Gli duoi fratelli rivali/Atto IV
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ATTO IV.
SCENA I.
Simbolo, don Ignazio.
Simbolo. Padrone, vi è passata ancora quella rabbia?
Don Ignazio. Anzi me n’è sovraggionta dell’altra.
Simbolo. Stimava che, la notte come madre de’ pensieri avendovi meglio consigliato, foste mutato di parere.
Don Ignazio. Piú mi ci son confirmato.
Simbolo. Frenate tanto sdegno che impedisce il dritto della raggione, ché le vostre parole potrebbono cagionar qualche gran scandolo.
Don Ignazio. Che vorresti dunque che facessi?
Simbolo. Ch’avendola a rifiutare, la rifiutaste con modi non tanto obbrobriosi.
Don Ignazio. Il fuoco d’amore è rivolto in fuoco di sdegno; e l’uno e l’altro m’hanno inperversato di sorte che mi parrebbe poco se la sbranassi con le mie mani.
Simbolo. Fareste cosa che ve ne pentireste.
Don Ignazio. Vo’ che sia a parte della pena, poiché è stata a parte del diletto.
Simbolo. Or non potrebbe esser che quella notte vostro fratello v’avesse ingannato?
Don Ignazio. Non sai che dici.
Simbolo. Dico cose possibili e dubbiose ancora.
Don Ignazio. Non merita una sua pari le sia portato tanto rispetto.
Simbolo. Considerate che nella sua famiglia si raccoglie tutta la nobiltá di Salerno, e facendo ingiuria ad uno macchiate molti. Ecco il padre e i principali della cittá che vengono incontro per ricevervi con molt’amorevolezza; ma troveranno in voi tutto il contrario.
SCENA II.
Eufranone, don Ignazio, Simbolo.
Eufranone. Caro signore, siate il benvenuto, per mille volte molto desiato dalla sposa e da’ principali di Salerno!
Don Ignazio. Io vengo con voluntá assai diversa da quel che pensi: stimi che venghi a sposar tua figlia ed io vengo a rifiutarla.
Eufranone. Non sperava sentir tal nuova da voi! Ma in che ha peccato mia figlia che meriti tal rifiuto?
Don Ignazio. D’impudicizia e disonestá.
Eufranone. Onesta è stata sempre mia figlia e cosí stimata da tutti, e non so per qual cagione sia impudica appresso voi solo.
Don Ignazio. Tal è come dico.
Eufranone. Or non vi pregai io, allor che tanto ansiosamente m’era chiesta dalla vostra leggierezza, che ci aveste pensato prima; e al fin vinto dalla vostra ostinazione ve la concessi? Ché il cuor mi presaggiva quanto ora m’accade, che passati quei furori vi pentireste; e per mostrar giuste cagioni del rifiuto, offendete me, lei e tutta la cittade. Bastava mandare a dire ch’eravate pentito, ché io contentandomi d’ogni vostro contento mi sarei chetato, senza svergognarmi in tal modo.
Don Ignazio. Io non spinto da giovenil leggierezza ciò dico, ma da giustissime cagioni.
Eufranone. Dunque dite che mia figlia è infame?
Don Ignazio. Ce lo dicono l’opre.
Eufranone. Se non foste quel che sète e men di tempo, io vi risponderei come si converrebbe. Ma che cose infami avete udite di lei?
Don Ignazio. Quelle che non arei mai credute.
Eufranone. Nelle cose degne e onorate si trapone sempre mordace lingua.
Don Ignazio. Qui non mordace lingua ma gli occhi stessi furon testimoni del tutto.
Eufranone. Né in cosa cosí lontana dall’esser di mia figliuola dovrebbe un par vostro creder agli occhi suoi, che ben spesso s’ingannano.
Don Ignazio. Che un uomo possi ingannar un altro è facil cosa ma se stesso è difficile: ché quel che vidi, molto chiaramente il viddi, e per non averlo veduto arei voluto esser nato senz’occhi.
Eufranone. Lo vedeste voi a lume chiaro?
Don Ignazio. Anzi a sí nimico spettacolo rimasi senza lume!
Eufranone. Gran cose ascolto!
Don Ignazio. Or ditele da mia parte che desiava lei per isposa stimandola onesta e onorata; ma avendone veduto tutto il contrario, si goda per sposo chi la passata notte goduto s’ave.
Eufranone. Farò la vostra ambasciata e farò che le penetri ben nel cuore. Ahi, misero padre d’infame figlia, e quanto son dolente d’averti generata!
Simbolo. Non v’ho detto, padrone, che il vostro parlare arebbe cagionato qualche ruina? ch’essendo egli molto superbo né punto avezzo a sopportar ingiurie, con che rabbiosa pacienza ascoltava; e con gli occhi lampeggianti di un subbilo sdegno, ripieno di un feroce dolore, die’ di mano al pugnale e se n’è gito su dove fará qualche scompiglio. L’onda, che batte ne’ scogli, si fa schiuma, sfoga e finisce il furore; ma se non fa né rumor né schiuma, s’ingorga in se stessa, si gonfia e fa crudelissima tempesta. Dal ferro delle vostre parole, come da una spada, ha rinchiuso il dolor dentro: sentirete la tempesta. Sento tutta la casa piena di gridi e di romore. Andiamocene, se non volete ancor rallegrar gli occhi vostri del suo sangue; ché se foste constretto vederlo, dovreste serrar gli occhi per non mirarlo.SCENA III.
Martebellonio, Chiaretta, Leccardo.
Martebellonio. Or mira che bizzari incontri vengon al mio fantastico cervello, ché pensando far correre un poco il mio cane dietro una bella fiera, s’è incontrato con una pessima fiera.
Chiaretta. Buon can per certo, che, per aver avuto tutta notte la caccia tra’ piedi, è stato sí sonnacchioso che non ha voluto mai alzar la testa né indrizzarsi alla via per seguitarla.
Martebellonio. Il mio can ha piú cervello che non ho io, che conosce all’odor la fiera, ché né per stuzzicarlo né per sferzarlo si volse mai spinger innanzi.
Chiaretta. Va’ e fa’ altre arti, ché di caccia di donne tu non te n’intendi.
Martebellonio. Troppo gran bocca avevi tu aperta, che aresti ingiottito il cane e il padrone intiero intiero.
Chiaretta. Non bisognava altrimenti, avendo a combatter con can debole di schiena.
Martebellonio. Io non so punger cosí con la spada come tu pungi con la lingua; ma ti scampa ché sei ignobil feminella, che vorrei con una stoccata passarti da un canto all’altro.
Chiaretta. Non temo le tue stoccate, ché la tua spada si piega in punta.
Martebellonio. O Dio, se non temessi che, cavando la spada fuori, la furia dell’aria conquassata movesse qualche tempesta, vorrei che la provassi! Ma me la pagherá quel furfante di Leccardo.
Leccardo. Menti per la gola, ché son meglio uomo di te!
Martebellonio. Dove sei, o tu che parli e non ti lassi vedere?
Leccardo. Non mi vedi perché non ti piace vedermi: eccomi qui!
Martebellonio. Mi farai sverginar oggi la mia spada nel sangue di poltroni.
Leccardo. e tu mi farai sverginar un legno che non ha fatto peccato ancora.
Martebellonio. Sei salito sul tetto ché non ti possa giungere: come ti arò in mano, te squarterò come una ricotta.
Leccardo. E tu sei posto in piazza per aver molte strade da scampare, ché dubbiti che non voglia spolverizzarti la schena.
Martebellonio. Se m’incappi nelle mani...
Leccardo. Se mi scappi dalle mani.
Martebellonio. ...ti sbodellerò!
Leccardo. Tu non sai sbudellar se non borse.
Martebellonio. Ah, poltronaccio, ti farò conoscer chi son io!
Leccardo. Ti conosco molto tempo fa, che fosti facchino, aiutante del boia, birro, sensale, ruffiano.
Martebellonio. Ah, mondo traditore, ciel torchino, stelle nemiche! fai del bravo perché non posso salir su dove sei.
Leccardo. E tu fai del bravo perché non posso calar giú dove tu sei.
Martebellonio. Cala qua giú e pigliati cinquanta scudi.
Leccardo. Sali qua tu e pigliatene cento.
Martebellonio. Cala qua giú, traditore, e pigliati mille scudi.
Leccardo. Sali qua tu, forfante, e pigliatene dumila.
Martebellonio. O Dio, che tutto mi rodo per aver in man quel traditore!
Leccardo. O Dio, che tutto ardo per non poter castigar un matto!
Martebellonio. Con un salto verrò dove tu sei, se ben la casa fusse piú alta di Mongibello.
Leccardo. Con un salto calarò giú, se la casa fusse piú alta della torre di Babilonia.
Martebellonio. Tu sai che ti feci e che ti ho fatto e che ti soglio fare, né cesserò di far finché non t’abbi fatto e disfatto a mio modo.
Leccardo. Non potendo far altro tirerò una pietra dove sei: ti vo’ acciaccare i pidocchi su la testa.
Martebellonio. O Dio, che montagna è questa!
Leccardo. È la montagna di Mauritania, che è caduta dal cielo, che ti manda Marte tuo padre, messer Cacamerdonio.
Martebellonio. (Questo incontro alle genti di Marte! San Stefano, scampami!). Mi partirò, t’incontrerò e ti gastigherò all’ordinario come soglio.
Leccardo. Ed io con bastonate estraordinarie come soglio.
Martebellonio. (In somma bisogna l’uomo serbar la sua dignitá! che onor posso guadagnar con costui? Alla smenticata e alla muta, incontrandolo al buio, li darò la penitenza delle parole e della burla che m’ha fatto).
Leccardo, (Io ho avuto a crepar della risa della battaglia fatta all’oscuro con Chiaretta! Vo’ andar a raccontarla a don Flaminio; ma andrò prima a casa a veder che si faccia).
SCENA IV.
Don Flaminio, Panimbolo.
Don Flaminio. Finalmente è pur stato vinto colui che era cosí malagevole a vincere, e preso chi pensava prender altri. Il volpone è caduto nella trappola e poco l’ha giovato la sua astuzia, ché ha trovato chi ha saputo piú di lui.
Panimbolo. Or drizzisi un trofeo all’inganno, un mausoleo alla fraude, un arco trionfale alla bugia, un colosso alla falsitá, poiché per lor mezo avete conseguito il sommo de’ desidèri.
Don Flaminio. Petto mio, se ben per l’addietro sei stato bersaglio di tanti affanni, ricetto di tante pene, respira e scaccia da te tanta amaritudine. Or andiamo a tôr il possesso di Carizia, non temiamo piú il fratello. Gran maraviglia ch’essendo gionto a quel segno ove solo aspirava il cor mio, non sento quell’allegrezza che devrei; né ho passata notte piú fastidiosa da che nacqui. Avendo gli occhi rivolti alle prime passioni, non l’ho mai chiusi né verso l’alba riposai molto: sogni, ombre, larve e turbolenze m’avean inquietato l’animo, e tutti i sogni son stati travagli di Carizia. Mi destava per non conportargli, e pur dormendo sognava travagli. Veramente i travagli son ladri del sonno.
Panimbolo. Don Ignazio è di spiriti ardenti: non ará indugiato fin adesso farli intendere che piú non l’accetta per isposa.
Don Flaminio. L’animo mio teme e spera: spera nel timore e teme nella speranza. Se ben desio Leccardo ché mi porti felici novelle, pur temo qualche sinistro successo: vorrei venisse presto, ché ogni indugio mi potrebbe apportar danno.
Panimbolo. Ecco s’apre la porta e ne vien fuori.
SCENA V.
Leccardo, don Flaminio, Panimbolo.
Leccardo. (Se mi fussero stati posti innanzi galli d’India cotti senza esser impillottati, caponi duri, brodo macro e freddo, non arei potuto aver maggior dispetto di quel che ho avuto quando viddi morta Carizia. Oh come intesi darmi colpi mortali allo stomaco e alla gola! Veggio don Flaminio molto gioioso; ma diverrá subbito doglioso come saprá quanto sia per dirgli).
Don Flaminio. Leccardo mio, i segni di mestizia che porti scolpiti nel fronte mi dán segno d’infelice novella: parla con la possibil brevitá. Oimè, tu taci e par che col tuo silenzio vogli significar qualche sinistro accidente!
Leccardo. (Desia saper quello che li dispiacerá d’averlo saputo; ma vo’ meno amareggiarlo al possibile).
Don Flaminio. Deh, comincia presto!
Leccardo. Di grazia, portami al monte di Somma, dove nasce quella benedetta lacrima che bevendola ti fa lacrimare, acciò bevendone assai possa lacrimar tanto che basti, ché or mi stanno gli occhi asciutti come un corno.
Don Flaminio. (Col tardar piú m’accresce il sospetto).
Leccardo. Oimè, quella faccia piú bianca d’una ricotta, quelle guancie piú vermiglie di vin cerasolo, e quei labrucci piú cremesin d’un presciutto, quella... , ahi! che mi scoppia il core, ...
Don Flaminio. Che cosa? sta male?
Leccardo. Peggio!
Don Flaminio. Ecci pericolo della vita?
Leccardo. Peggio!
Don Flaminio. È morta?
Leccardo. Peggio!
Don Flaminio. Che cosa piú peggio della morte?
Leccardo. ... è morta, e morta disonorata!
Don Flaminio. O Dio, che nuova è questa che tu mi dai?
Leccardo. E mi dispiace darvela: e non vorrei sentiste da me quello che sète per intendere; ma avendolo a sapere, fate buon animo. Don Ignazio non so che ingiuriose parole disse ad Eufranone. Il quale, vinto in quel punto dal furore e inasprito dall’ira, con la schiuma in bocca com’un cignale, venne su e caricando la figlia di villanie correa col pugnale in mano per infilzarla come un tordo al spedo. A questo la moglie se le fe’ incontro e lo risospinse adietro. Instupedí la povera figlia e aiutata dalla sua innocenza diceva: — Padre mio, ascolta le mie ragioni; se conosci che ho fallato, ti porgerò il petto ché mi ammazzi! — Egli, come un vitello che cerca di scappar di mano di coloro che lo conducono al macello, cercava scappar da man di quelli che il tenevano. Carizia cercava parlare, ma le lacrime l’impedivano; poi disse a fatica: — La conscienza mia pura mi liberará dall’obbrobrio della calunnia, ché questa sola ha lassato Iddio per consolazion degl’innocenti! — Queste ultime parole morîr fra le labra, ché appena fûr udite; e morí prima della ferita. S’affoltavan i parenti per sovenirla; ma — Lasciate lasciate — gridava Eufranone — che l’uccida il dolore prima che l’abbi ad uccider il ferro, e che prevenga la violenza la voluntaria morte; e questo volerla far vivere è piú tosto opra di crudeltá che di pietá! — Cosí morí com’un agnello, e rimase con la bocca un poco aperta com’un porchetto che s’arroste al foco. Ancor morta par bella e t’innamora, perché è morta senza offesa della sua bellezza. ...
Don Flaminio. Ahi, padre troppo austero e troppo nemico del suo sangue!
Leccardo. ... Gli occhi miei, che mai piansero, piansero allora. Eufranone la fe’ subbito inchiudere in un’arca e fecela sotterrar nella chiesa vicina per la porta di dietro, per non poner a romor la cittade.
Don Flaminio. Dunque è pur vero che l’anima mia sia morta, e seco morto ogni mio bene; e sepolta ancora, e con tanta bellezza sepolta ogni mia gioia e me sepolto in un infinito dolore! Gli occhi, che avanzavan il sol di splendore, son chiusi in eterno sonno, e la bella bocca in perpetuo silenzio. Ahi, non fia vero giá ch’essendo tu morta, io voglia restar in vita. È morta la sposa nel piú bello delle speranze! Oh com’invan s’affatica chi vuol contrastar col cielo, il qual è piú possente d’ogni umano consiglio! Ho dato la morte da chi sperava la vita; ed io, che di tanto mal son caggione, vivo e ardisco spirar quest’aria? Ho nociuto a me stesso e patisco il mal che ho fatto a me medesimo. Che m’ha giovato aver travagliato tanti anni nella guerra, esposto il petto a mille perigli, imitar tanti esempi onorati per segnalarmi cavalier d’eterna lode, e or per un sensual appetito son stato nocevol cagione della morte d’una innocente? tradito un fratello, infamato lei e il padre, e disonorato il parentado? Ecco oscurata la gloria di tanti anni e di tante fatiche, e divenuto non cavalier d’onore ma d’infamia, non di pietá ma d’impietade. Dove mi nasconderò che non sia visto da uomo vivente? dove andrò, dove mi nasconderò ché fugga e mi nasconda a me stesso? ché la coscienza afflige piú di quanti tormenti può dar uomo vivente. Orsú, come cagione di tanto male, bisogna che pigli vendetta di me medesimo, che con un laccio mi toglia da tanto vituperio. Ahi, Panimbolo, tu fosti autor del malvaggio e da me mal preso consiglio; ed io piú isconsigliato che lo presi, ché da sí cattivo principio non poteva aspettar altro che l’infame e doloroso fine.
Panimbolo. Padrone, non è stato cosí mal il mio consiglio come la mala fortuna, ché l’una è sovraggionta all’altra, e noi per ischivarne una siamo incorsi in una peggiore: e da un error ne vengono mille, e ogni cosa è riuscita in nostro danno, e il mal sempre è andato crescendo di mal in peggio; né la fortuna istessa arebbe potuto rimediar a tanti infortuni. E quando la mala fortuna vuol rovinar alcuno, fa possibile l’impossibile.
Don Flaminio. Non è stata tanto la mala fortuna quanto il tuo cattivo consiglio; né in cose disconvenevoli dovevi tu prestarmi consiglio né agiuto.
Panimbolo. Voi che mi avete sforzato con tanti comandi m’accusate contro ragione. Ma chi può gir contro il cielo? Ed essendo il mondo cosí sregolato e insconsigliato, con che ragione o consiglio potete regolarvi con lui? Non conoscete, come umana creatura, che tutte le cose son instabili e incerte e che il mondo inchina or ad una e or ad un’altra parte? E l’uomo accorto nella necessitá de’ pericoli deve accomodar l’animo suo alla prudenza; ma la nobiltá del vostro sangue dovrebbe destar in voi l’ardire e farsa caminar nel termine della modestia, soffrir e conservar voi stesso a piú liete speranze.
Don Flaminio. Io non temo piú i colpi della fortuna, ché è morta ogni fortuna per me: non bisogna piú ordir fraudi e inganni; non ho piú sospetto di niuno, poiché è morta la cagion di tutte queste cose. Ahi, che pena converrebbe al mio fallo? Mi conosco degno di maggior pena che la morte: bisognaria che morisse d’una morte che mai finisse. Ma prima che morisse, desiderarei restituir l’onor che l’ho tolto, e scoprir l’inganno che l’ho fatto.
Panimbolo. Ecco il vostro fratello che viene a voi.
SCENA VI.
Don Ignazio, don Flaminio.
Don Ignazio. (Veggio don Flaminio assai doloroso).
Don Flaminio. Don Ignazio — ché al tradimento che v’ho fatto, non son degno d’esservi né di chiamarvi fratello, — vengo a voi ad accusar il mio fallo: io son quello iniquo che avanzo d’iniquitá tutti gli uomini.
Don Ignazio. Fratello, che aspetto pallido è il vostro! che pianto, che parole son queste che intendo da voi!
Don Flaminio. Io son quello che a torto ho accusato appo voi quella donna celeste, il cui corpo fu tanto bello che non si vidde mai cosa tale.
Don Ignazio. Io non so ancora di che cosa parliate.
Don Flaminio. Io son quello che v’ho ingannato e tradito, e con quelle false illusioni di notte ho fatto veder che Carizia fusse inonesta.
Don Ignazio. O estremo dolor, cessa alquanto fin ch’intenda da costui come il fatto è seguito.
Don Flaminio. Io, essendo innamorato di Carizia da quell’infelice giorno che fu la festa de’ tori, nascondei l’amor mio verso lei a voi quanto potei. Poi avendo inteso quanto voi piú degnamente avevate operato di me, accecato da una nebbia di gelosia, vi feci veder quell’apparenza di notte, nella quale il parasito e la serva di casa sua mi fûr ministri. E fu il mio intento che, voi ricusandola, io col prezzo del tradimento mi avesse comprato le sue nozze; ma il mio pensiero ha sortito contrario fine, perché è morta.
Don Ignazio. O Dio, quante mutazioni in un tempo sente l’anima mia! intenso dolor della sua morte, pena della sua infamia e innocenza, gelosia dell’inganno, rabbia dell’offesa che hai fatta al padre! Ed è possibil che si trovi un cuore, non dico di cavaliere, ma cosí barbaro e inumano in cui abbia potuto cadere cosí mostruosa invenzione? In qual anima nata sotto le piú maligne stelle del cielo, in qual spirito uscito dalle piú cupe parti dell’inferno, vestito d’umana carne, ha potuto capire sceleraggine come questa?
Don Flaminio. Eccomi, buttato in terra, abbraccio le tue ginocchia, ti porgo il pugnale: la crudeltá che ho usata contra voi, usate voi contro me. Qua si tratta del vostro onore: io son quello che t’ho tradito, infamato e tolta la sposa. Tu sei infame di doppia infamia se non te ne vendichi. Vorrei trovar le piú pungenti parole che si ponno, per provocarti ad un giustissimo sdegno.
Don Ignazio. O tu che non vo’ dir mio fratello, fatti indietro, non mi toccare, allontana da me le tue mani profane, ché non macchino il mio corpo! Patirò che mi tocchino quelle mani che m’han ucciso la sposa? Non contaminar le mie orecchie con le tue accuse; gli occhi miei rivolgono lo sguardo altrove, perché schivano di mirarti. Sgombra da questa terra, purga l’aria e il cielo infetto dal tuo abominevole spirito, porta fuora del mondo anima cosí scelerata e traditrice, e come hai saputo machinar tante fraudi, cosí machina un modo da fuggir dal mondo. Tu non morrai dalle mie mani: lascio che la tua vita sia la tua vendetta, vo’ che sopravivi al tuo biasmevole e infame atto, vo’ che venghi in odio a te stesso. Ma qual spirito dell’inferno ti spinse a tanta sceleraggine?
Don Flaminio. Le fiamme de’ suoi begli occhi, ch’accesero te dell’amore suo, accesero ancor me; e come la desiavate voi, la desiava pur io; e quel tradimento che v’ho fatto per possederla, m’imaginava che voi l’aveste fatto a me. Ma il caso, che maneggia tutte le cose, ha fatto succedere il tutto contro il mio pensiero. Ramentati quella infinita bellezza, e secondo quella giudica l’error mio. Qua ha peccato la sorte non la voluntá; e quando l’effetto che succede è contrario alla voluntá, purga il biasmo di chi il commette.
Don Ignazio. O falsa defension di vera accusa! Te accesero fiamme amorose de’ suoi begli occhi? Tesifone tenne l’esca, Aletto il focile, Megera percosse la pietra e ne scagliò fuori faville tartaree accese nel piú basso baratro dell’inferno. O notte, che fosti tanto cieca che non scernesti l’inganno, t’ingrossasti di folte tenebre, ti copristi di scuro manto per occultar fatto sí abominevole: vergognandoti di te stessa ti nascondesti in te medesima! Te nascondesti nella tua notte, o luna, che con disugual splendore facevi incerto lume: la nefanditá ti fe’ nascondere la tua faccia, perché ti turbò e ti spense il lume! O cielo, gira al contrario e conturba le stagioni; e il sole non dia splendore a questo secolo infame, poiché un fratello non è sicuro dall’insidie dell’altro fratello! Non so che nome potrá aguagliar l’opre tue, sí inumano, barbaro, traditore senza vergogna e senza timor di Dio: il mondo non ha nome con che possa chiamarti.
Don Flaminio. Supplice e lacrimoso ti sta dinanzi a’ piedi la cagion del tuo affanno: non chiede né perdono né vita, perché non la merita e non l’accetta — ché quando l’uomo ha fatto quel che non deve, non deve piú vivere per non vivere vita pessima e infame, — ma chiede vendetta. E se in te è rimasta qualche scintilla di fraterna pietá, uccidimi. Non invidiarmi morte cosí desiata; anzi per rimedio delle mie pene non chiedo morte ordinaria, non assegno luoco alle ferite: ferite dove volete, trovate voi nuove sorti di morti com’io ho trovate nuove sorti di tradimenti.
Don Ignazio. La vendetta facciala Eufranone suo padre, a cui hai uccisa la figlia, e che figlia! quella ch’amava piú che l’anima sua, a cui se è pesata la morte, assai piú pesará il modo della sua morte.
Don Flaminio. Andrò ratto a lui; forsi troverò in lui quella pietá che non ho potuto trovar in voi, e li restituirò la fama come posso.
Don Ignazio. Ecco che giunge. Fuggirò il suo aspetto, ch’avendoli cosí a torto ingiuriato la figlia, non ho piú animo di comparirgli innanzi.
SCENA VII.
Eufranone, don Flaminio.
Eufranone. (Veggio il fratello di don Ignazio che vien verso me. Che voglion costoro? forsi uccidermi la rimasta figliuola?).
Don Flaminio, Onoratissimo Eufranone, ve si appresenta innanzi il reo di tanti mali, accioché con moltiplicato supplicio lo castighiate. Io essendo ardentemente innamorato della bellezza ma assai piú dell’onestá di Carizia, e veggendo che mio fratello m’avea prevenuto a tôrsela per moglie, l’invidia, l’amor, la gelosia facendono lor ultimo sforzo in me, l’infamai appresso lui, accioché, egli rifiutandola per onorar la sua fama, me la togliesse io per moglie. E Leccardo, vostro servo di casa, m’aperse la porta di notte; ...
Eufranone. O Dio, a che sorte d’uomini ho dato in guardia la casa mia!
Don Flaminio. ... non pensandomi che la vostra iracondia avesse a terminar in atto sí sanguinoso. Tu, giusto monarca del cielo, a cui solo è concesso di penetrar gli occulti seni del cuore, tu mi sia testimone come non fu mai mia intenzione offender voi né d’infamar lei, ma sol ch’ei la lasciasse per tôrmela io per moglie; e tu mi sia ancor testimone come non fu mai donna di piú candido onore né mai macchiato di picciol neo di bruttezza. Prego la vostra bontá, ché sovra di me pigliate la vendetta della morte di vostra figliuola e dell’offesa dell’onor vostro.
Eufranone. Oimè, che le vostre parole m’hanno passato l’anima: voi avete ucciso lei, me e la madre in un colpo, e uccisi nel corpo e nell’onore! Oimè, che or ora m’uccidi la mia figliuola! ché allora pensando al mancamento ch’avea fatto all’onor suo, mosso dalla disonestá del fatto, il desio della vendetta non mi facea sentir la doglia. O sfortunata fanciulla, o anima innocentissima, o figlia viva e morta unicamente amata da me, tu sola eri l’occhio, mente, mano e piede del tuo padre infelice: con teco compartiva gli affanni della mia povertá e come un comun peso la sopportavamo insieme; la tua compagnia non mi faceva sentir i difetti del tempo e mi faceva cara la vita. O invano nata bella e onorata: o nocente bellezza! o dannoso e mortale dono di natura, misera e infelice onestá! dunque per esser tu nata bella e onorata hai voluto perder l’onor e la tua vita? Deh! qual prima piangerò delle tue morti, quella del corpo o quella dell’onore? di quella del corpo non devo pianger molto, ch’essendo nata mortale e figlia d’uomo mortale, non ti potea mancare il morire; ma piangerò la morte della tua fama, ch’essendo nata figlia di padre onorato, coll’innocente tua morte hai infamato te e il tuo parentado.
Don Flaminio. Il reo pentito del suo errore ti porge il pugnale, ché vendichi con la tua mano il torto che ti ha fatto.
Eufranone. A che mi giova il vostro pentimento e la vendetta che cercate da me? mi restituirá forsi viva e onorata la mia figliuola? Infelice e sconsolato conforto! Ahi, figlia, ahi, cara figlia, essendo io falsamente informato che tu avessi fatto torto all’onor tuo, fu tanto l’impeto dell’ira ch’estinse l’affetto paterno e ti corsi col pugnale adosso. Tu pur volevi dir le tue ragioni, e la furia non me le fece ascoltare. Oh che bei doni maritali che ti portai! un pugnale. Oh che bel letto che ti apparecchiai! l’arca e la sepultura. Figlia d’infelice e sfortunato padre, chi t’ha prodotto al mondo t’ave uccisa: aresti trovato piú pietá in un barbaro che in tuo padre! O dolore insopportabile, o calamitá mondane! e perché vivo? perché non m’uccido con le mie mani? Ahi! che tu con un leggerissimo sonno se’ passata da questa vita e sei uscita di travagli, son finiti i tuoi dolori; ma a me che resto in vita resteranno perpetuamente impressi nel cuore i tuoi costumi, la tua bontá, la tua onestá e la riverenza che mi portavi. M’hai lasciato orbo, afflitto e pieno di pentimento: oh fossi morto in tua vece, vecchio canuto e stanco dal lungo vivere!
Don Flaminio. Eufranone, ascoltate di grazia.
Eufranone. Non voglio ascoltar piú, ché quanto piú apro e apparecchio l’orecchie al vostro dire, piú apro e apparecchio gli occhi al pianto. Ma perché i cavalieri d’onore sogliono difendere e non opprimere gli onori delle donne, vi priego, se le ragioni divine e umane vi muovono punto, fate che quella bocca che l’ave accusata, quella l’escusi. Usate questa pietosa gratitudine: andate in Palazzo dinanzi al vicerè vostro zio, raccontate la veritá, accioché, divolgatosi il fatto per sí autorevoli bocche, le restituiate l’onore e si toglia tanto cicalamento dal volgo.
Don Flaminio. Poiché non posso giovarle col spender la robba, la vita e l’onore, le giovarò con la lingua: onorerò lei, infamerò me stesso; e son tenuto farlo per obligo di cavaliero. Andiamo insieme innanzi al mio zio, accioché di quello che farò ne siate buon testimone.SCENA VIII.
Leccardo, Birri.
Leccardo. (Aspettar che sí mangi in casa è opra disperata. Tutti stanno colerichi: intrighi di amori, di morti, di cavalieri, e cacasangui che venghino a quanti sono! Al fuoco non son pignate né spedi su le brage: i cuochi e guattari son scampati. La casa di don Flaminio deve star peggio: il budello maggior mi gorgoglia cro cro, la bocca mi sta asciutta, la lingua mi si è attaccata al palato, il collo è fatto stretto e lungo; e che peggio mi potrebbe far un capestro? e si temo d’esser appiccato, cosí mi par d’esser appiccato due volte).
Birri. (Ci incontra a tempo: costui è desso).
Leccardo. (Veggio birri e devono cercar me. Chi si arrischia a molti perigli, sempre ne trova alcuno che lo fa pericolare: ho scampato la furia di un legno, non so come scamperò quella de’ tre legni).
Birri. Prendetelo e cercatelo bene... . Ha molti scudi; questi son nostri.
Leccardo. (O dinari rubati, ve ne tornate al vostro paese: oh quanto poco avete dimorato meco!).
Birri. Camina camina!
Leccardo. Dove mi strascinate?
Birri. Al boia!
Leccardo. Nuova di beveraggio: che vuol il signor boia da me?
Birri. Accomodarti un poco la lattuchiglia della camiscia intorno al collo con le scarpe che non stanno bene accomodate.
Leccardo. Il ringrazio del buon animo: mi contento che stiano come stanno; e volendole accomodare me l’accomodarò con le mani mie.
Birri. Presto presto!
Leccardo. Ché tanta fretta?
Birri. Ti vol appicar caldo caldo.
Leccardo. Che l’importa che sia freddo freddo?
Birri. Le cose fatte calde calde son buone.
Leccardo. Che son io piatto di maccheroni che bisogna che sia caldo caldo? Ma io vo’ morir appiccato per non morir sempre di fame; ma se volete appicarmi, fatemi mangiar prima, che non muoia di doppia morte, e della fune e della fame.
Birri. Camina!
Leccardo. Son debole e non posso caminare.
Birri. Le buon’opre tue ti fan meritevole d’una forca.
Leccardo. Per vostra grazia, non per mio merito: ed io ne fo un dono alle Signorie Vostre come piú meritevoli di me.
Birri. La tua gola ti ha fatto incappare.
Leccardo. I topi golosi incappano al laccio.
Birri. Sei stato cagione che sia morta la piú degna gentildonna di questa cittá per la tua golaccia.
Leccardo. E se non lo faceva per la mia gola, per chi l’aveva io a fare?
Birri. Ma tu troppo ti trattieni.
Leccardo. Avendo a morir strangolato, ponetemi di grazia un fegatello in gola, ché quando il capestro mi stringerá il collo di fuori, la gola mi stringerá il fegadello di dentro, e il succo che calerá giú mi confortará lo stomaco e lo polmone, e quello che ascenderá su mi confortare la bocca e il cervello: cosí morendo non mi parrá morire.
Birri. Se non camini presto, ti darrò delle pugna.
Leccardo. Almanco dite a’ confrati, che m’hanno a ricordar l’anima, che portino seco scatole di confezioni e vernaccia fina che mi confortino di passo in passo.
Birri. Non dubbitar, ché andrai su un asino con una mitra in testa, con trombe e gran compagnia; e il boia ti sollicitará con un buon staffile.
Leccardo. O pergole di salciccioni alla lombarda, o provature, morrò io senza gustarvi? o caneva, non assaggiare piú i tuoi vini? Prego Iddio che coloro, che t’hanno a godere, sieno uomini di giudizio e non sciagurati che ti assassinino! Adio, galli d’India, caponi, galline e polli, non vi goderò piú mai!
Birri. Presto, finimola.
Leccardo. Fratelli, di grazia, dopo che sarò morto sepellitemi in un magazin di vino, ché a quell’odore risusciterò ogni momento.
Birri. Camina, forfante leccardo!
Leccardo. Forfante no, Leccardo sí.