La Cassaria (prosa)/Atto primo
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ATTO PRIMO.
SCENA I.
EROFILO giovane, NEBBIA servo.
Erofilo. Così ve n’andrete, come io v’ho detto, a trovare Filostrato, e farete tutto quello che vi comanderà, e per modo che non mi venga di voi richiamo altramente. Ma dove è rimasto il mio pedagogo, il mio maestro, il mio custode saggio? Che vuol1 che v’indugiate a sua posta fino a sera? Ancor non viene? Per dio, che s’io ritorno indietro!... Andate tutti, e strascinatemelo fôra per li capelli. Non vaglion le parole con questo asino, nè vuol, se non per forza di bastone, obbedir mai. Vedi che io t’ho fatto escire.
Nebbia. Sia in mal’ora: non si poteva senza me finir la festa. Io so bene ch’importa l’andata, ma non posso più.
Erofilo. Andátevene, nè sia alcun di voi sì ardito, che prima che egli vi dia licenzia mi venga innanzi. M’avete inteso?
SCENA II.
GIANDA, NEBBIA servi.
Gianda. È pur grande, o Nebbia, cotesta pazzia, che tu solo di tutti noi conservi vogli contrastare sempre con Erofilo. E pur ti devresti accorgere come fin qui t’abbia giovato! Obbedisci, col malanno, o mal o ben che ti comandi: è figliuol del patrone un tratto2; ed ha, secondo la età, più lungamente a comandarci che il vecchio. Perchè vuoi tu restare in casa quando lui vuol che tu n’eschi?
Nebbia. Se tu in mio loco fussi, così faresti, e forse peggio.
Gianda. Potrebbe essere, ma non lo credo già; chè non so vedere che ti giovi troppo.
Nebbia. Io non debbo fare altramente.
Gianda. E perchè?
Nebbia. Se mi ascolti, io tel dirò.
Gianda. T’ascolto, di’.
Nebbia. Conosci tu questo ruffiano che da un mese in qua è venuto in questa vicinanza?
Gianda. Conoscolo.
Nebbia. Credo che tu gli abbia veduto un pajo di bellissime giovani in casa.
Gianda. L’ho vedute.
Nebbia. Dell’una d’esse Erofilo nostro è sì invaghito, che per avere da comprarla vendería sè stesso; e ’l ruffiano, che averne tanto desiderio lo conosce, e che sa che del più ricco uomo di Metellino è figliuolo, gli dimanda cento di quel che forse a un altro lasserebbe per dieci.
Gianda. Quanto ne dimanda?
Nebbia. Non so; so ben che ne dimanda gran prezzo; ed è tanto, che frustando3 Erofilo tutti gli amici che ha, non ne potrebbe trovare la metade.
Gianda. Che potrà fare dunque?
Nebbia. Che potrà fare? danno grandissimo a suo padre, e similmente a sè medesimo. Credo che abbia adocchiato di saccheggiare il grano, che dui anni e tre s’ha riserbato infin a questo giorno il vecchio; o sete o lane o altre cose, di che la casa è piena, come tu sai. Suo consigliere e guida è quel ladro di Volpino. Hanno lungamente questa occasione attesa, che il vecchio sia partito, come ha fatto oggi, per andare a Negroponte. E perchè non si vegghino le lor trame, non mi vogliono in casa: mi mandano ora a trovare Filostrato, acciò che mi tenga in opera, nè ritornar ci lassi fin che non abbino essi il lor disegno fornito.
Gianda. Che diavol n’hai tu a pigliarti sì gran cura, se ben vôtassi la casa? Egli, del rimanente, sarà erede, e non tu, bestia.
Nebbia. Una bestia sei tu, Gianda, che non hai più discorso che d’un bue. Se Crisobolo ritorna, che fia di me? Non sai tu che, partendo questa mattina, mi consegnò tutte le chiavi di casa, e comandòmmi, quanto avevo la vita cara, non le déssi a persona, e men di tutti gli altri a suo figliuolo; nè, per faccenda che potesse accadere, mettessi mai fuor di quella porta piedi? Or vedi come gli ho bene obbedito! non credo che fussi ancor fuor della porta, che volse le chiavi Erofilo, dicendomi voler cercare d’un suo corno da caccia che aveva smarrito; e così mal mio grado l’ebbe, e forse tu vi ti4 trovasti.
Gianda. Non mi vi trovai già, ma ben sentî fin colà dove ero il suono di gran bastonate, che da dieci in su toccasti, prima che dargliene volessi.
Nebbia. S’io non gliele dava, credo che m’arebbe morto. Che volevi tu che io facessi?
Gianda. Che facessi? che alla prima richiesta tu gliel’avessi date, e così che al primo cenno fussi con noi altri escito di casa. Non ti puoi tu sempre scusare col patrone, e narrare per il vero come è andato il fatto? Non conoscerà egli che la etade e condizion tua non è per poter contrastare a un giovane appetitoso,5 e della sorte di Erofilo?
Nebbia. Non saprà forse egli tutta la colpa riversarmi addosso? o forse li mancheranno testimoni a suo proposito, sì perchè gli è patrone, sì perchè tutti in casa mi volete male, per mio demerito non già, ma per tenere la ragione del vecchio, e non comportare che sia rubato?
Gianda. Pur per tua mala natura, che non ti sai fare uno amico.
Nebbia. Ma qual altro conosci tu in qual tu voglia casa, che abbi l’officio che io, che non sia odiato similmente?
Gianda. Perchè siete tristi e di pessima condizione tutti: chè li patroni in fare elezione di chi abbia a provedere alla famiglia, cercano sempre il peggiore uomo che abbiano in casa, acciò che d’ogni disagio che si patisca, più agevolmente possano sopra voi scaricarsi della colpa. Ma lassiamo andare. Dimmi un poco: chi è quel giovene che pur dianzi è entrato in casa nostra, che Erofilo onora come sia maggior suo?
Nebbia. È figliuol del Bassam di questa terra.
Gianda. Come ha nome?
Nebbia. Caridoro. Egli ama in casa di questo ruffiano l’altra bella giovene; nè credo che abbia meglio il modo di Erofilo a comprarla, se non provede di robar suo padre similmente. Ma guarda, guarda: quella ch’è su la porta del ruffiano, è la giovene che Erofilo ama; l’altra, che è più fôra nella strada, è l’amica di Caridoro. Che te ne pare?
Gianda. Se così ne paresse agli amanti loro, farebbe il ruffiano ricchissimo guadagno. Ma andiamo; chè se sboccasse Erofilo, mal per noi.
SCENA III.
EULALIA, CORISCA fanciulle.
Eulalia. Corisca, non ti slungare da questa porta, chè se Lucrano ci cogliesse, s’adirarebbe con noi.
Corisca. Non temere, Eulalia, chè miglior vista avemo che lui, e saremo prime a vederlo. Deh prendiamo, ora che non è in casa, questo poco di spasso.
Eulalia. Che spasso, misere noi, che ricompensi la millesima parte della disgrazia nostra? Noi siamo schiave; la qual condizione pur tollerare si potrebbe, quando fussimo di alcuno che avesse umanitade e ragione in sè. Ma fra tutti li ruffiani del mondo, non si potrebbe scegliere il più avaro, il più crudele, il più furioso, il più bestiale di questo, a cui la pessima sorte ci ha dato in soggezione.
Corisca. Speriamo, Eulalia. Avemo tu Erofilo ed io Caridoro, che tante volte ci hanno promesso e con mille giuramenti affermato di farci presto libere.
Eulalia. Quante volte ci hanno promesso e non atteso mai, è tanto più evidente segno che non hanno voglia di farlo. Se mille volte ci avessino negato ed una sola promesso poi, io mi starei con molta speranza; ma così ne ho pochissima. Se l’hanno a fare, che tardano più? Vogliono la baja, e ci tengono in ciance; e ci fanno gran danno, chè forse altri sarebbon comparsi per liberarci, e manco parole averíano usate e più fatti; e per rispetto di costoro si sono restati. Hanno poi fatto sdegnare Lucrano, che si ha veduto menare a lungo con vane promesse: e jeri mi disse, e forse ben vi ti trovasti, che non poteva più star in su la spesa, e che fra dieci dì, non comparendo chi ci liberasse, voleva che ognuna di noi, o buona o ria, si guadagnasse il pane; e non potendo venderne in grosso, ne vendería a minuto per quattro o sei quattrini, e per quel che si potrà avere. O misere noi!
Corisca. E faccialo; che domine sarà? Pur vô credere e tener certo che li nostri amanti non ci abbino a lassare giungere a tanta miseria.
Eulalia. Meglio è che andiamo dentro, chè per nostra sciagura Lucrano non ci sopraggiugnesse.
Corisca. Ah! vedi i nostri cuori, che ne vengono a noi: non ci partiamo così presto; veggiamo ciò che oggi ci apportano.
SCENA IV.
EROFILO, CARIDORO gioveni, EULALIA,
CORISCA fanciulle.
Erofilo. Oh che felice incontro è questo, Caridoro! questo è il maggior ben che per noi si possa desiderare al mondo.
Caridoro. Queste sono le serene e luminose stelle che al lor bello apparire acchetar ponno le tempeste de’ nostri travagliati pensieri.
Eulalia. Con più verità potresti dir di noi, che ’l bene e la salute nostra saresti, quando ci amasti così in effetto, come cercate in parole di dimostrare. Voi sete6 gran promettitori alla presenza nostra. — Dammi la mano, Eulalia; dammi la mano, Corisca: oggi, o diman senza fallo, sarete per noi franche: se no, che siamo...7 — Odili pure: vôlte le spalle vi ridete de’ casi nostri.
Erofilo. Hai torto, Eulalia, a dir così.
Eulalia. Se ben voi sete gentiluomini e ricchi nelle patrie vostre, non devresti però schernire e pigliare di noi giôco: noi semo di buon sangue, ancora che ci abbia la disgrazia nostra così condotte.
Erofilo. Deh!, non fare, Eulalia, con queste lagrime e querele più di quel che sia la mia passione acerba. Io sarò il più ingrato, il più discortese villan del mondo, se per tutto diman...
Eulalia. Deh! mal abbia il mio crederti tanto.
Erofilo. Lassami finire: io non ti posso dire ogni cosa, ma sta sicura che per tutto dimane, alla più lunga, sarai libera da questo impurissimo ruffiano. La cosa è gita più a lunga che non era il tuo bisogno e il creder mio, ma non ho possuto più. Non ti credere, benchè io vada onoratamente vestito, e sia di Crisobolo unico figliuolo, estimato il più ricco mercatante di Metellino, che delle sue facultadi io possa a mio appetito disponere. E quel che io dico di me, dico di questo altro ancora; chè li nostri vecchi non sono meno ricchi che avari; nè più è il desiderio nostro di spendere, che la lor cura di vietarci il modo. Ma or che partito è mio padre per navigare a Negroponte, e non mi terrà gli occhi alle mani sempre, vederai dell’amor che io ti porto chiarissimi effetti, e presto.
Eulalia. Dio ti metta in cuore di farlo. Se mi ami, e la salute mia desideri, fai lo dover tuo; chè più che gli occhi miei e più che ’l côr mio t’ho sempre, da poi che prima ti conobbi, auto caro.
Caridoro. E tu, Corisca, abbi la medesima fede; chè poco poco ci manca per venire a buona conclusione.
Eulalia. Or non più, chè non ci sopraggiugnesse Lucrano.
Erofilo. Non passerà dui8 dì, che mi potrai star secura in braccio.
Eulalia. Ed io viverò in questa speranza.
Corisca. Ed io ancora, neh?
Caridoro. Non si studia al ben dell’una senza quel dell’altra. Restate di buona voglia: addio.
Corisca. Addio.
Erofilo. Addio, radice del mio cuore.
Eulalia. Addio, vita mia.
SCENA V.
EROFILO, CARIDORO giovani.
Erofilo. Ch’io non li dimostri l’amore ch’io li porto? ch’io patisca che stia più in servitù? Non bisogna che vadi più in lungo questa trama. Se non viene oggi Volpino a qualche effetto buono, non starò più a tante soje,9 con che da mattina e sera, d’oggi in dimane, già più d’un mese m’ha girato il capo, or promettendomi di trar di mano a mio padre il danaro da comprarla, or di gittare addosso a questo Albanese ladro una rete da non potersene, se non mi lassa la giovane, sviluppar già mai. Ch’io stia più alle sue ciance? non starò, per dio. Quando non potrò venire secretamente al mio disegno, ci verrò alla scoperta: nè chiavi nè chiodi mi potranno serrare cosa ch’io sappia che sia per il mio bisogno. Sarei bene a peggior termini che Tantalo, s’in10 mezzo l’acqua mi lasciassi strugger di sete. Ho in casa panni, sete, lane, drappi d’oro e d’argento, vini e grani da fare in una ora quanti danari io voglio; e sarò sì pusillanimo e vile, che non vorrò satisfare per un tratto al desiderio mio?
Caridoro. Deh fussi pur io nel tuo grado, che avessi mio padre assente, che non anderei, per dio, cercando altro mezzo che me stesso per satisfarmi! Dui giorni soli che si levassi da Metellino, mi basterieno per cento: netterei sì bene il granajo, e sì sgomberrei di ogni masseria11 camere e sale, che parrebbe che uno anno v’avessino avuto gli Spagnuoli alloggiamento. Ma eccolo che viene.
Erofilo. Chi? sì, sì, Lucrano: così ci fusse egli portato. Andiamo pur noi dentro ad eseguire ciò che ne fu da Volpino ordinato, chè non si possa in su la nostra negligenza escusare, come ritorni.
Caridoro. Andiamo.
SCENA VI.
LUCRANO ruffiano, solo.
Lucrano. Quando si sente lodar molto e sublimare al cielo o beltà di donna, o liberalità di signore, o ricchezza, o dottrina, o simil cose, mai non si può fallare a creder poco; perchè venendo alla esperienza, non sono a gran pezzo mai tante, come ne riporta la fama. Non si può fallare ancora a creder più, quando senti biasimare uno avaro, uno giuntatore, uno ladro e simili vizî; che, praticando, maggiori si ritrovano sempre, che non si vede di fôre.12 Io non saprei di questo già render ragione; ma l’effetto per lunga esperienza ne conosco, che dell’uno e dell’altro ho tutto il giorno: pur son dell’uno in più pratica al presente. Mi era detto di fuora, che erano in questa terra li più ricchi e liberali gioveni e li più spendenti in femmine, che in altro loco di Grecia: io ci ho molto ritrovato il contrario, perciò che in ogni cosa, fuor che nel vestire, li trovo miserrimi: in quel sì prodighi, che sento che la più parte, a guisa di testudine, porta ciò ch’egli ha al mondo addosso. Mi viene tutto ’l dì a ritrovare or l’uno or l’altro, e chi dice voler comprar questa e chi quella; e quando semo al pagamento, mi vorrebbono di scritte pagare, di promesse e di ciance satisfare. Li danari in altri lochi, fatto ’l mercato, si veggiono; qui non so per qual miracolo si spendono invisibili: non però li miei, chè, s’io vô pane o vino o altre cose al viver necessarie, mi convien fare che appajano: se mi potessi provedere con parole di tali cose, sarei altramente contento con parole di vendere il mio. Non fa per me di pigliar moneta che non possa ne’ miei bisogni spendere. Se, come la voglia, mutar si potessino le cose fatte, io non ci vorrei esser mai venuto; chè, poco più ch’io ci stia e non faccia più frutto di quel che fino a ora ho fatto, mi consumerò quel poco che da Costantinopoli ho portato, dove assai bene è l’arte mia valutomi; e dubito di giungere a tanto, che io mi ci môja di fame. Una sola speranza mi è restata in questo Erofilo mio vicino, amatore della mia Eulalia; che se così fussi di lei desideroso come si mostra in apparenza, conosco che solo avería il modo di farmi in effetto una buona paga: ma procede con troppa malizia meco. Sa con che gran spesa e con che poco guadagno io stia qui, e che pochi, se non lui, sono per comprare da me alcuna delle mie femmine; e anco si pensa ch’io non abbi il modo da potermene levare, e che di giorno in giorno io l’averò meno: e perciò attende che, vinto dalla necessitade, io mi riduca a pregarlo che mi dia quel che gli pare, e che s’abbi la femmina; e se non ci provedo e con pari astuzia mi governo con lui, potrà fare che gli riesca il disegno facilmente. Ho pensato fingere di partirmi, e m’è venuto a proposito uno legno che dimane o l’altro si partirà per Soría: sono stato a parlamento del nolo col patrone per me, per la famiglia e roba mia; e questo ho fatto presente alcuni, che già credo l’abbino ad Erofilo riportato.13 Io gli tôrrò questa credenza che egli ha, che mal mio grado m’ha costretto a restarmi qui, per non aver modo di levarmene. Ed ecco il mio Furba a tempo, che mi sarà buono ajuto in questo.
SCENA VII.
LUCRANO ruffiano, FURBA servo.
Lucrano. Tu sei pur tornato, quando non hai possuto indugiar più: non ti bisogna mai dar meno d’un giorno di tempo a fare uno servizio, asino da bastone. Corri al porto in tuo mal punto; corri ti dico, e fa che tu sia tornato súbito. Oh dove vai tu, che non aspetti intendere quel ch’io voglia? Trova il patrone da Barutti, con chi parlammo questa mattina, e sappi da lui il certo se questa notte ha da partirsi, o fino a quanto indugiasse; e quando ti raffermasse quel che ti disse oggi, di pur volersi questa notte partire, ritorna súbito e mena dui carri teco, e tre facchini o quattro, che prima che ci manchi il giorno, fo pensieri avere tutta sgombrata la casa ed imbarcata ogni mia cosa, chè14 nulla ci impedisca da potere con lui partire; che15 più util viaggio far possiamo, che quando venimmo ad abitar qui, dove sono più li forestieri in odio, che la verità nelle corti. Che guardi, che non voli via? Spuleggia di non calarti in solfa per questa marca, che al cordoan si mochi la schioffa.16
Furba. Ciffo ribaco il contrapunto.
Lucrano. (Averò cantato in guisa, che se Erofilo è in casa, mi potrà aver sentito.)
Note
- ↑ Scriviamo questo che, senza alcun segno appresso, come nelle antiche edizioni, qualunque sia l’espressione che qui possa attribuirsegli. Il Barotti ed altri moderni ponevano: Che? vuol ec.
- ↑ Un tratto, come si disse ancora Una volta (frequentissimo nel Machiavelli), per Finalmente, In somma, In conclusione.
- ↑ Frustare, per Andar cercando, rovistando e simili, è nell’uso forse della provincia in cui visse l’Ariosto, certo delle convicine. Non fu ignoto questo significato agli antichi Toscani, se ingenua è la lezione dell’esempio del Tes. Brun. addotto dalla Crusca. I Romani dicono, coll’espressione medesima, Scopare.
- ↑ Ti manca nell’edizione del Zoppino e in altre antiche.
- ↑ Esempio notabile.
- ↑ Le antiche stampe: seti.
- ↑ Le parole da dammi la mano fino a qui, in tutte le edizioni sono poste in bocca di Erofilo; al che si oppone non solo il contesto di tutta la scena, ma anche la commedia in versi, dove parole consimili sono proferite da Eulalia. — (Tortoli.)
- ↑ Ant. stamp.: doi.
- ↑ Qui per Lusinghe.
- ↑ Ant. stamp.: si in.
- ↑ Così le antiche stampe: il Barotti fu forse primo a correggere masserizia. Dei significati varî di Massería può vedersi la Crusca.
- ↑ Per errore, le antiche stampe: di fare.
- ↑ Ant. stamp.: reportato.
- ↑ Affinchè, o In guisa che.
- ↑ Augurativo. Erroneamente, qui presso, le antiche stampe: più vil.
- ↑ Queste e le parole della risposta del Furba, credute comunemente del linguaggio jonadattico o furbesco, non fu chi si désse cura d’interpretare.