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420 | I Vicerè |
gliandosela con lui, non lo poteva neppur nominare, dalla paura; non lo chiamava altrimenti che «Salut’a noi!», tenendo nel pugno un amuleto, un ignobile pezzo di ferro a foggia di mano che fa il segno delle corna.
— Che io parli con Salut’a noi?... — diceva allo zio, quella sera degli sponsali. — Fossi pazzo!... Fatelo andar via! Fatelo traslocare, cotesto ladro imboscato per spogliar la gente!... Non gli basta farmi pagare il 20 per cento sugli svincoli, la doppia tassa di successione fra estranei! Ma se fossimo estranei non erediteremmo! I beni vengono a noi appunto perchè i fondatori furono nostri antenati!
Il duca, che portava al cielo le nuove leggi, gli consigliava di non lagnarsi: anche dedotto il 20 per cento, il resto era tanto di guadagnato. L’importante in tutto questo, per il legislatore, era che tante proprietà e tante rendite fossero sottratte ai monaci e destinate ad impinguare la fortuna dei privati cittadini, quindi ad aumentare la pubblica prosperità. Per questo, aspettando di prender la sua parte nella divisione dei beni svincolati, egli era rimasto aggiudicatario del Carrubo e di Fontana Rossa, due feudi della Badia di San Giuliano, dei quali a giorni sarebbe entrato in possesso, e incitava il nipote a fare altrettanto, a scegliere qualche bel tenimento di terre da pagare a tanto l’anno con gli stessi frutti e da migliorare in modo da moltiplicarne il valore; ma il principe:
— Eccellenza, non posso. Il confessore non vuole. Mi ha messo uno scrupolo di coscienza; e giusto in questa circostanza solenne del mio matrimonio intendo rispettarlo. Ciò non vuol dire che Vostra Eccellenza abbia fatto male; ma i nostri casi sono diversi....
Il duca lo guardò un poco nel bianco degli occhi, come per sincerarsi se diceva sul serio o se scherzava; poi uscì nella stessa obbiezione che il principe aveva rivolta a don Blasco:
— O allora perchè rivendichi i beni delle Cappellanie? Non sono della Chiesa anche quelli?