi che potesse permettersi questo lusso! Quasi fosse il principino di Mirabella!...


Consalvo, sì, poteva fare e faceva quel che gli piaceva. Non solo egli non badava agli affari di casa — chè suo padre ci pensava per lui — ma non stava [p. 428 modifica]in casa se non per dormire — quando ci dormiva. Lasciata la camera che aveva occupata al ritorno dal convento, s’era accomodato un quartierino al primo piano, dalla parte del secondo cortile, sfondando muri, murando finestre, aprendo una nuova scala, disordinando ancora un altro poco la pianta del palazzo. Il principe l’aveva lasciato fare. Non contento di starsene così interamente segregato dal resto della famiglia, con persone di servizio esclusivamente addette alla sua persona, adesso desinava solo, dichiarando che le ore di suo padre non gli convenivano. E il principe si piegava anche a questo, con grande stupore di quanti conoscevano la sua prepotenza, il suo bisogno d’assoluto comando. Il giovanotto faceva la bella vita: cavalli, carrozze, caccia, scherma, giuoco ed il resto. Finito, dopo l’incendio del Sessantadue, il Casino dei Nobili, egli aveva fondato, insieme con qualche dozzina di compagni, un Club che era la risurrezione più elegante e più ricca dell’antica istituzione: quantunque solo i nobili autentici vi fossero ammessi, Consalvo vi aveva ficcato due o tre giovanotti che non appartenevano alla casta, ma gli facevano da mezzani. Accordava la sua protezione e la sua amicizia solo a quelli che lo servivano, che lo ammiravano, che gli facevano la corte. Come al Noviziato, anche adesso derideva i meno nobili e meno ricchi di lui: un motivo di cruccio contro suo padre era appunto l’avarizia di costui che si lasciava prender la mano dai nuovi arricchiti. Il lusso esteriore degli Uzeda, che prima del Sessanta pareva straordinario, adesso cominciava ad esser agguagliato se non superato dai nuovi arricchiti, e mentre a palazzo i mobili di cinquant’anni addietro cadevano a pezzi e le livree del secolo passato servivano al pasto delle tignole, c’era gente che spendeva un occhio del capo a metter su case ed equipaggi col gusto moderno. Ma agli occhi del principe la vecchiaia dei mobili e delle livree era come un altro titolo di nobiltà; e se tutti tenevano adesso il guardaportone, mentre vent’anni addietro c’era in città [p. 429 modifica]solo quello di casa Uzeda, chi aveva nel vestibolo la rastrelliera?... Del resto, Consalvo lavorava per conto suo a distruggere gli effetti della spilorceria paterna. Quando, dall’alto di un breack o d’uno stage, attillato negli abiti venuti apposta da Firenze, guidava come il più esperto cocchiere un tiro a quattro, fermandosi per far salire gli amici che incontrava lungo la via, avanzando poi tutti gli altri equipaggi, frustando come i suoi antenati i cocchieri che osavano contrastargli il passo, la gente si fermava ad ammirare, a ripetere il suo nome e il suo titolo con un senso d’alterezza, quasi un poco del suo lustro si riversasse su chi poteva salutarlo, su chi lo conosceva almeno di nome, sulla stessa città che gli aveva dato i natali. Se egli comperava o vendeva una pariglia di cavalli, se mandava via o riprendeva un cocchiere, se vinceva o se perdeva al giuoco, le notizie di questi avvenimenti facevano le spese delle conversazioni; la sua antipatia per la madrigna gli era ascritta generalmente a lode, spiegata com’era col rispetto da lui portato alla memoria della madre; tutti avevano interesse e premure di dargli moglie, e di tanto in tanto la voce d’un possibile matrimonio circolava per ogni dove, finchè, ripetuta dinanzi a lui, lo faceva scoppiare in una risata. Per ora egli voleva divertirsi; ci sarebbe poi stato tempo ad incatenarsi. E le sue visite assidue a questa od a quella signora, i vistosi regali che faceva alle cantanti ed alle attrici spiegavano la sua risposta: tornavano per Pasqualino Riso i bei tempi del contino Raimondo: il padroncino gli faceva guadagnare il pane.

Le sue gesta avevano anche un altro campo, meno elegante, ma altrettanto famoso. Insieme con gli amici più scapestrati, aveva combinato una compagnia che era, la notte, il terrore di mezza città. Armati di stocchi, di rivoltelle o anche di semplici coltelli, portavano a spasso le ciarpe d’infima classe, cantando a squarciagola, spegnendo i fanali del gas, attaccando briga coi passanti, facendo aprire per forza, a furia di schiamazzi e di sassate ai vetri, le taverne e le case pubbliche, giocando [p. 430 modifica]al tocco o a briscola coi bertoni, ordinando cene che finivano con la rottura di tutte le stoviglie: i padroni li lasciavano sbizzarrire perchè, se facevano danni, sapevano anche risarcirli. Certe volte, però, per capriccio, pel gusto di commettere un sopruso, per esercitare l’ereditaria prepotenza dei Vicerè, il principino non voleva pagare lo scotto, o lo pagava a legnate; e, mentre profondeva i quattrini con le donne, era capace di portar via a certe povere diavole, per spasso, i pochi soldi che avevano in tasca — salvo a compensarle un’altra volta — lasciandole intanto piangenti o vomitanti un sacco di sozzure che lo facevano ridere a crepapelle.

Spesso scendeva con la sua comarca al porto, andava a far baccano nelle taverne dove i marinai inglesi s’ubbriacavano come bruti: egli saliva sopra una tavola, prendeva la parola senza soggezione, predicava la regola di San Benedetto, ripeteva le sentenze politiche dello zio duca e di Giulente; senza sapere una parola d’inglese teneva lunghi discorsi, serio serio, ai marinai, foggiando per proprio uso e consumo una lingua che nessuno intendeva; la cosa spesso finiva con una partita di box e relative ammaccature di costole e rotture di stoviglie... Se lo avesse visto Frà Carmelo? il fratello appariva di tanto in tanto a palazzo, sempre più magro e stralunato, per ricantare il consueto: «Me n’hanno cacciato!... Me n’hanno cacciato!...» Non gli strappavano di bocca nient’altro. Quando nelle sue escursioni notturne Consalvo andava dalle parti di San Nicola, lo incontrava immancabilmente, errante per le vie del quartiere come un’anima in pena, o fermo a considerare la massa scura del convento; il principino, alterando la voce, gli dava la baia, lo chiamava: «Padre Priore!... Padre Abate!... Dove sono i porci di Cristo?...» tra le risa della comitiva.

Egli ne era l’anima, il capo riconosciuto e obbedito. Giovanni Radalì veniva spesso con lui; ma quantunque ora fosse libero, ricco e barone, non aveva l’umore costante: talvolta faceva pazzie straordinarie, tal altra [p. 431 modifica]frenava i compagni; più spesso, prendendo parte ai bagordi, aveva la ciera funebre, un riso falso. Di tanto in tanto scompariva, se ne andava ad Augusta, nelle terre lasciategli dallo zio, donde nessuno riusciva a scovarlo, se egli stesso, mutata fantasia, non si decideva a tornare. Allora Consalvo lo trascinava ai bagordi.

Una notte, per quistione di donne, la banda venne alle mani con una comitiva di popolani, di barbieri, di sensali; piovvero le legnate, luccicarono i coltelli, ma per buona sorte, sopravvenute le guardie, tutti scomparvero. I bastonati, i mariti canzonati, le vittime della loro prepotenza non osavano ricorrere: se qualcuno minacciava di querelarsi, la gente lo dissuadeva, considerando chi erano quei signori: il barone Radalì, il principino di Mirabella, il marchesino Cugnò! E la polizia, se ricorrevano ad essa, faceva accomodar la cosa: qualche biglietto di banca, e tutti lesti. Ma il prestigio di quei nomi era tale che pochi osavano lagnarsi; la più parte si stimavano onorati di competere con quei signori, li ammiravano, parlavano di loro col massimo rispetto. In carnevale, la mascherata favorita dei monelli, dei facchini, era quella del Barone: sui calzoni a sbrendoli e sulle camicie rattoppate, un vecchio abito a coda di rondine, un enorme colletto di carta, una tuba di cartone alta quanto una canna di camino: andavano così a crocchi chiamandosi scambievolmente, ad alta voce, fra le risa dei passanti, col nome dei baroni per davvero: «Addio, Francalanza!... Radalì, come stai?... Andiamo al teatro, marchese!...»

Senza quei nobili l’operaio come avrebbe fatto? il loro lusso, i loro piaceri, le loro stesse pazzie erano altrettante occasioni perchè la gente minuta lavorasse e buscasse qualcosa! E il principino spendeva e spandeva, regalmente, come se avesse le mani bucate. Suo padre gli pagava i cavalli e le carrozze, i fucili e i cani, e pei minuti piaceri gli passava cento lire il mese; ma Consalvo, alle volte, perdeva in una notte la pensione dell’anno intero; e il domani ricorreva a tutti gli usurai [p. 432 modifica]della città, i quali, contro la firma d’una cambialina, gli davano quel che voleva. Quanto ai parenti, essi o lo incoraggiavano a scialare, o non si occupavano di lui, o erano disarmati dalla sua politica, giacchè egli sapeva prenderli pel loro verso, secondando le fisime di ciascuno. Solo Benedetto comprendeva che quella vita doveva costargli molto e sospettava qualcosa dei debiti; ma il giovanotto lo tirava dalla sua, solleticandolo nella sua vanità di patriotta, di ferito del Volturno, di futuro deputato; e del resto se Benedetto manifestava le proprie paure alla moglie perchè questa mettesse sull’avviso il principe:

— Di che ti mescoli? — saltava su Lucrezia. — Lascialo fare! Credi che mio nipote sia un pezzente, da non potersi permettere questo lusso? Può pagarli i suoi debiti, se mai!

Donna Ferdinanda da canto suo andava in estasi per la riuscita del suo protetto e, dalla soddisfazione, gli regalava di tanto in tanto qualche biglietto da cinque lire che il giovanotto, dopo essersi profuso in ringraziamenti, lasciava come mancia al cameriere del Caffè di Sicilia. Il duca, ingolfato negli affari, aveva qualche sentore dei pasticci del pronipote; ma bastava a questi dargli del salvatore del paese, del grande statista, o profetargli un posto al ministero, perchè il deputato si chetasse. Più tardi, per ingraziarsi meglio donna Ferdinanda, Consalvo le dava ragione se l’udiva gridare contro il fedifrago; e in questo era sincero, perchè, senza mescolarsi di politica, egli parteggiava pel governo assoluto, protettore dei signori, sciabolatore della canaglia. Questi sentimenti però non gl’impedivano di prender con le buone lo zio Giulente, al quale non dava tuttavia dell’Eccellenza, ma del semplice voi; e più tardi conveniva con la zia Lucrezia se costei lagnavasi di quella bestia del marito. Così, nonostante la freddezza pel padre, seguiva l’esempio di lui, pigliando ciascuno pel suo verso, secondando le fissazioni di tutti gli Uzeda. La zia Chiara già parlava d’adottare il bastardo della [p. 433 modifica]cameriera: egli approvava questa risoluzione. Lo zio Ferdinando, credutosi affetto da tutte le malattie quando vendeva salute, adesso che deperiva visibilmente credeva invece d’esser sanissimo e non poteva soffrire che la gente gli consigliasse di chiamare un dottore: Consalvo si rallegrava con lui per l’ottima ciera.... Quanto a don Blasco, da un pezzo non si faceva più vedere al palazzo. Dacchè stava per casa sua, amministrando i proprii capitali, la sua smania di criticar tutto e tutti, in famiglia, era finita: quando capitava tra i parenti, discorreva un poco del più e del meno e andava via presto. Per non star solo, in casa, s’era messo dentro la Sigaraia, suo marito e le sue figlie; talchè era servito di tutto punto, non aveva più bisogno di nulla. E, da un certo tempo, era diventato addirittura irreperibile. «Che cosa fa lo zio?... Che cosa fa don Blasco?...» ma nessuno ne sapeva niente. Il principe, il marchese, Lucrezia, un po’ anche Benedetto, cercavano d’ingraziarselo, per via dei quattrini che doveva aver da parte; ma egli li sfuggiva tutti, e se li udiva alludere, sorridendo, alla sua ricchezza, ripigliava a vociare come un tempo: «Che ricchezze e povertà?... Che....» e giù male parole di nuovo conio.

Un bel giorno, però, Benedetto, leggendo nel Foglio d’Annunzii della prefettura l’elenco degli ultimi aggiudicatarii dei beni ecclesiastici, trovò il nome di Matteo Garino.

— Non si chiama così il marito della Sigaraia? — domandò alla moglie.

— Credo... Perché?

— Ha comprato il Cavaliere, una delle migliori terre dei Benedettini.

Senza esitare un istante, Lucrezia esclamò:

— Garino? Questo è lo zio don Blasco che l’ha comprato!...

Infatti di lì a poco la verità si seppe; Garino era il prestanome di don Blasco; questi aveva messo fuori i quattrini ed era già entrato in possesso del latifondo... [p. 434 modifica]Un monaco, un monaco benedettino, uno che aveva fatto voto di povertà, comprare una terra del suo stesso convento, calpestare in tal modo la legge divina?... Lo scandalo fu straordinario: donna Ferdinanda disse vituperii del fratello; il duca sorrise scetticamente, rammentando le furibonde minaccie di dannazione eterna eruttate dal Cassinese; lo stesso principe, quantunque non volesse inimicarsi uno zio che comprava di tali poderi, scrollava il capo; e tutti i cattolici zelanti, i partigiani della Curia, i monaci a spasso, i borbonici un tempo amicissimi di don Blasco gli si misero contro; ma a chi gli riferiva le voci malevole egli gridava:

— Sissignore, il Cavaliere è stato comprato per mio conto: e poi? chi ci trova da ridire? Mia sorella che ha fatto l’usuraia per cinquant’anni? Mio nipote che ha rubato tutti i suoi? Sono questi gli scrupolosi e i timorati?... Io non ho scrupoli di sorta! Se non avessi comprato io il Cavaliere, l’avrebbe preso un altro: al convento non restava di sicuro, per la buona ragione che il convento non c’è più!... Anzi, in mano mia, è come se fosse di San Nicola; a segno che ho fatto restaurare la cappella, e vi dico la messa tutti i giorni, quando salgo lassù: che se andava in mano d'altri, a quest’ora l’avrebbero ridotta a uso di porcile!...

La messa, veramente, egli la diceva di tanto in tanto, perchè aveva molto da fare: dissodava la chiusa, strappava vecchie piante, scavava un pozzo, ingrandiva la fattoria trasformandola in casina di villeggiatura, spostava il muro di cinta arrotondando a modo suo i confini; doveva quindi stare con tanto d’occhi aperti sugli zappatori e sui muratori perchè non lo rubassero. In campagna, per esser pronto ad esporsi all’acqua ed al vento, indossava una giacca corta da cacciatore e portava gli stivaloni fino a mezza gamba; tornato in città, smise la tonaca e lo scapolare, ma si compose un abito nero, da ministro protestante, col panciotto abbottonato fino in cima e il colletto clericale. Per tanto, disapprovava quei due o tre antichi suoi compagni che [p. 435 modifica]s’erano spogliati del tutto, dandosi senza riguardo alla vita del secolo, come il sanculotto Padre Rocca; o quelli che, senza smetter l’abito, davano da ciarlare alla gente con la loro condotta, come Padre Agatino Renda che stava tutto il giorno in casa della vedova Roccasciano, giocando mattina e sera. Padre Gerbini se n’era andato a Parigi, dov’era stato fatto rettore della Maddalena; altri, rimasti in città, facevano la vita dei preti; ma don Blasco proponeva a tutti sè stesso come modello. Frà Carmelo, che, come dal principe, veniva spesso anche da lui, pareva non si fosse accorto del mutamento di Sua Paternità, e ripeteva con gesti disperati il suo eterno ritornello: «Me n’hanno cacciato!... Me n’hanno cacciato!...» Don Blasco gli dava qualche soldo e gli offriva da bere, confortandolo con belle parole; ma il maniaco, dopo bevuto, ragionava meno, cominciava a prendersela con gli indiavolati che avevano spogliato il convento:

— Assassini e ladri! Ladri e assassini! il più gran convento del regno!... E quegli altri ladri che si son prese le sue proprietà! All’inferno! All’inferno, scomunicati....

Una volta, delirante più del solito, si mise in ginocchio, declamando, con gran gesti di croce:

— In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo! Vi scongiuro per parte di Dio!... Restituite il maltolto a San Nicola!... Ladri!... Schifosi!... Siete cristiani o turchi?... Pensate all’anima!... Fuoco d’inferno!...

Don Blasco, perdendo finalmente la pazienza, lo prese per una spalla e lo spinse fuori:

— Va bene, va bene, abbiamo inteso.... ma per adesso vattene, che ho da fare....

E sbattutogli l’uscio sul muso mentre sopravveniva donna Lucia:

— Comincia a rompermi la divozione, questo vecchio pazzo!... Se torna un’altra volta, buttatelo giù dalle scale, avete capito?...