Gli sposi promessi/Appendici/G
Questo testo è completo. |
◄ | Appendici - F - b | Appendici - H | ► |
G1
Nello schizzo che siam per dare della vita e del carattere di quell'innominato noi collocheremo alcuni passi del Ripamonti, traducendoli alla meglio dal suo bel latino. Pel rimanente non abbiamo altra autorità che quella del nostro manoscritto.
L’innominato era un tiranno, nel senso che si dava allora alla parola, che non mi andaste ad accusar per giacobino: tiranni nell’uso comune e nelle gride erano nominati coloro che col mezzo dei loro servi o bravi, resistevano più o meno agli ordini ed alla forza publica, e ne esercitavano una arbitraria, capricciosa, più o meno iniqua sopra i menipossenti. Fra quelli ai quali le ricchezze e la nascita rendevano, in quella condizione di tempi, possibile una tale tirannia, ben radi erano che non ne usassero un pochetto, almeno in certe occasioni, talvolta forse senza averne una coscienza ben distinta; molti la usavano come una professione; fra i molti spiccava quest’uno. Unico erede d’una famiglia primaria, nato con un talento superbo, imperioso, feroce, cresciuto fra l’apparato d’una grande opulenza e d’una gran forza domestica,
fra il chinar riverente di facce bellicose e le dimostrazioni d’una servilità pronta a tutto intraprendere, fra il concerto di cento voci che esaltavano a gara la potenza della casa; e divenuto padrone in età assai giovanile, egli non fu contento della porzione di superiorità che avevano goduta i suoi maggiori. Queglino erano riveriti; egli volle esser terribile: eran lasciati stare anche dai più potenti e irrequieti; a lui pareva di scadere, quando non facesse stare nessuno: erano per lo più rimasti al di sopra in ogni impegno dove avessero parte; egli volle essere arbitro negli altrui, in quelli dove non aveva pure un pretesto per intromettersi. Già da più generazioni la sua casa spiccava per una sontuosità principesca; egli riformò tutto quello sfoggio di conviti, di cacce, di torniamenti, e ne impiegò il costo in aumento di forza, in bravi, in armi, in ispedizioni. Passava allora una gran parte del tempo in città, e quivi la sua prima occupazione o il suo divertimento fu di andare in cerca di quelli che nella turba dei soverchiatori di mestiere erano i più famigerati, di pararsi loro dinanzi in qualunque occasione, per tastarli, per provarsi con loro e diminuire quella loro gran riputazione, o farsegli amici, d’un’amicizia però subordinata dalla parte loro, che era la sola che gli piacesse, la sola, per dir così, ch’egli sapesse intendere. In poco tempo ne ridusse molti a desistere da ogni rivalità e a dargli la mano in ogni congiuntura, ne conciò male qualcheduno dei più superbi e indomiti, e n’ebbe molti amici al modo ch’egli desiderava. Nessun d’essi lo avrebbe confessato, ma tutti sentivano alla sua presenza e pensando a lui, una certa inferiorità, che gli sforzava a risguardarlo e a trattarlo piuttosto come un capo che come un amico. Nel fatto però egli veniva ad essere il faccendone, lo strumento di tutti coloro, e alle volte in affari in cui la cooperazione sarebbe sembrata anche a lui vile obbrobriosa, se non vi fosse entrata la difficoltà e la forza, cose che nel concetto comune, e più nel suo nobilitavano tutto. Era a quei tempi cosa trita e quotidiana, massime fra i soverchiatori di professione, il richiedere negli impegni scabrosi l’aiuto e l’opera degli amici; cosa disonorevole il rifiutarla senza buone ragioni; e perché l’ingiustizia o il pericolo dell’impresa fossero contate come tali, bisognava che arrivassero a un grande eccesso. Una simile consuetudine, che era dei tiranni un mezzo e un carico del mestiere, secondo le occasioni, doveva naturalmente dar molte faccende a un tiranno come questo. I molti suoi amici avevano molte e varie passioni da soddisfare; la predominante in lui era quella di far cose vietate e difficili, e di non iscapitare, massime appo loro, di quel gran concetto di audacia e di potenza. Pigliava quindi facilmente i loro impegni, concorreva alle loro spedizioni e le dirigeva; mandava i suoi bravi a minacciare i loro rivali di amorazzi e di precedenze; a questo faceva intimare che non passasse nella tal contrada, a quello che non persistesse nella tal lite, risguardava il renitente come suo nemico personale, lo affrontava nella via con un pretesto, e gli dava una pena infamante su la superficie del corpo, o una più nobile al di dentro, secondo la condizione della persona. E in quanti ebbe di questi scontri, in tanti rimase al di sopra, più gagliardo, più coraggioso, più destro, com’era, e meglio accompagnato d’ogni altro.
Per una strada tale, e di quel passo, non si poteva, manco in allora, andar lungo tempo senza incontrarsi colla giustizia. Ben è vero che l’innominato non lasciava di adoperare tutte le cautele usitate dagli altri per eluderla e scansarla; e massime nelle cose più gravi, come per esempio quando si trattasse d’un omicidio premeditato, o d’un ratto, andava travestito, cercava i luoghi, aspettava i momenti scuri: anche i suoi bravi a fare le intimazioni più arrischiate e le spedizioni più atroci, andavano acconciati in forma, parlavano in modo da lasciar conoscere a cui appartenevano, quanto era necessario per incuter più terrore, non tanto che bastasse a provare che appartenevano a lui. Di modo che ad ognuno di quei suoi attentati, la giustizia non aveva fatta altra dimostrazione che di publicare una di quelle gride chiamate d’impunità, colle quali si prometteva questa e un premio al complice che facesse conoscere l’autor principale o i principali autori del delitto, dando indizii sufficienti a procedere: gride che nei casi di quest’uomo non avevano mai prodotto alcun effetto, per ragioni che in parte s’indovinano facilmente, e che in parte accenneremo in appresso. Quanto alle violenze ch’egli aveva commesse a fronte scoperta, in pien meriggio, nella via, v’era ad una per una il verso di rappresentarle come necessitate dalla difesa o dall’onore, il codice del quale era allora molto più rigido e sofistico riguardo alle offese, e infinitamente più largo riguardo alla misura e ai modi delle soddisfazioni, che non lo sia al presente; e nello stesso tempo era più considerato come obligatorio anche dove fosse in opposizione colle leggi, non solo dal più dei privati, ma anche da quelli che promulgavano ed eseguivano le leggi. Con questi mezzi un uomo del suo grado poteva assicurarsi l’impunità di mal fare, fino ad un certo segno; ma costui passava tutti i segni. Ne faceva più che nessun altro del suo mestiere; offendeva piccioli e grandi senza distinzione; e nello stesso tempo trascurava altri mezzi indispensabili anche per fare impunemente meno di lui.
Gli altri tiranni (prescindo da alcuni disperati, che in guerra aperta colle potestà e colla società, vivevano or raminghi, or rintanati nei loro castellacci, e stavano anche alla strada come veri capi di masnadieri; parlo di quelli che volevano abitare in città e godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile) gli altri tiranni mantenevano più aderenze che fosse possibile col poter legale, si valevano delle parentele, coltivavano cogli ufici e col corteggio le amicizie degli uomini più graduati, si obligavano i subalterni colle protezioni e con certi atti di cortesia degnevole, e avevano dipendenti e creati fino tra gl’infimi esecutori, ai quali compensavano le minacce coi regali. Cercavano insomma di tenere una mano su le bilance della giustizia, per farle tracollare dalla parte loro in una occasione, in un’altra farle sparire che non si trovassero, per darle anche, se veniva un bel tratto, su la testa di qualcheduno che non avevano potuto finire colle armi della violenza privata. Costui, all’opposto, dopo essersi inimicati molti potenti, dei quali aveva toccati in varie occasioni i protetti, gli amici, i congiunti, non solo aveva sempre sdegnato di fare il più leggiero uficio per raddolcire quegli odii e per soddisfare quegli orgogli irritati, ma non s’era né anche curato mai di procacciarsi almeno amici egualmente potenti da contrapporre a quelli. Le sommissioni, le pratiche, anco le cerimonie necessarie a questo fine gli erano insopportabili: affettare una gran non curanza per ogni autorità era un elemento della sua passione, uno di quei piaceri per cui egli affrontava tanti pericoli e faceva tante male vite. I suoi parenti stessi, che ne aveva più d’uno in alti posti, oltre che gli era lor divenuto un peso con quel suo metterli sempre a petto or d’un collega, or d’un superiore, col porli sempre al partito di combattere con rischio, o di cedere con diminuizone di credito, se gli era poi anche disgustati col suo tratto verso di loro. Avrebbero essi voluto difenderlo, ma insieme regolarlo; rattoppar bensì certe sue malefatte, ma tenersi in possesso di fargliene qualche buona riprensione, e di prescrivergli norme di prudenza e di moderazione per l’avvenire: egli con quel suo animo precipitoso e ricalcitrante aveva altamente sdegnato favori di quella sorte. Con tutto ciò queglino, per l’onor del nome, avevano continuato per qualche tempo a sostenerlo; ma finalmente, vedendo meglio d’ogni altro, nella regione delle nuvole dove abitavano, il grosso temporale formato contro di lui, informati che dalla bocca stessa del governatore erano usciti certi tuoni sordi e cupi, per non commettere il loro credito nel sostegno d’una causa che alla fine doveva esser perduta, s’erano ridotti a far vista di abbandonarla volontariamente, a mostrarsi irritati più che altri contra il loro scandaloso parente, a far gli antichi romani, e lasciarsi intendere che, mettendo le leggi e l’ordine publico innanzi agli affetti privati, avrebbero lasciato un libero corso alla giustizia. Con lui non potevano altro che mandargli avvisi di tempo in tempo, che s’egli toccava innanzi a quel modo, non facesse più conto della loro assistenza. Quanto agli amici dell’innominato, essi non erano per lo più gente che avesse voce per sé in quel capitolo; alcuni, è vero, imparentati con togati potenti, facevano con essi a favore dell’innominato gli ufici ch’egli sdegnava; ma tali ufici indiretti avevano poca forza contra le ire radicate e le pratiche degli avversarii, occulte in parte per timore, ma calde e insistenti.
Le cose erano in questo stato, quando una mattina si trovò in una via il cadavere malamente trafitto d’un uomo ch’egli odiava: (il manoscritto non dice di più), e la voce publica disegnò tosto l’innominato come autore del fatto. In senato, nel palazzo del governatore, nei gabinetti dei potenti nemici dell’innominato si mormorò che era venuta la volta di dar finalmente un grande esempio. Il capitano di giustizia ricevette ordine segreto di procedere alla cattura. Ordini tali contra tali uomini era ancor più difficile l’eseguirli che il darli: bisognava non lasciar traspirar nulla dell’intenzione, per sorprendere il nemico, e insieme dar molte disposizioni e mettere in campo forze straordmarie. Di queste forze poi non si poteva far capitale che fino ad un certo segno: quando si aveva che fare con un tiranno di conosciuta bravura, e circondato da una mano di disperati, il pjù dei birri vi andavano di mala voglia, alcuni si rincantucciavano anche per non lasciarsi trovare, o nel bello della spedizione la davano a gambe, o abbassate le armi e cavato il cappello dicevano: illustrissimo signore, vada pure liberamente, che noi non siamo per fargli male. E quand’anche nessun di loro avesse intelligenze coi bravi del tiranno che si voleva prendere, se ne sarebbe trovato più d’uno che pel solo amore della pace avrebbe cercato qualche mezzo di farlo avvertire acciocché fuggendo togliesse sé ed altri d’impaccio. Come che la cosa andasse in questo caso, l’innominato ebbe tosto avviso da più d’un luogo dell’ordine fulminato contro di lui. Non pensò pure di mettersi in salvo colla fuga, non si curò di rimpiattarsi, si mostrò anzi in publico più del solito con un più grànde accompagnamento, per guardia insieme e per ostentazione, non rimise punto della sua solita arroganza; anzi spiò attentamente se qualche parente del morto gli passasse dinanzi con aria di provocazione, se alcuno de’ suoi nemici coperti volesse in quella occasione alzare un po’ la cresta e uscire appena appena dai termini consueti di rispetto, deliberato, e desideroso di farne in tali circostanze qualche dimostrazione più strepitosa. In questo mezzo fu avvertito che un bargello famoso per varie prese difficili, scaltrito negli agguati e intrepido negli assalti, coraggioso per natura e obbligato ad esserlo sempre più per conservare la sua riputazione di coraggio, essendogli stata questa volta promessa da certi potenti una grossa somma di danari se facesse il colpo, ne aveva preso l’impegno, e che troverebbe egli il modo di metter la musoliera all’orso e di menarlo legato in gabbia. Da quel momento la vita del bargello divenne un tormento per l’innominato; se lo sentiva, per dir così, pesare su le spalle. Per adescarlo e crescergli animo, finse d’essere entrato in timore, si tenne chiuso in casa, fece sparger voce di volere sfrattar di soppiatto e travestito. Molta gente diceva che s’eran veduti altri birboni dopo averne fatte tante e tante perdere in un tratto quel gran rigoglio quando la loro ora era venuta; gli amici non sapevano più che pensare; egli rintanato coi suoi bravi non si lasciava veder da nessuno. I birri che fino allora avevano giucato dalla lunga, cominciarono a ronzare in frotte nei contorni della casa, a tenersi ai canti della via: il bargello li metteva a posto, li moveva, dirigeva ogni cosa, girava travestito, teneva e faceva tener l’occhio ora alla porta, ora agli sbocchi della via, sbirciava con certi suoi occhi cervieri chiunque uscisse di qua o di là, temendo sempre che il suo uomo non gli scappasse sotto qualche travisamento. Ma l’uomo che pensava a fargli tutt’altro tiro che quello, avvertito un dì sul vespero che il bargello vigilante s’era piantato ad un canto della via, chiama un suo ragazzaccio ch’egli andava allevando al patibolo, gli pone una valigetta su le spalle, e lo ammaestra che esca da quel canto, strisciando dietro il muro a guisa di chi vorrebbe passare inosservato. Mosso questo zimbello egli mette l’occhio a un pertugetto d’una imposta chiusa per vedere che accade nella via; e pochi istanti dopo vede birri a due, a tre venire innanzi e allogarsi dietro gli angoli di questa e di quella casa vicina, e poi avanzarsi il bargello in persona, entrare in una porta, star qualche momento, uscire, entrare in un’altra più vicina, far capolino, guardar fuori. Lascia in vedetta a quel pertugio un servo che desse un gran fischio quando il bargello porrebbe il piè nella via e verrebbe verso la casa, scende in fretta con molti altri, e li fa star pronti in arme sotto il portico; egli cheto cheto va nell’androne a porsi a canto una parete, tenendo colla destra il cane e il grilletto, colla sinistra la canna d’una sua carabina terribilmente famosa al pari di lui. Un fischio, un salto alla soglia, una sguardata, una mira, uno scoppio, il bargello per terra, tutto ciò avvenne in sei secondi. L’assassino rientrò subitamente, chiamò i bravi, e alla testa loro piombò addosso ai birri che sorpresi dal colpo e sopraffatti dal numero, la diedero a gambe.
2 La città fu piena del caso. La notizia ne giunse al palazzo di giustizia coi birri più corridori: il capitano corse a darla al governatore. Per l’ordinario i governatori non s’impicciavano in in queste faccende: non già che fosse massima di lasciar fare i tribunali; era anzi massima che i governatori potessero non solo far le leggi, ma applicarle, derogare, dispensare, dare in ogni caso gli ordini che loro paressero a proposito. Molti infatti ne venivan dati in loro nome; ma per lo più non v’era altro che il nome; l’attenzione, la volontà, e l’opera loro si esercitava in tutt’altri oggetti.
Chi nasce in questo mondo nei tempi ordinarii, dice il manoscritto, è come un sonatore d’una grande orchestra in una festa, che si sveglia nel mezzo d’una sonata e d’una danza, e trova una musica avviata, un tuono, una misura: bada un momento, per capirla bene, e poi piglia il suo stromento e cerca d’entrare in concerto. Cosi quegli spagnuoli, che nascevano per essere governatori dello stato di Milano, trovavano una musica avviata di faccende in corso, un gran numero d’idee stabilite e predominanti, e fra l’altre questa: che la potenza spagnuola aveva o voleva, o doveva avere su tutta l’Italia, almeno un predominio. Quando uno veniva spedito a questo governo, vi portava l’idea fissa che mantenere ed estendere questo predominio doveva essere la sua grande occupazione. Lo era in fatti, e lo sarebbe stata, quand’anche, egli, per impossibile, non avesse avute né istruzioni né inclinazione a ciò. Perché trovava incamminata un’altra macchina opposta e complicatissima, mossa continuamente da altre potenze che non volevano quella storia del predominio, e ne stavano sempre in sospetto, si trovava a fronte e da ogni lato un vasto e confuso sistema di resistenze, di difese, di offese, contra il quale gli bisognava pure ingegnarsi. Bisognava dunque vigilare tutti i principi e gli stati d’Italia, mantener questi nella devozione consueta, contener quegli altri, o spaventarli, o attirarli, conoscere i loro pensieri, inimicarli, rinconciliarli, secondo le occorrenze: un mondo di cose. Oltracciò i governatori erano capitani generali, e conducevano in persona le guerre che avevano fatte nascere o che non era loro riuscito d’impedire, in Italia, o che vi si facevano come parte di guerre più generali. Avevano quindi sempre gli occhi e le mani in quella grande matassa che avevano trovata scompigliata, e scompigliata
lasciavano partendo dal governo o dal mondo; e non restava loro troppo ozio, per le cose di governo interiore: le facevano fare o le lasciavan fare, mettevano di gran ghirigori in fondo a molte carte, su le quali era scritto che eglino erano risoluti che le tali cose andassero al tal modo, senza curarsi poi di sapere né il che né il perché, fuor che in alcuni casi in cui per qualche cagione straordinaria avevano essi realmente una volontà, o una ne veniva loro inspirata. Il caso dell’innominato era di questi: i suoi molti e grandi nimici lo avevano dipinto al governatore come uno spirito rubello, un perturbatore sedizioso, un uomo la cui audacia e impunità nel delitto accusavano d’impotenza o di trascuraggine la publica autorità; e nel vero non era calunnia.
Il governatore già irritato, al ricevere di quella notizia, ritenne il capitano, ebbe a sé membri del consiglio segreto, senatori, altri magistrati; si tenne consulta. Intanto colui che ne era il soggetto, rientrato in casa, e ben rinchiuso aveva pigliata la risoluzione di non si muovere e si preparava ad ogni evento; ma in quella notte stessa, qualche amico venuto a lui di soppiatto gli comunicò di avere avuto avviso segreto e certo che il governatore aveva personalmente preso impegno in queU’affare, ed era deliberato di fare all’ultimo uscir del castello un corpo di moschettieri che si unisse ai birri, e desse l’assalto alla casa. Non era più il caso di esitare: le forze d’un privato, anche nel supposto inverisimile che in tanto pericolo3 gli fossero rimaste costanti, non potevano competere con un tale avversario ogni volta che volesse davvero adoperar tutte le sue. Sul far del giorno l’innominato usci con tutti i suoi bravi, e si andò a ritirare in un convento vicino. In quei luoghi gli ospiti pari suoi accompagnati, o no dovevano esser sofferti anzi accolti quand’anche fossero tutt’altro che desiderati; e la forza secolare non supponeva pure che fosse possibile d’introdurvisi. Un tal passo acquetò anche un poco la furia, e indebolì l’impegno del governatore: perché nei casi in cui si trattava più di vincere un puntiglio che di punire un reo, la fuga di questo in un asilo poteva parere una specie di soddisfazione alla potestà civile, un confessare che non si ardiva di farle fronte nel campo della sua giurisdizione; e per un uomo che ha molti affari grossi poco basta a raffreddarlo in uno che non sia dei principali. Però comparve in quel giorno una grida del governatore stesso, colla quale a chi consegnasse vivo l’innominato nelle mani della giustizia, in maniera che sopra di lui ella potesse essercire li suoi atti, venivano promessi mille scudi di premio, e la liberazione di quattro banditi, l’impunità propria al consegnante s'egli fosse complice, e la liberazione s’egli fosse bandito, purché non lo fosse per certi casi riservati.
4 Vorrei poter risparmiare al lettore tutte queste notizie e riflessioni generali su le opinioni, gli usi, le istituzioni di que’ tempi, e condurlo speditamente di fatto in fatto fino al termine della storia; ma i fatti che mi tocca di raccontare sono talvolta così dissimili dall’andare comune del nostri giorni, così estranei alla nostra esperienza, che a dar loro un certo grado di chiarezza, mi par pure indispensabile di spiegare alquanto lo stato di cose nel quale e pel quale potevano essere. Altrimenti, a quelli che non hanno fatti studii particolari sopra a quell’epoca, sarebbe come presentare un osso d’uno di questi animaloni di razze perdute, senza dare un po’ di descrizione dello scheletro, o di quel tanto che se n’è potuto trovare, e mettere insieme, per la quale si vegga come quell’osso giucava. S’io dicessi semplicemente che tutte le promesse di quella grida non produssero alcun effetto, senza darne alcuna ragione, forse a taluno la cosa potrebbe parere strana e inverisimile; due parole dunque, abbiate pazienza, anche su questo proposito.
L’intento delle gride, chiamate d’impunità, e che appunto avevano un nome proprio per esser molto frequenti, l’intento era, come ognun vede, d’indurre i rei medesimi a farsi ministri della giustizia, e di seminare la diffidenza fra loro. Perduta la speranza e abbandonata la pretensione di ottener l’effetto intero degli editti, si voleva almeno, col sagrifizio d’una porzione del publico esempio, assicurarne un’altra, e la più importante. Ma, senza parlare della sensatezza dell’intento né del merito morale dei mezzi, che questi, in moltissimi casi, riuscissero inefficaci a conseguirlo, ne abbiamo la prova in molte gride d’impunità contra uno o più banditi, ripublicate molti anni dopo la prima publicazione. L’impunità d’un delitto era un premio di poco valore per complici che d’ordinario ne avevano addosso molti altri, e che intanto godevano, con fatica è vero, una impunità intera all’ombra del loro capo. La liberazione era un debole allettamento per banditi che non vivevano né volevano vivere se non di quelle cose per le quali s’incorreva nel bando. Di più, per ottenere questi vantaggi, quali che fossero, il complice o il bandito doveva necessariamente aver che fare con la giustizia, confidarsi ad una autorità cavillosa e malfida, la quale certamente desiderava più di sterminarlo che di dargli una ricompensa, e che disponeva di procedure complicatissime, e non solo operava ad arbitrio, ma ne aveva consecrato anche il nome. Quanto a quell’esca del premio pecuniario, ella non poteva tentare che una classe di persone: le gride costituivano birro o carnefice ogni cittadino che avesse voluto farne l’uficio e meritarne la paga; ma l’uso della forza publica e le idee comuni tendevano a tutt’altro che a far risguardare come onorevole e virtuosa una tale cooperazione del privato a quella forza, e nessun uomo dabbene e pacifico avrebbe voluto affrontare un pericolo e l’infamia, né vincere una ripugnanza fondata in gran parte sopra motivi onesti, per amore degli scudi. Non restavano dunque che i facinorosi di professione, e gli scherani stessi del tiranno; ma quando uno di questi fosse riuscito a far sicuramente il suo colpo, doveva poi aspettarsi la vendetta di lui, se preso egli tornava in libertà, o dei suoi parenti ed amici, s’egli fosse stato morto; doveva, dico aspettarsela con certezza, in un tempo in cui la vendetta era dai più tenuta come una obligazione d’onore, e l’assassinio in questi casi non era contato fra quelle azioni che lo tolgono. Tutto ciò quando l’impresa di prendere o di uccidere un tiranno fosse stata per sé agevole; ma i tiranni adoperavano anch’essi naturalmente tutti i mezzi che potevano, per assicurarsi contra la forza aperta e contra le insidie; di questi mezzi ne avevano assai; e quel che è osservabile, le gride stesse fatte contro di essi, ne suggerivano, ne somministravano loro alcuni, e dei più potenti.
Le società civili (ancora un momento di pazienza) sono state spesso paragonate al corpo umano, i legislatori ai medici, le leggi alle medicine: e in fatti queste cose si somigliano molto, se non altro in ciò, che son tutte cose assai curiose. Hanno poi altre somiglianze parziali; eccone una. Un medico amministra un rimedio ad intenzione che faccia nel corpo una tale operazione, che il rimedio fa o non fa, ma ne fa poi sovente altre che il medico non ha volute né prevedute, che non riconoscerà come conseguenze del suo fatto, quando si manifestino, ma dirà: oh, vedete un po’ che scherzi fa la natura! Lo stesso accade sovente in fatto di leggi: e siccome poi le società civili sono infermi di lunga vita, sono, per servirci di un modo proverbiale, quelle conche fesse che bastano un pezzo, così alle volte, appena dopo cento, dugento, trecent’anni, si comincia a sospettare, ad aver sentore, che certe doglie vecchie d’un corpo sociale, certi sintomi stravaganti e non mai spiegati, sono effetti d’uno specifico mirabile applicato o cacciato giù fin da quel tempo per ordine d’un medico valente, (parlo in metafora) o per consulto di più valenti medici. V’ha anche alcuni di questi effetti né voluti né preveduti dal legislatore che danno in fuori immediatamente. Le gride di cui parliamo dovevano produrre inevitabilmente questo: che i tiranni, quanto più erano minacciati da quelle, tanto più si tenessero intorno di quei malfattori segnalati, ai quali le gride non promettevano grazia, e che non avendo altra speranza di saLvezza che nel loro signore, non solo non erano tentati d’ordirgli insidie, ma interessati a guardarlo dalle altrui. Cosi quegli atti legislativi tendevano, non per intenzione, ma in fatto, a riunire i più perniciosi e determinati ribaldi, davano per così dire un nuovo bisogno e un nuovo indicamento di organizzazione alle forze nemiche della giustizia in tutti i sensi di questa parola. Che se, per uscire da questo inconveniente, si fosse estesa ad ogni classe di colpevoli la promessa dell’impunità e della liberazione, si cadeva nell’altro terribile di rinunziare anche alla speranza, alla volontà, di non lasciar senza pena almeno certi più atroci misfatti. Con queste osservazioni si capisce tanto o quanto il come a nessuno venisse voglia di prendere il tiranno innominato, né tanti altri banditi come lui.
In quell’asilo egli dovette pensare ai casi suoi. Grazia dall’autorità non era da sperarne, né manco egli era inclinato a ricorrere ad un tale rimedio; rimaner quivi rinchiuso, a che fare? e fin quando? Uscirne, e tornare a casa sua a far la vita di prima, non era cosa riuscibile, al punto a cui aveva spinte le cose. Risolvette dunque di sfrattar dallo stato. Suppongo che a questa circostanza debba riferirsi un tratto della sua vita, cbe è menzionato nella storia sopra citata del Ripamonti, un tratto che basterebbe a dare un’idea dell’uomo, e che noi riporteremo perciò, traducendolo alla meglio dall’energico latino di quello scrittore. «Una volta, dic’egli, che costui, non so per qual cagione, volle sgombrare il paese, la paura che mostrò, il riguardo e la segretezza che usò, furono tali: traversò la città a cavallo, con un seguito di cani» (gli uomini si sottintendono) «a suon di tromba; e passando dinanzi al palazzo di corte, lasciò alle guardie un’imbasciata di villanie pel governatore». Uscito ch’ei fu dello stato, si publicò un altro bando che ne lo dichiarava cacciato, e gli levava la protezione regia, sì che, tornando, potesse esser fatto prigione e impunemente offeso da tutti. mantenute le promesse anteriori, e aggiunta la liberazione di quattro banditi a chi lo consegnasse vivo o morto.
Dove egli andasse a posarsi, o dove errasse, che facesse fuori e quanto tempo vi rimanesse, né il manoscritto lo dice, né altrove ne ho trovata menzione: trovo soltanto che una mattina egli pigliò il partito di tornarsene in paese. O fosse cangiato quel governatore che s’era dichiarato suo nemico personale; fossero mancati di vita o decaduti di potenza alcuni de’ suoi più capitali nemici, o venuti in potenza de’ suoi amici; o fosse levato il bando per qualche potentissima raccomandazione, (che anche un tal supposto è verisimile in quella condizione di tempi); o fossero nate altre circostanze qualunque da inspirargli una nuova sicurezza, o quel suo animo gliene tenesse luogo, certo è ch’egli stimò di poter tornare liberamente a casa sua e di stabilirvisi, e vi tornò in fatti non però in Milano, ma in un castello d’un suo feudo su l’estremo confine col territorio bergamasco, e allora collo stato veneto. È parimente certo che nella sua assenza egli non aveva rotte le pratiche né intermesse le corrispondenze con que’ tali suoi amici e che stabilito nel suo castello continuò ad essere unito con loro, per tradurre letteralmente da Ripamonti, «in lega occulta di consigli atroci e di cose funeste». Pare anzi che quel terribile faccendone di misfatti approfittasse dell’esiglio per estendere tali corrispondenze, e contraesse allora in più alti luoghi certe nuove terribili pratiche, delle quali il Ripamonti parla con una sua brevità misteriosa: «Anche alcuni principi esteri», dice questo scrittore, «si valsero più volte dell’opera sua per qualche importante uccisione, e in più d’un caso gli spedirono da lontano «rinforzi di gente che servisse a ciò sotto i suoi ordini». Noi abbiamo ben fatto il possibile per trovar qualche più distinto particolare d’un fatto cosf importante alla cognizione e del personaggio, e dello stato della società in quel tempo; ma senza effetto. La storia, e massime quella dei costumi, è nei libri, come nei musei d’anticaglie, a pezzi e bocconi, e troppo spesso, principalmente nei libri, se ne trova di quelli che non si possono mettere insieme con altri pezzi e con altri bocconi, tanto da vederne una figura, e da ricavarne una notizia.