I Suppositi (prosa)/Atto quinto
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ATTO QUINTO.
SCENA I.
EROSTRATO.
Questa pur gran sciagura è stata, che prima che possuto abbia ritrovare Erostrato, così scioccamente nel vecchio padron mio traboccato mi sia, dove mi è convenuto a forza mostrare di non conoscerlo, e contendere con lui, e rispondergli ancora più d’una ingiuriosa parola; tal che, accada quel che vuole di questa cosa, non sarà mai ch’io non l’abbia grandissimamente offeso, e che egli in perpetuo non mi voglia male. Sì che io delibero, se ben dovessi intrare in casa di Damone, parlar con Erostrato incontinente, e rinunziarli il nome e li panni suoi, e di qui fuggirmi più presto che mi sia possibile; nè fin che Filogono viva, mai più ritornare nella sua casa, dove da fanciullo di cinque anni fino a questa età allevato mi sono. Ma ecco Pasifilo, a tempo attissimo per andare colà dentro a fare ad Erostrato sapere ch’io ho bisogno parlargli.
SCENA II.
PASILIFO, EROSTRATO.
Pasifilo. (Due buone ed a me gratissime novelle mi sono state referite: l’una, che Erostrato apparecchia per questa sera un bellissimo convito; l’altra, che egli mi cerca per tutto. Per tôrgli fatica che più non vada per ritrovarmi intorno, e perchè dove copiosamente si mangia e di buono, non è in questa terra chi più di me vi debba intravenire, io vado per vedere se gli è a casa. Ma eccolo, per dio.)
Erostrato. Pasifilo, fammi un piacere, se non ti grava.
Pasifilo. Chi mi può comandare più di te, che per amor tuo intrarei nel fuoco? Che ho a fare?
Erostrato. Va lì alla casa di Damone, e batti, e dimanda Dulipo, e digli...
Pasifilo. A Dulipo io non potrò parlare, io ti avviso.
Erostrato. E perchè?
Pasifilo. È in prigione.
Erostrato. Come in prigione! e dove?
Pasifilo. In un pessimo luogo, qui, nella casa del padron suo.
Erostrato. Che ne sai tu?
Pasifilo. Mi vi son ritrovato.
Erostrato. E questo è vero?
Pasifilo. Così non fusse.
Erostrato. Sai tu la causa?
Pasifilo. Non ti curare più oltra: bástiti essere certo che egli è preso.
Erostrato. Pasifilo, io voglio che tu mel dica, se mai tu speri avere da me piacere.
Pasifilo. Deh va, non mi astringere ch’io te lo dica: e che tocca a te di saperlo?
Erostrato. Assai, e più che non ti pensi.
Pasifilo. E assai, e più che non ti pensi, tocca ad altri ancora ch’io lo taccia.
Erostrato. Ah, Pasifilo, è questa la fede ch’io ho in te? son queste l’offerte che tu m’hai fatte?
Pasifilo. Avess’io più presto digiunato oggi, che esserti venuto innanzi!
Erostrato. O che tu me lo dica, o che tu faccia conto che questa porta stia sempre per te chiusa.
Pasifilo. Voglio, prima che la nimicizia tua, quella di tutti gli uomini del mondo. Ma se odi cosa che ti dispiaccia, non ne colpare1 altri che te.
Erostrato. Non è che2 mi possa aggravare più che ’l male di Dulipo; non il mio proprio ancora: sì che non ti pensare potere peggior novella dirmi di quella che detta già m’hai, che egli sia preso.
Pasifilo. Poichè tu pur me lo comandi, ti dirò il vero. È stato ritrovato che si giacea con Polimnesta tua.
Erostrato. Aimè! Damon l’ha saputo?
Pasifilo. Una vecchia gliel’ha accusato; il quale subito l’ha fatto prendere, e così la nutrice ancor, che n’era consapevole ed adiutrice; ed amendua ha fatto porre in luogo, dove faranno de’ peccati lor durissima penitenzia.
Erostrato. Pasifilo, entra in casa, e va nella cucina, e fa cuocere e disporre quelle vivande secondo il parer tuo.
Pasifilo. Se m’avessi fatto giudice de’ savî,3 tu non mi davi officio che più secondo il mio appetito fusse. Io vi vo di botto.
SCENA III.
EROSTRATO solo.
Più presto che mi è stato possibile, levato m’ho costui da canto, perchè non veda le lagrime e non oda li sospiri che nè più gli occhi miei nè ’l petto mio richiudere ponno. Ah maligna fortuna! li mali, che dispensati a parte a parte fra molti anni sarebbono stati a fare un uom miserrimo sufficienti, tutti insieme raccolti da due ore in qua me gli hai versati in capo! Nè sono al fine ancora; che già mi preveggio molto maggiori di questi, infiniti e memorabili, apparecchiarsi. Tu, il padron mio che nella sua più verde età non uscì mai di Sicilia, ora hai nella più decrepita sin a Ferrara voluto condurre; e questo giorno appunto, quando meno era il bisogno nostro! Tu gli hai cresciuti e minuiti e temperati così ben i venti, che nè prima di oggi, nè dopo tre giorni o quattro n’ha possuto giungere! Nè ti bastava avermi gettato questo laccio ne’ piedi, se ancora non facevi l’amorosa trama del giovene Erostrato insiememente discoperta riuscire? Tu l’hai tenuta4 già due anni sin a quest’ora occulta, per riserbarti a questo scelerato giorno a rivelarla. Che debb’io, ah lasso! che posso fare io? Più non è tempo da immaginare astuzie. Troppo ogn’ora, ogni attimo è periculoso, che dare si differisca ad Erostrato soccorso. Bisogna finalmente ch’io vada a ritrovare il padron mio Filogono, e che a lui senza una minima bugía tutta l’istoria narri, acciò ch’egli alla vita del misero figliuolo con súbito rimedio provvegga. Così è il meglio; così farò dunque, avvengachè certissimo sia, che estremo supplizio me ne abbia a succedere. L’amore ch’al padron giovene io porto, e le ubbligazioni onde io gli sono astretto, ricerca che salvare la sua vita con mio danno grandissimo non dubiti. Ma che? anderò io cercando Filogono per la terra, o pur attenderò se qui ritorni? S’egli di nuovo mi vede nella via, alzerà la voce, nè patirà di udire cosa ch’io dica; e si radunerà d’intorno la turba, e non piccol tumulto. Sì che, meglio è ch’io lo aspetti alquanto; e quando non torni, l’andarò poi a ritrovare.
SCENA IV.
PASIFILO, EROSTRATO.
Pasifilo. Facciasi pur, ma non si ponga al fuoco finchè non siamo per intrare a tavola, — Ogni cosa va per ordine, ma s’io non mi vi trovavo, sarebbe un gran scandalo accaduto.
Erostrato. E che cosa accadea?
Pasifilo. Dalio volea porre in un medesimo schidone a un tempo al fuoco li tordi con la lonza; avendo poca considerazione che questa tarda un pezzo, e quelli súbito si cuocono.
Erostrato. Deh, fusse questo il maggior scandolo che accadesse.
Pasifilo. E de’ duo mali non si potea fuggire l’uno. S’io gli avessi lasciati a par di quella, sì sarebbono bruciati e strutti: se gli traessi prima, li mangiaressimo o freddi o mal cotti.
Erostrato. Tu hai auto buon consiglio.
Pasifilo. Io anderò, se vuoi, a comprare de li naranci e de l’ulive, chè nulla valerebbe questo convito senza.
Erostrato. Niente ci mancarà; non ti dubitare.
Pasifilo. Costui, doppo che la cosa di Dulipo ha intesa, è tutto fantastico e bizzarro; ha tanto martello, che si crepa: ma abbilo, e crepi quanto vuole; pur ch’io ceni questa sera in casa sua, d’altro non mi cale. Ma non è quel Cleandro, che viene in qua? Or bene, in capo gli porremo il cimiero de le corna. Senza dubbio Polimnesta sarà sua; chè Erostrato, per quel che di Dulipo ha da me saputo, non la dimanderà, ne vorrà più.
SCENA V.
CLEANDRO, FILOGONO, PASIFILO e LICO.
Cleandro. Ma come mostrerai tu che costui non sia Erostrato, essendoci la publica presonzione in contrario? e come, che tu sia Filogono di Catania, quando questo altro col testimonio del simulato Erostrato lo nieghi, e che sia quello esso pertinacissimamente contenda?5
Filogono. Qui voglio in prigion costituirmi, e súbito si mandi in Catania (e son contento che a mie spese ancora), e facciasi venire due o tre di fè degni, li quali di Filogono e di Erostrato vera cognizione abbiano: e stiamo al giudicio loro, s’io sono o se pur quell’altro è Filogono; e così, se egli è Erostrato o se pur è Dulipo mio servo quest’altro audacissimo ribaldo.
Pasifilo. (Io voglio salutarlo.)
Cleandro. Questa sarà via lunga e di gran spesa, ma necessaria, non ce ne vedendo io alcuna altra migliore.
Pasifilo. Dio ti dia contento, padron mio singulare.
Cleandro. E a te dia quel che meriti.
Pasifilo. Mi darà la grazia tua e da godere in perpetuo.
Cleandro. Ti darà un laccio che t’impicchi, ghiotto, ribaldo che tu sei.
Pasifilo. Ch’io sia ghiotto ti confesso, ma ribaldo no: hai torto a dirmi così, che servitor ti sono.
Cleandro. Nè per servitor nè per amico ti voglio.
Pasifilo. Che t’ho fatto io?
Cleandro. Va alle forche, perfido traditore.
Pasifilo. Ah Cleandro! pianamente.
Cleandro. Io te ne pagherò, e renditi certo, imbriaco, gaglioffo.
Pasifilo. Io non so di averti offeso.
Cleandro. Te lo farò sapere ben io a tempo: lévamiti dinanzi, manigoldo.
Pasifilo. Cleandro, io non son però tuo schiavo.
Cleandro. Tu ardisci aprir la bocca, assassino? Io ti farò...
Pasifilo. Che diavolo! quando ho ben sofferto e sofferto, che mi farai tu?
Cleandro. Che ti farò? s’io non guardassi, poltron...
Pasifilo. Io sono uomo da bene quanto tu.
Cleandro. Tu ne menti per la gola, impiccato.
Filogono. Ah! non correre a furia.
Pasifilo. Chi mi vuol battere?
Cleandro. Io ti giungerò da tempo; lascia lascia...
Pasifilo. Orsù, sia con Dio: io non voglio stare a contendere.
Cleandro. Va pur: s’io non te ne pago, mutami nome.
Pasifilo. Che diavolo mi puoi tu fare? Io non ho robba un tratto,6 ch’io tema che tu mi ci muova lite.
Filogono. Tu sei intrato in collera.
Cleandro. Questo tristo... Ma lasciamo andare; ritorniamo al fatto nostro. Non cessarò, ch’io lo farò7 impiccare, come merita.
Filogono. Tu sei turbato, e mi darai mala udienza.
Cleandro. No no; dimmi pur il fatto tuo.
Filogono. Io dico che si mandi in Catania, e che si faccia...
Cleandro. Sì sì, ho inteso questo; ed è necessario far così. Ma come è tuo servo colui, e donde l’avesti? informami del tutto pianamente.8
Filogono. Ti dirò. Al tempo che da gl’infideli Otranto fu preso...
Cleandro. Ahimè! tu mi ricordi i dolor miei...
Filogono. Come?
Cleandro. Chè allora io uscî di quella terra, ch’è la patria mia, e vi persi tanto, che io non spero mai più racquistarlo.
Filogono. Me ne duole.
Cleandro. Séguita.
Filogono. In quel tempo, alcuni Siciliani nostri che con tre buone armate galée scorreano il mare, ebbero spia d’un legno de’ Turchi, che dalla presa città con ricchissima preda verso Valona si ritornava.
Cleandro. E forse ve n’era una buona parte del mio.
Filogono. Ed alla volta di quella se n’andorno, e furno alle mani seco, e lo presero finalmente, ed a Palermo, onde erano egli, se ne ritornorno; e fra le altre cose che vi posero in vendita, vi aveano costui, allora fanciullo di cinque in sei anni.
Cleandro. Uno de la medesima età, ah lasso! in Otranto lasciai.
Filogono. E ritrovandomi io qui, e piacendomi l’aspetto, ventiquattro ducati lo comprai.
Cleandro. Era il fanciullo turco, o i Turchi pur di Otranto lo avevano rapito?
Filogono. Eglino pur di quella terra lo aveano tolto: ma che monta questo? una volta lo comprai de’ miei danari.
Cleandro. Non te lo domando a questo effetto. Deh, fusse egli quello ch’io vorrei!
Filogono. Che vorresti tu che fusse?
Lico. Noi stiamo freschi. Aspetta pure.
Cleandro. Aveva egli nome Dulipo allora?
Lico. Padron, abbi cura al fatto tuo.
Filogono. Che vuoi tu cianciare, presontuoso? Non Dulipo, ma Carino era il nome suo.
Cleandro. Carino era il suo nome? Dio, se oggi beato fare mi volessi! Perchè gli mutasti il nome?
Filogono. Gli dicemmo Dulipo, perchè usato era piangendo chiamar tal nome spesso.
Cleandro. Vedo ormai certo che questo è il mio figliuolo, che nominato fu Carino; e quel Dulipo che chiamar solea piangendo, fu uno allevato mio, che lo nutriva, ed a cui lo avevo dato in custodia.
Lico. Non ti dissi io, padrone, che siamo in terra di Bari,9 e credevamo essere in Ferrara? Costui, per privarti del servo tuo, se lo vorrà con ciance adottare per figliuolo.
Cleandro. Io non sono usato dir bugía.
Lico. Ogni cosa vuol principio.
Cleandro. Non avere, Filogono, un minimo sospetto ch’io t’inganni.
Lico. Non un minimo, ma un grandissimo sì.
Cleandro. Taci un poco. Dimmi: aveva alcuna memoria il fanciullo de la stirpe sua, o del nome del padre o della madre?
Filogono. Aveva, sì; e me l’ha già detto, ma non l’ho in memoria veramente.
Lico. Ce l’ho ben io.
Filogono. Dillo tu, adunque.
Lico. Non dirò io già: n’ha saputo pur troppo da te.
Filogono. Dillo, se tu lo sai.
Lico. Io lo so, e mi lasciarei prima tagliare la gola, ch’io lo dicessi. Che non lo dice egli innanzi? e chi non s’avvederebbe ch’egli va a tentone?
Cleandro. Il mio nome sapete voi già; la mia donna e madre di lui aveva nome Sofronia; la casata mia si chiamava della Spiaggia.
Lico. Io non so tante cose; so ben, che dicea sua madre aver nome Sofronia: ma è un gran fatto, se egli è teco d’accordo, che ’l t’abbia del tutto informato?
Cleandro. Non ho bisogno di più manifesti segni ormai: questo è senza alcun dubbio il mio figliuolo, che, già diciotto anni, ho perso, e mille volte ho pianto, ed aver debbo un neo di buona grandezza ne l’omero sinistro.
Lico. Che maraviglia, se te l’ha detto, che tu lo sappi? Il neo ci ha pur troppo: così ci avesse egli...
Cleandro. Ah, Lico, buone parole.10 Presto, andiamo a ritrovarlo. O fortuna, liberamente io ti perdono, poichè ’l mio figliuolo oggi ritrovar mi fai!
Filogono. Ed io le sono tanto meno obbligato, che non so che del mio figliuolo sia. E tu, che per avvocato apparecchiato m’avevo, ora a favore di Dulipo ed a mio danno ti sarai tutto converso.
Cleandro. Filogono, andiamo a parlare col mio figliuolo, chè spero che tu insieme il tuo ritroverai.
Filogono. Andiamo.
Cleandro. Poichè io vedo l’uscio aperto, senza chiamare o battere me ne intrarò a la domestica.
Lico. Padrone, guarda come tu vadi qua drento; ch’io son certo che costui ha fatto questa fizione per condurti in qualche precipizio.
Filogono. Quasi che se ’l mio figliuolo perduto fussi, io mi curassi di restare vivo!
Lico. Io te l’ho detto; fa mo tu quel che ti piace.
SCENA VI.
DAMONE, PSITERIA.
Damone. Vien qua, cianciera e temeraria femmina: onde ha possuto, se non da te, Pasifilo intendere questa cosa?
Psiteria. Da me non l’ha già intesa: è stato il primo esso a dirlo a me.
Damone. Tu ne menti, gaglioffa; tu mi dirai il vero, o ch’io ti romperò quante ossa tu hai nella persona.
Psiteria. Se tu ritruovi che sia altramente, ammazzami ancora.
Damone. Dove ti ha egli parlato?
Psiteria. Quivi nella strada.
Damone. Che facevi tu quivi?
Psiteria. Andavo a casa di monna Bionda, per vedere una tela che ella ci tesse.
Damone. Che accadeva a lui parlare di questo teco, se tu non avessi cominciato la fola?
Psiteria. Anzi egli mi cominciò a riprendere e dirmi villanía, perchè ero quella che ti avevo il tutto riferito: io gli dimandai che ne sapea: egli mi disse che mi aveva udito, perchè era nella stalla nascosto quando oggi tu mi vi chiamasti.
Damone. Ah misero me! che farò dunque? Torna tu in casa. Non morirò, che trarrò la lingua a un par di queste cicale. Mi duole ancora più che Pasifilo lo sappia, che non ha fatto che ne sia l’effetto accaduto; che accaduto ne è per pochissima mia avvertenzia. Chi vuol bene confidare un suo secreto, lo dica a Pasifilo: solo il popolo e chi ha orecchie, e non altri, lo intenderà mai. Ora se ne parla in cento luoghi. Cleandro sarà stato il primo che l’averà inteso, Erostrato il secondo, e poi di mano in mano tutta la città. Oh che dote se le apparecchia! Quando la mariterò io mai più? misero me più che la miseria istessa veramente! O Dio, fusse almen vero quello che la mia figliuola m’ha narrato, che costui che l’ha violata, non è de la vil condizione che ha simulato sin a questo giorno nella casa mia, anzi è di buon sangue e di facultà amplissime nella sua patria. Quando anche non fusse se non la metà di quello ch’ella m’ha detto, avería di somma grazia di fargliela sposare: ma dubito che con queste ciance il scelerato Dulipo ingannata l’abbia. Io voglio esaminare lui ancora: conoscerò ben io al parlare se questa è una favola, e ch’e’ s’abbia, per venire al suo disegno, finta; o pur stia così il vero. Ma non è quel Pasifilo, che esce di casa del vicin nostro? Onde ne vien tanta letizia, che salta come un pazzo nella via?
SCENA VII.
PASIFILO, DAMONE.
Pasifilo. Dio, ch’io truovi Damon in casa, nè mi convenga cercarlo per tutta la terra! ed intanto altri procuri, e la nunziatura11 mi levi di mezzo. O me felice, ch’io lo vedo su la porta!
Damone. (Che nunziatura vuol da me costui?) Che t’è di ben accaduto, Pasifilo, che così lieto sei?
Pasifilo. Il tuo bene è causa de l’allegrezza mia.
Damone. Che cosa è?
Pasifilo. Io so che tu sei per caso de la tua figliuola addoloratissimo.
Damone. E quanto!
Pasifilo. Sappi che quel che t’ha fatto disonore, è figliuolo di tal uomo, che sdegnare non ti dèi che ti sia genero.
Damone. Che ne sai tu?
Pasifilo. Il padre suo, qual è Filogono di Catania, che io so che per fama de la sua ricchezza conosci, è arrivato adesso di Sicilia, ed è in casa del vicin nostro.
Damone. Di Erostrato, vuoi dire?
Pasifilo. Anzi di Dulipo. Ben avemo fin a quest’ora noi creduto che questo vicin tuo Erostrato sia, e non è; ma quel che tu hai in casa prigione, che si faceva Dulipo nominare, ha nome Erostrato, ed era padron di quest’altro, il quale è Dulipo; e sempre in questa terra s’ha fatto nominare Erostrato, acciò che, col nome di Dulipo, in abito servile comodamente facesse quello che egli ha fatto in casa tua.
Damone. Dunque non è falso quello che Polimnesta mi narrava dianzi?
Pasifilo. T’ha detto ella così ancora?
Damone. Sì, ma dubitavo che fosse una ciancia.
Pasifilo. Anzi è una verità verissima. Filogono a te verrà qui adesso, e Cleandro è con lui.
Damone. Come Cleandro?
Pasifilo. O Dio, un’altra bella istoria. Cleandro ha ritrovato che quel Dulipo che si faceva nominare Erostrato, è suo figliuolo, che alla perdita di Otranto gli fu da’ Turchi rapito, e pervenne poi alle mani di Filogono; il quale da piccolino l’ha allevato, ed in compagnia e servizio del suo figliuolo l’aveva mandato in questa terra. Il più bel caso di questo non accadde mai: se ne potría fare una commedia. Egli saranno tutti qui adesso, e da loro pianamente intenderai ogni cosa.
Damone. Io voglio da Dulipo, o Erostrato che sia, tutta questa pratica intendere, prima ch’io venga con Filogono a parlamento.
Pasifilo. Sarà ben fatto, ed io anderò a fare indugiare un poco. Ma mi pare che vengano già.
SCENA VIII.
SANESE, FILOGONO e CLEANDRO.
Sanese. Non accade che meco più ti scusi; chè quando ben tu mi abbi sojato, non me ne essendo venuto peggio che parole, io ne fo pochissimo conto: anzi mi giova avere imparato senza alcun mio danno di essere un’altra volta più cauto, ed ogni cosa non credere così al primo tratto. E tanto più, sendo stata trama amorosa, leggermente e senza un minimo sdegno me ne passo. E così tu, Filogono, s’io ho fatto cosa che ti sia spiaciuta, pigliala per quella via donde è venuta.
Filogono. Io non mi doglio d’altro, se non de le parole ingiuriose che io ti ho detto.
Cleandro. Di questo è detto abbastanza, ed è superfluo ormai ogni ragionare che se ne faccia più. Verrà12 che tu per gran cosa non vorresti che fusse restato di accaderti questo inganno, o come tu ’l vuoi nominare; che ti sarà una favola piacevole da ricontare in cento luoghi. E tu credi, Filogono, che così dal cielo era ordinato; chè per altra che per questa via non era possibile che del mio Carino io avessi mai ricognizione, ne egli di me, essendo l’odio e la malivolenzia tra noi che da l’uno e da l’altro hai tu medesimo inteso.
Filogono. Io conosco che gli è come tu narri, perchè una minima foglia non credo che qua giù senza la superna volontà si muovi.13 Ma ritroviam questo Damone; chè ogni momento ch’io indugio di vedere il mio figliuolo, uno anno mi pare.
Cleandro. Andiamo. Tu puoi, gentiluomo, rimanere col mio figliuolo in casa, chè queste cose da principio non sono da trattare con tanti testimoni.
Sanese. Io farò come voi volete.
SCENA IX.
PASIFILO, CLEANDRO, FILOGONO, DAMONE,
EROSTRATO.
Pasifilo. Non posso da te, Cleandro, impetrare che dir mi vogli in che ti ho offeso?
Cleandro. Sono ormai, Pasifilo, chiaro, ch’io t’ho con parole ingiuriato a torto; ma il testimonio a cui ho dato in causa propria, contra il debito, fede, m’ha tratto in questo errore.
Pasifilo. Mi piace che la ragione non sia stata da la malizia oppressa: ma non dovevi credere così facilmente, e dirmi tanta villania.
Cleandro. Ho questa mia collera così súbita, che non ci posso riparare.
Pasifilo. Che collera? ingiuriare un uomo da ben pubblicamente e darli carico, e poi dar colpa alla collera? Una bella scusa!
Cleandro. Non più, Pasifilo; io ti sono, come fui sempre, amico, e accadendoti l’esperienzia, son per dimostrartene chiarissimi effetti. Domattina t’aspetto a disinare meco. Questo è Damon, ch’esce di casa: lascerai parlare a me prima. Veniamo a te, Damone, per farti tornare in gaudio la mestizia che ci persuademo che debitamente per il caso occorso ti molesti, certificandoti che colui che sin a quest’ora hai per Dulipo e tuo famiglio reputato, è figliuolo di questo gentiluomo Filogono di Catania, a te non inferiore di sangue, ma di ricchezza, come tu stesso avere puoi per fama inteso, superiore.
Filogono. E così sono io apparecchiato emendare, in quello ch’io posso, il fallo del mio figliuolo, facendolo a te genero legittimo, quando ti contenti; e se altra cosa è che per te possa far più, ad ogni volere tuo mi ti offero paratissimo.
Cleandro. Ed io, che pur dianzi Polimnesta ti dimandavo per sposa, da te rimango sodisfattissimo, quando a mia instanzia al figliuolo di costui tu la conceda, a cui più debitamente, per l’età e per l’amore ch’egli le ha portato e mille altri rispetti, che a me si conviene. Io, che moglie cercavo per desiderio di lasciare erede, ora non ho più nè bisogno nè voglia, perchè il mio figliuolo, che ne la presa de la mia patria persi, oggi ho ritrovato, come io ti narrerò più ad agio.
Damone. Il parentado e l’amicizia tua, Filogono, io debbo per molte condizioni non meno desiderare, che tu la mia; e così l’accetto, e sopra tutte le altre che mi siano state offerte, o che sperate io abbia, mi è gratissima. Il figliuolo tuo e per genero e per figlio raccoglio, e te per onoratissimo parente: e tanto più me ne gode l’animo, quanto te, Cleandro, ne veggio rimanere soddisfatto; e teco mi allegro che ritrovato abbi il tuo figliuolo: di che Pasifilo me ne ha pienamente informato. Ma eccoti, Filogono, il tuo desiderato Erostrato; e questa è la nuora tua.
Erostato. O padre!
Pasifilo. Oh quanto14 è la tenerezza de li padri verso i figliuoli! Per gaudio non ha Filogono facoltà di esprimere una parola: solo usa le lagrime in vece di quella.
Damone. Andiamo in casa.
Pasifilo. È ben detto: in casa, in casa.
SCENA X.
NEBBIA, DAMONE e PASIFILO.
Nebbia. Padron, ho portato li ferri.
Damone. Portali via.
Nebbia. Che vuoi che ne faccia?
Pasifilo. Va’, méttiteli ove si soffian le noci. A rivederci, brigata; e fate segno di allegrezza.15
Note
- ↑ Così le antiche edizioni
- ↑ Non è cosa che. — (Tortoli.)
- ↑ Era questo il titolo che davasi in Ferrara al capo o presidente della municipale magistratura, titolo già portato dal padre stesso del nostro poeta.
- ↑ Tutte l’edizioni hanno qui: tenuto.
- ↑ Difenda, sostenga: significazione non osservata.
- ↑ Alla fine. — (Tortoli.) — Nel senso stesso dicevasi: Una volta, come in questa scena medesima: «una volta lo comprai de’ miei danari.» E vedi la nota 2 a pag. 7 di questo volume.
- ↑ Non mi fermerò, non resterò di adoperarmi, senza ch’io lo abbia fatto ec. Così nella scena seguente: «Non morirò, che trarrò la lingua a un par di queste cicale.»
- ↑ Così tutte le stampe. Un moderno editore credè doversi correggere in questo luogo, come al fine della scena settima, pienamente.
- ↑ Anche le antiche stampe hanno, con la majuscola, Barri: dal che confermasi che l’autore avea voluto scherzare sull’equivoco tra Bari e barri o barattieri.
- ↑ Pare da intendersi (come ancora nel corrispondente luogo della commedia in versi): Ah Lico, usa buone parole verso quel giovane; parla, cioè, con rispetto di costui che mi è figliuolo.
- ↑ Mancia dovuta per aver dato un lieto annunzio. Significazione che non sappiamo da verun altro usurpata.
- ↑ L’editore fiorentino del 1856 fece imprimere Vero è. Verrà è in tutte le stampe da noi vedute; e supponiamo esservi sottinteso (se forse non venne omesso) dì o tempo.
- ↑ Ciò prova che il proverbio: Non si muove quaggiù foglia, che Dio non voglia, è (come i mille suoi pari) proverbio italiano.
- ↑ Così tutte le stampe.
- ↑ La stampa del Zoppino soggiunge ancora: Valete. — Vuolsi che il Shakespeare traesse da quest’opera del nostro autore (che fu tradotta in inglese da Giorgio Gascoigna, e rappresentata in Londra nel 1566) l’episodio di Bianca e Lucenzio, che trovasi nella sua commedia Taming of the shrew (Il domatore della donna bisbetica.)