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424 | I Vicerè |
sinare freddo; se veniva gente a chieder del sindaco, ella gridava alla cameriera: «Non c’è! Non c’è nessuno! Mandate via cotesti seccatori!...» in modo che i seccatori udissero e che passasse loro la voglia di mai più tornarci; se Giulente, ciò nonostante, riceveva quella gente, per prudenza, per necessità, ella si metteva lo scialle in testa e se ne andava dalle parenti, o dalle amiche, e cominciava a sfogarsi:
— Non ci posso più reggere! Mi par d’impazzire! Che vita d’inferno! Se avessi saputo!...
A misura che le dimostravano il suo torto e l’affezione e il rispetto di cui Benedetto la circondava, la sua avversione cresceva: ella immaginavasi d’esser maltrattata, attribuiva al marito ogni specie di torti. Giacchè i Giulente non avevano avuto concessione di feudi, lo giudicava miserabile; ma, non potendo ragionevolmente dare a intender questo, l’accusava d’avarizia. Egli la lasciava libera di spendere ciò che voleva ma, fittosi in capo che fosse avaro, la fissazione prendeva nel cervello di lei più consistenza di un fatto; e con l’aria d’una vittima rassegnata al suo destino, quasi piangendo, rifiutava di comperar nulla per sè, rinunziava agli abiti, ai cappelli, ai gioielli, andava attorno come una cameriera. Suo marito non riusciva a strapparle la spiegazione di quella sciatteria; ma al palazzo ella si nettava la bocca contro di lui, e se il principe o donna Ferdinanda le rammentavano che smania aveva avuto di sposarlo, se la prendeva con loro:
— Perchè non mi apriste gli occhi? Che ne sapevo! Toccava a voialtri avvertirmi!
— Oh! Oh! Hai dunque dimenticato tutto quello che facesti?
— Che ne sapevo! Colpa vostra che non v’ostinaste a impedirmi di commettere una pazzia!
E questa nuova idea le s’inchiodava talmente in testa, che sfogandosi coi primi venuti, lagnandosi della propria infelicità con gente a cui aveva parlato appena una volta, ella l’adduceva a propria discolpa: