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atto quarto 283

all’onor tuo, fu tanto l’impeto dell’ira ch’estinse l’affetto paterno e ti corsi col pugnale adosso. Tu pur volevi dir le tue ragioni, e la furia non me le fece ascoltare. Oh che bei doni maritali che ti portai! un pugnale. Oh che bel letto che ti apparecchiai! l’arca e la sepultura. Figlia d’infelice e sfortunato padre, chi t’ha prodotto al mondo t’ave uccisa: aresti trovato piú pietá in un barbaro che in tuo padre! O dolore insopportabile, o calamitá mondane! e perché vivo? perché non m’uccido con le mie mani? Ahi! che tu con un leggerissimo sonno se’ passata da questa vita e sei uscita di travagli, son finiti i tuoi dolori; ma a me che resto in vita resteranno perpetuamente impressi nel cuore i tuoi costumi, la tua bontá, la tua onestá e la riverenza che mi portavi. M’hai lasciato orbo, afflitto e pieno di pentimento: oh fossi morto in tua vece, vecchio canuto e stanco dal lungo vivere!

Don Flaminio. Eufranone, ascoltate di grazia.

Eufranone. Non voglio ascoltar piú, ché quanto piú apro e apparecchio l’orecchie al vostro dire, piú apro e apparecchio gli occhi al pianto. Ma perché i cavalieri d’onore sogliono difendere e non opprimere gli onori delle donne, vi priego, se le ragioni divine e umane vi muovono punto, fate che quella bocca che l’ave accusata, quella l’escusi. Usate questa pietosa gratitudine: andate in Palazzo dinanzi al vicerè vostro zio, raccontate la veritá, accioché, divolgatosi il fatto per sí autorevoli bocche, le restituiate l’onore e si toglia tanto cicalamento dal volgo.

Don Flaminio. Poiché non posso giovarle col spender la robba, la vita e l’onore, le giovarò con la lingua: onorerò lei, infamerò me stesso; e son tenuto farlo per obligo di cavaliero. Andiamo insieme innanzi al mio zio, accioché di quello che farò ne siate buon testimone.