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atto quarto 279


Don Ignazio. Io non so ancora di che cosa parliate.

Don Flaminio. Io son quello che v’ho ingannato e tradito, e con quelle false illusioni di notte ho fatto veder che Carizia fusse inonesta.

Don Ignazio. O estremo dolor, cessa alquanto fin ch’intenda da costui come il fatto è seguito.

Don Flaminio. Io, essendo innamorato di Carizia da quell’infelice giorno che fu la festa de’ tori, nascondei l’amor mio verso lei a voi quanto potei. Poi avendo inteso quanto voi piú degnamente avevate operato di me, accecato da una nebbia di gelosia, vi feci veder quell’apparenza di notte, nella quale il parasito e la serva di casa sua mi fûr ministri. E fu il mio intento che, voi ricusandola, io col prezzo del tradimento mi avesse comprato le sue nozze; ma il mio pensiero ha sortito contrario fine, perché è morta.

Don Ignazio. O Dio, quante mutazioni in un tempo sente l’anima mia! intenso dolor della sua morte, pena della sua infamia e innocenza, gelosia dell’inganno, rabbia dell’offesa che hai fatta al padre! Ed è possibil che si trovi un cuore, non dico di cavaliere, ma cosí barbaro e inumano in cui abbia potuto cadere cosí mostruosa invenzione? In qual anima nata sotto le piú maligne stelle del cielo, in qual spirito uscito dalle piú cupe parti dell’inferno, vestito d’umana carne, ha potuto capire sceleraggine come questa?

Don Flaminio. Eccomi, buttato in terra, abbraccio le tue ginocchia, ti porgo il pugnale: la crudeltá che ho usata contra voi, usate voi contro me. Qua si tratta del vostro onore: io son quello che t’ho tradito, infamato e tolta la sposa. Tu sei infame di doppia infamia se non te ne vendichi. Vorrei trovar le piú pungenti parole che si ponno, per provocarti ad un giustissimo sdegno.

Don Ignazio. O tu che non vo’ dir mio fratello, fatti indietro, non mi toccare, allontana da me le tue mani profane, ché non macchino il mio corpo! Patirò che mi tocchino quelle mani che m’han ucciso la sposa? Non contaminar le mie orecchie con le tue accuse; gli occhi miei rivolgono lo sguardo altrove,