Gli duoi fratelli rivali/Atto V
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ATTO V.
SCENA I.
Don Rodorigo viceré della provincia, Eufranone, don Flaminio.
Don Rodorigo. Dunque mi sará forza, per non mancar ad una giustissima causa, incrudelir nel mio sangue? che la prima giustizia ch’abbia a fare in Salerno sia contro il mio nipote, qual amo come proprio mio figliuolo?
Eufranone. Signor viceré, chi non sa reggere e comandare a’ suoi affetti lasci di reggere e comandar agli altri, né si deve prepor la natura alle leggi: però non dovete far torto a me perché costoro sieno a voi congionti di sangue e di amore.
Don Rodorigo. In me non può tanto la passione che mi torca dal dritto della giustizia, né mi muove rispetto d’altri né proprio affetto, ché quanto mi sento vincer dall’amore tanto mi fo raffrenar dalla raggione.
Don Flaminio. Giudice, non zio, io vengo ad accusar me stesso: ho infamata e uccisa l’amante mia! Non chiedo pietá né perdono: usate meco le vostre raggioni, datemi tanti supplici quanti ne può soffrir un reo. Vuo’ con presta e vergognosa morte purgar gli errori che per me son avvenuti, ché i fatti dell’onore ricercano testimonio d’un chiaro sole. Toglietemi questo avanzo di vita, toglietemi da tanta miseria: qua non lenti consigli di vecchi ma uno espedito decreto ché muoia; e voi sète reo giudice e inumano, se non volete che con la morte finisca la mia miseria. E perdonatemi se non uso con voi quelle parole rispettevoli che a voi si devon per ogni ragione.
Don Rodorigo. Non si deve condennar a morte chi sommamente desia di morire, ché la morte gli sarebbe premio, non castigo. Egli desiando la vostra figliuola per isposa fece l’errore, e l’error fu piú tosto dell’etá che suo, ché non gionge ancora a diciotto anni.
Eufranone. E voi con la giustizia vincete gli animi; né un error fatto per poca etá deve privare un padre di sua figlia. E voi sète giudice e non avvocato che debbiate escusarlo.
Don Rodorigo. Perché gli innamorati han l’animo infermo d’amore e la ragione annebbiata da furori, i loro errori son piú degni di scusa che di pena, e la giustizia ha gran riguardo ne’ casi d’amore.
Eufranone. Se l’amor bastasse ad escusar un delitto, tutti gli errori si direbbono esser fatti da innamorati e l’amor si comprarebbe a denari contanti.
Don Rodorigo. Perché le sète padre, la soverchia passion non vi fa conoscer il giusto; e un cor turbato e agitato dall’ira non ascolta ragione.
Eufranone, Fui padre d’una e, se mi è lecito dir, onestissima figlia; e i vostri nepoti per particulari interessi me l’han uccisa e infamata.
Don Rodorigo. Quando il reo è di gran merito si procede alla sentenza con piú riguardo.
Eufranone. La morte e innocenza di mia figlia gridano dinanzi al tribunal di Dio giustizia contro i vostri nepoti, che non restino invendicate.
Don Rodorigo. Dio sa quanto desio uscir da questo intrigo con onor mio, e volentieri mi contenterei spender una parte del mio proprio corpo, e mi parrebbe come nulla mi levassi, anzi mi parrebbe esser intiero e perfetto. Eufranone mio, poniam caso che don Flaminio morisse publicamente: resuscitará per questo la tua figliuola?
Eufranone. No, ma da un publico supplicio vien a verificarsi la sua innocenza.
Don Rodorigo. Anzi questo garbuglio ha nobilitato la fama della sua pudicizia, perché Leccardo è giá preso e, menato dinanzi al giudice, ha confessato che il tutto sia successo con non men scelerato che infelice suo aiuto; e come caggion del tutto è stato condennato a morire, se il capestro non gli fa grazia della vita. Ma ditemi, fratello: non ci è altro modo di restituir l’onore alle donne che far morire il reo publicamente?
Eufranone. Ditelo voi che reggete.
Don Rodorigo. Ne dirò uno, e credo che ne restarete sodisfatto, se sète cosí galante uomo come sète predicato da tutti. Voi avete un’altra figliuola chiamata Callidora, non men bella e onorata che Carizia: facciamo che don Flaminio sposi costei, accioché le genti che hanno inteso il caso della sorella non sospettino piú cosa contraria all’onor suo. Voi con la sua ricchezza vi ristorerete in parte del danno avvenuto; e se la vostra famiglia Della Porta è famosa per antica gloria d’uomini illustri, or si rischiara con i titoli di questo nuovo parentado, per esser la casa di Mendozza delle piú chiare d’Ispagna; e a lui poi per penitenza del suo fallo gli resti un perpetuo obligo di servitú e di amore verso la vostra dilettissima figlia. Il viceré non vuol mancar alla giustizia, ma don Rodorigo vi priega che questo viceré non sia constretto a farla; e voi, se sète prudente e savio, dovreste prevenirmi con i prieghi di quello che or priego voi.
Eufranone. Signor viceré, se ho parlato cosí senza rispetto, ne è cagion il dolor acerbo della morte della mia figliuola, non il desio della morte di vostro nipote. Purché venghi reintegrato nell’onor pristino, facciasi quanto ordinate.
Don Flaminio. O zio, non di minor osservanza e di amor di colui che mi ha generato, che piú onorata giustizia, piú santa vendetta non arei saputo desiderare. Io ben conosceva che la mia morte non toglieva la macchia impressa nell’onestá di donna, né per morte fineva l’amor mio. Desiava servir e riverir Callidora sotto l’imagine della morta sorella; d’accettarla per moglie indignissimo mi conosco: l’accetto per mia signora col tributo impostomi d’averla a servir sempre, e mentre duri la vita duri l’obligo. A voi, mio suocero Eufranone, m’inchino, con ogni umiltá che devo, a ricevermi per servo: la vostra dote saranno i suoi meriti, le mie facultá communi a tutto il parentado.
Eufranone. Ed io per genero vi accetto e per figliuolo.
Don Flaminio. Concedetemi che vi baci la mano se ne son degno; se non, i piedi.
Eufranone. Alzatevi, signor don Flaminio, ché la vostra soverchia creanza non facci me malcreato: ardisco abbracciarvi perché me lo comandate.
SCENA II.
Don Ignazio, don Rodorico, don Flaminio, Eufranone.
Don Ignazio. Intendo, signor don Rodorico, che per accomodar il fallo di don Flaminio l’avete ammogliato con l’altra sorella.
Don Rodorico. Io per non partirmi dalle leggi del giusto e per non veder la disperazion di tuo fratello, mi è paruto accomodarlo in tal modo.
Don Ignazio. Ma non vuol la legge del giusto che per accomodar uno si scomodi un altro.
Don Rodorico. A chi ho fatto pregiudizio io?
Don Ignazio. A me, a cui la rimasta sorella si convenia per piú legittime ragioni.
Don Rodorico. Per che ragioni?
Don Ignazio. Prima, avendo io ingiuriato Eufranone, a me tocca la sodisfazione togliendo io la rimasta sorella, ed egli allor sará reintegrato nel suo onore. Appresso, restando io offeso da’ suoi inganni e vituperevoli frodi, a me tocca disacerbarmi il dolore con le nozze dell’altra sorella; ché niuna bastarebbe a farmi partir dal cuore la bellezza, onestá, maniere e tante maravigliose parti di Carizia, che sua sorella. Egli, che con tanta sceleratezza ha turbato il tutto, sará rimunerato; ed io verrò offeso, che ho operato bene. Né convien ad un occisor della sorella che divenghi marito dell’altra; e avendomi tolto la prima moglie, non è convenevole che mi toglia la seconda; e tante e tante altre raggioni, che se volessi dirle tutte non si verrebbe mai a capo.
Don Rodorico. Caro figliuolo, non sapevo l’animo vostro: ho avuto pietá della sua vita come una imagine della vostra; e stimava che a questo vostro fratello, ancorché fusse vostra moglie, per compiacergli glie l’avessi concessa.
Don Ignazio. Il voler tôr a sè e dar ad altri mi par cosa fuor de’ termini dell’onesto.
Don Flaminio. Ella è mia moglie; e non comporterò mi sia tolto quello con violenza che mi ho procacciato per l’affezion del mio zio e acquistato con ragioni dal padre e con la fede. Fatto il contratto, volete voi rompere le leggi del matrimonio?
Don Ignazio. Io non rompo le leggi del matrimonio, ma difendo le mie ragioni con un’altra legge. Ed io non patirò che un frettoloso decreto sia fatto con infame pregiudizio dell’onor mio; e ti conseglio che lasci tal impresa, perché verremo a cattivo termine insieme.
Don Flaminio. Pazzo è colui che accetta consigli dal suo nemico: e meco venghisi a qualsivoglia termine, ché con l’armi son per difendere quel che la mia sorte m’ha donato; e te lo giuro da quel che sono.
Don Ignazio. D’ingannatore e di traditore!
Don Flaminio. Don Ignazio, se, mentre siamo vissuti insieme, t’ho fatto altro inganno e tradimento fuor di questo, veramente son un ingannatore e traditore; se questo, che ho fatto per amore, si ha da chiamar «tradimento», diffiniamolo con l’armi.
Don Rodorico. Don Flaminio, tu parli troppo liberamente e fuor de’ termini.
Don Ignazio. Zio, voi ne sète cagione, ché la vergogna degli errori commessi, quando vi si trapone autoritá d’uomo degno, diventa audacia. Si è fatto superbo per la mia viltá, ché se per l’offesa fattami l’avesse dato il dovuto castigo, non saria tale. Ma ella sará mia, o che tu voglia o non voglia; e diffiniamolo con l’armi. E ti ricordo che alla vecchia tu aggiungi nuova offesa.
Don Flaminio. Chi m’ha da tôr Callidora me la torrá per la punta della spada!
Don Ignazio. Grida come se fusse ingiuriato e non avesse ingiuriato altri. Ma se m’hai vinto con le forfantarie, non mi vincerai con l’armi; e vedremo se saprai cosí menar le mani come ordir tradimenti.
Don Rodorico. (Cercando accomodar uno, ne ho sconcio doi). Fermatevi, fermatevi! questo è il rispetto che mi portate? questo cambio rendete a chi ve ha allevati e nodriti come padre? non vi son io padre in etá e maggiormente in amore? cosí abusate la mia amorevolezza?
Don Ignazio. Zio, chi può soffrir le stoccate delle sue parole, che pungeno piú della punta della sua spada? Ma io sarò giusto punitore dell’ingiuste sue azioni.
Don Rodorigo. Ferma, don Ignazio! ferma, don Flaminio! Oh che confusione di sdegno e di furore, oh che misero spettacolo d’un abbattimento di doi fratelli!
SCENA III.
Polisena, don Ignazio, don Flaminio, Eufranone.
Polisena. Fermate, cavalieri! fermate, fratelli! e non fate che lo sdegno passi insin al sangue.
Don Ignazio. Di grazia, madre, toglietevi di mezzo, accioché, mentre cerchiamo offenderci l’un l’altro, non offendessimo voi e facessimo error peggior del primo.
Polisena. Se le figliole mie sono cagione delle vostre risse, offendendo la madre loro offendete il ventre che l’ha prodotte: questo ventre sia bersaglio de’ vostri colpi!
Don Ignazio. Di grazia appartatevi, madre, ché per téma d’offender voi non posso offender il mio nemico.
Polisena. O figlie nate sotto fiero tenor d’iniqua stella, poiché in cambio di doti apportate a’ vostri sposi scandalo e sangue! E a che sposi, a che fratelli poi! a’ piú chiari e valorosi che vivono a’ nostri secoli. Non son le mie figlie di tanto merito che le lor nozze siano comprate col prezzo del sangue di sí onorati cavalieri. Cari miei figliuoli, se amate le mie figliuole, è debito di ragione che amiate ancora la lor madre, la qual vi priega che lasciate il furor e l’armi e ascoltiate quello che son per dirvi.
Don Ignazio. Io non lasciarò la mia spada s’egli prima non lascia la sua.
Don Flaminio. E s’egli prima non lascia la sua io non lasciarò la mia.
Polisena. Io sto in mezzo ad ambidoi, e l’uno non può ferir l’altro se non ferisce prima me, e la spada passando per lo mio corpo facci strada all’altrui sangue. Ma a chi prima di voi mi volgerò, carissimi miei generi, carissimi miei figliuoli? Mi volgerò a voi primo, don Ignazio: voi prima mi chiedesti amorevolmente la mia figliola per isposa. Se non è in tutto in voi spenta la memoria dell’amor suo, s’ella vi fu mai cara, mostratelo in questo: che siate il primo a lasciar l’armi. Com’io posso stringervi la destra, se sta nella spada? come posso abbracciarvi, se spirate per tutto odio e veleno?
Don Ignazio. Non mi comandar questo, cara madre; ché costui, solito a far tradimenti, veggendomi disarmato, che non mi tradisca di nuovo.
Don Flaminio. Tien mano alla lingua se vòi ch’io tenghi le mani all’armi.
Polisena. Ed è possibile che possa tanto la rabbia in voi che pur sète stati in un istesso ventre? rabbia piú convenevole a’ barbari che a’ vostri pari?
Don Ignazio. Noi non siamo piú fratelli ma crudelissimi nemici. Sono rotte le leggi fra noi della natura e del convenevole: un fratello che offende non è differente dal nemico.
Polisena. Non fate vostre le colpe che son della fortuna. Questa sola ha peccato nell’opere vostre, questa sola ha conspirato ne’ vostri danni: l’un fratello vuol uccider l’altro fratello! Cercáti una vittoria nella quale è meglio restar vinto che vincere. Per acquistar una moglie perdernosi duo mariti: volete che le vostre spose siano prima vedove che spose? volete che coloro, ch’eran venuti per onorar le vostre nozze, onorino le vostre esequie?
Don Ignazio. Dite presto, madre, che sète per dire.
Polisena. Che voce potrá formar la mia lingua tutta piena d’orrore e di spavento, veggendovi con l’armi in mano e che state di ponto in ponto per ferirvi? Almeno ponete le punte in terra, e colui che sará primo a inclinar la spada dará primo testimonio dell’amor che mi porta.
Don Ignazio. Ecco ch’io v’obedisco.
Don Flaminio. Ed io pur voglio obedirvi.
Polisena. Don Ignazio, di che cosa vi dolete del fratello?
Don Ignazio. Egli, senza averlo giamai offeso, tradendomi, mi ha tolto il mio core che era la Carizia; la qual essendo morta, son certo che mai morirá nel mio core quella imagine che prima Amor vi scolpí di sua mano, né spero vederla piú in questo mondo se non vestita di bella luce innanzi a Dio. Per non morirmi di passione avea pensato tôrmi la sorella per isposa, la qual sempre che avesse veduta avrei veduto in lei l'imagine sua e gustato l’odor del sangue e del suo spirito. Or ei, cagion di tanto male, mi vuol tôr la seconda: io che ho oprato bene ricevo male, ed egli che ha oprato male sará guiderdonato.
Don Flaminio. Egli cerca tôr a me Calidora concessami dal padre e dal mio zio, della qual sono acceso talmente che sarò piú tosto per lasciar la vita che lei. L’amor mio non è degli ordinari, ma insopportabile, inmedicabile, non vuol ragione.
Polisena. Se amavate Carizia, com’or amate Calidora?
Don Flaminio. Non potendo amar quella che è morta, l’anima mia si è nuovamente invaghita di costei.
Polisena. Or poiché l’amate tanto, vostra sia; e farò che don Ignazio ve la conceda.
Don Flaminio. Con una medicina mi sanarete due infermitá, di amore e di gelosia; e vi arò sempre obligo delle due vite che mi donate.
Don Ignazio. O madre, non vi promettete tanto di me, ché ancorch’io volessi non potrei.
Polisena. Ben potreste, sí.
Don Ignazio. E s’avesse il potere non avrei il volere.
Polisena. Vi darò rimedio: che avrete Carizia.
Don Ignazio. La morte sola saria il rimedio, ché cavandomi dal mondo, il spirito mio s’unisse col suo.
Polisena. Vo’ che senza morir godiate la vostra Carizia: sperate bene.
Don Ignazio. Come può sperar bene un afflitto dalla fortuna?
Polisena. Carizia ancor vive per voi.
Don Ignazio. So che lo dite accioché fra noi cessino l’ire e li sdegni; ma con queste speranze piú m’inacerbite le piaghe.
Polisena. Dico che è viva.
Don Ignazio. O Dio, sognando ascolto o sogno ascoltando?
Polisena. Dico che vegliando ascoltate il vero.
Don Ignazio. Il mio cuore non è capace di tanta allegrezza, e s’io non muoio per allegrezza è segno che nol crede. Non sapete che l’innamorati appena credeno agli occhi loro? ma se è vero, fa’ che veggia colei da cui dipende la vita mia.
Polisena. Va’ tu e fa’ venir qui Carizia. — Quando voi li mandaste quella cruda ambasciata, il dolor la fe’ cader morta. Il mio marito per l’offesa dell’onor, che s’imaginava aver ricevuto da lei, la fece conficcare in un’arca, volea farla sepellire. Io, non potendo soffrir che la mia cara figlia fosse posta sotterra senza darle le lacrime e gli ultimi baci, feci schiodar l’arca; e mentre la baciava tutta, intesi che sotto le mammelle li palpitava il core. Oprai tanti remedi che rivenne. Rivenuta, fu veramente spettacolo miserabile: stracciandosi i capelli si dolea della sorte che l’avesse di nuovo ritornata in vita assai peggior che la morte, pensando al torto che l’era fatto. Io, reimpiendo l’arca di un altro peso, la mandai a sepellire. Ella volea entrarsene in un monastero e servir a Dio, per non aver a cadere mai piú in podestá di uomo.
Don Ignazio. O madre, cavami fuor delle porte della morte, dimmelo certamente se è viva; perché ella sará mia, ancorché voglia o non voglia tutto il mondo.
Polisena. Ed ella piú tosto vol esser vostra che sua, e per non esser d’altri volea esser piú tosto della morte.
Don Ignazio. Donque gli occhi miei vedranno un’altra volta Carizia, e aran pur lieto fine le mie disperate speranze?
Eufranone. O moglie cara, tu arrechi in un tempo nuove dolcezze a molti: tu pacifichi i fratelli, allegri il zio, dái dolcezza non al padre amorevole di colei ma a chi le fu rigido e inumano, e consoli tutta questa cittá.
Don Flaminio. Ma io come uscirò di tant’obligo? che grazie vi potrò rendere, essendo stato cagione di tante rovine?
Polisena. Rendete le grazie a Dio, non a me indegna serva! Egli solo ha ordinato nel cielo che i fatti cosí difficili e impossibili ad accommodarsi siano ridotti a cosí lieto fine.
Don Ignazio. Ecco che l’aria comincia a dischiararsi da’ raggi de’ suoi begli occhi! oh come il mio core si rallegra della sua dolce e desiata vita!
SCENA IV.
Carizia, don Ignazio, don Flaminio, Polisena, don Rodorico, Eufranone.
Carizia. Madre, che comandate?
Polisena. Conoscetela ora? v’ho detto la bugia?
Don Ignazio. O Dio, è questa l’ombra sua o qualche spirito ha preso la sua stanza?
Polisena. Toccala e vedi si è ombra o spinto.
Don Ignazio. O don Ignazio, sei vivo o morto? e se sei vivo, sogni o vaneggi? e se vaneggi, per lo soverchio desiderio ti par di vederla? Io vivo e veggio e odo; ma l’infinito contento che ho nell’alma mi accieca gli occhi, mi offusca i sensi e mi conturba l’intelletto, ché veggiando dormo, vivendo moro, ed essendo sordo e cieco odo e veggio. Ma se eri sepolta e morta, come or sei qui viva? o quello o questo è sogno. E se sei viva, come posso soffrir tant’allegrezza e non morire? O tanto desiato oggetto degli occhi miei, hai sofferte tante ingiurie insin alla morte, insin alla sepoltura; e or volevi finir la vita in un monastero!
Carizia. Veramente avea cosí deliberato per non aver a trattar piú con uomo, poiché era stata ingiuriata e rifiutata dal primo a cui avea dato le premizie de’ mia amori e i primi fiori d’ogni mio amoroso pensiero.
Don Ignazio. Deh! signora della mia vita, poiché sei mia, fammi degno che ti tocchi; e no potendoti ponere dentro il cuore, almeno che ti ponga in queste braccia. Io pur ti tocco e stringo; donque io son vivo. Ma oimè, che per lo smisurato contento par che sia per isvenirmi! i spiriti del core, sciolti dal corpo per i meati troppo aperti per lo caldo dell’allegrezza, par che se ne volino via, e l’anima abbandonata non può soffrir il corpo, e il corpo afflitto non può sostener l’anima: mi sento presso al morire. Ma come posso morire se tengo abbracciata la vita? O cara vita mia, quanto sei stata pianta da me, dal tuo padre, fratello e zio mio, e da tutto Salerno!
Carizia. Donque mi spiace che viva sia, essendo onorate le mie essequie da persone di tanto conto.
Don Ignazio, Ecco, o vita mia, hai reso il cor al corpo, lo spirito all’anima, la luce agli occhi e il vigore alle membra.
Don Flaminio. Ecco, o signora, l’infelicissimo vostro innamorato gettato innanzi a’ vostri piedi, quale, spinto da un ardentissimo amore e gelosia, con falsa illusione per ingannar il fratello, ha offeso ancor voi. E arei offeso e tradito anche mio padre e zio e tutto il parentado insiememente per possedervi, tanto è la vostra bellezza e pregio delle dignissime vostre qualitadi, degne d’essere invidiate da tutte le donne; ma il disegno sortí contrario fine. Ma chi può contrastar con gli inevitabili accidenti della fortuna? Vi prego a perdonarmi con quella generositá d’animo, eguale all’alte sue virtú, offerendomi in ricompensa, mentre serò vivo, servir voi e il vostro meritevolissimo sposo.
Carizia. Signor don Flaminio, a me i travagli non mi son stati punto discari, perché da quelli è stato cimentato l’onore e la mia vita. Questo sí m’ha dispiaciuto: che la mia infelice bellezza, che che ella si sia, abbi data occasione di turbar un’amorevolissima fratellanza di duo valorosi cavalieri.
Don Flaminio. Generosissimo mio fratello, le mie pazzie vi hanno aperto un largo campo di esercitar la vostra virtute. Io non ardirei cercarvi perdono se Amore e la disgrazia non me ne facessero degno, la quale, quando viene, viene talmente che l’uomo non può ripararla. Essendo tolta la cagione, si devono spengere gli odii ancora; e poiché sète gionto a quel segno dove aspiravano tutte le vostre speranze e possedete giá il caro e glorioso pregio delle vostre fatiche, pregovi a perdonar le mie inperfezioni e smenticarle, e ricevermi in quel grado di servitú e amore nel quale prima mi avevate, restando io con perpetuo obligo di pregar Iddio che con la vostra desiata sposa in lunga e felicissima vita vi conservi.
Don Ignazio. Caro mio don Flaminio, se è disdicevole a tutti tener memoria dell’ingiurie, quanto si denno in minor stima aver quelle che accaggiono tra fratelli? e poi per liti amorose? E questo ch’avete voi fatto a me, l’avrei io fatto a voi parimente. Mi sète or cosí caro e amorevole piú che mai foste, e in fede del vero io vengo ad abbracciarvi.
Don Flaminio. Abbattuto dalla propria conscienza e confuso da tanta cortesia, io non so che respondervi né basto ad esprimere il mio obligo: arò particolar memoria della grazia ch’or mi fate.
Eufranone. Ed io, soprapreso da diversi effetti, non so qual io mi sia: allegro dell’amorevol fratellanza, ripieno d’ineffabil meraviglia della prudenza di mia moglie, allegro della figlia risuscitata, confuso e pieno di vergogna veggendomi dinanzi a quella che ho ingiuriata a torto con la lingua e uccisa con le mie mani. Però, figlia, perdona a tuo padre, il quale falsamente informato ha cercato d’offenderti; e ti giuro che io ho sentito la penitenza del mio peccato senza che voi me l’avesti data. Vieni e abbraccia il tuo non occisore ma carissimo padre!
Carizia. Ancorché m’aveste uccisa, o padre, non mi areste fatto ingiuria: la vita che voi m’avete data la potevate repetere quando vi piacea. Mi è sí ben ora di somma sodisfazione che siate chiaro che non ho peccato; questo sí mi è di contento: che la mia morte v’ha fatto fede dell’innocenza mia.
Eufranone. La tua bontá, o figlia, ha commosso Iddio ad aiutarti: egli ne’ secreti del tuo fato aveva ordinato che per te ogni cosa si fusse pacificato; e perciò di tutto si ringrazi Iddio che ha fatto che le disaventure diventino venture e le pene allegrezze.
Don Rodorico. Veramente mi son assai maravigliato, essendo spettatore d’un crudel abbattimento di dui per altro valorosi e degni cavalieri; ma or che veggio tanta bellezza in Carizia — e cosí ancor stimo la sorella, — gli escuso e non gl’incolpo, e giudico che l’immenso Iddio governi queste cose con secreta e certa legge de fati, e che molto prima abbi ordinato che succedano questi gravi disordini, accioché cosí degna coppia di sorelle si accoppino con sí degno paro di fratelli, che par l’abbi fatti nascere per congiungerli insieme. E come il mio sangue onorerá voi, cosí dal vostro il mio prenderá splendore e onore. E giá veggio scolpite nelle lor fronti una lunga descendenza di figliuoli e nepoti che mi nasceranno dalla mia indarno sperata successione, per non esservi altro germe nel nostro sangue. E perché queste gentildonne mancano di doti, io li faccio un donativo degno dell’amore e generositá loro, di ventimila ducati per una; dopo la mia morte a succedere non solo alla ereditá ma nell’amore: e se agli altri si dánno per usanza, vo’ donarli a voi per premio. E per segno d’amore vuo’ abbracciarvi: il sangue mi sforza a far l’offizio suo.
Carizia. E noi saremo perpetue serve e conservatrici della vostra salute.
Eufranone. E noi quando di tanta largita vi renderemo grazie condegne?
Don Ignazio. Carissimo padre e nostro zio, vi abbiamo tal obligo che la lingua non sa trovar parole per ringraziarvi.
Don Rodorico. Or, poiché tutti i travagli han sortito sí lieto fine, ordinisi un banchetto reale per le nozze e corte bandita per dieci giorni per tutt’i gentiluomini e gentildonne di questa cittá, acciò un publico dolore si converti in una publica allegrezza. E perché non vi sia cosa melancolica in Salerno, si scarcerino tutti i prigioni per debito e si paghino del mio, e si facci grazia a tutti quei che han remissioni delle parti. E per voi, Eufranone caro, scriverò e supplicherò Sua Maestá che vi si restituisca quello che ingiustissimamente vi è stato tolto.
Don Flaminio. Poiché a tutti si fa grazia, sará anco giusto che l’abbi Leccardo il parasite.
Don Rodorico. Olá! ordinate che Leccardo sia libero. Ma mi par oggimai tempo che questi felici sposi e amanti dopo tanti travagli colgano il desiato frutto degli disperati loro amori. Entriamo.
Don Flaminio. Ma ecco Panimbolo.
SCENA V.
Panimbolo, don Flaminio, Leccardo.
Panimbolo. Padrone, che allegrezza è la vostra?
Don Flaminio. È tanta che non basto dirla. Panimbolo, la fortuna secondo il suo costume tutt’oggi ha scherzato con noi valendosi della varietá de’ casi; e all’ultimo Iddio ha essauditi i nostri desiri. Rallegrati, ché la poco dinanzi infelice miseria mia or sia ridotta in tanta felicitá.
Panimbolo. Stimo che di questo giorno vi ricorderete ogni giorno che viverete.
Don Flaminio. Oh dolcezza infinita degli innamorati, quando, dopo i casi di tanti infortuni, fortunatamente li è concesso di giunger a quel desiato segno che bersagliò da principio! Oh come ottimamente dissero i savi: che Amor alberga sovra un gran monte dove solo per miserabili fatiche e discoscese balze si perviene, volendo inferir che negli amori gran pene e amaritudini si soffriscono, ma quelle pene son condimento delle loro dolcezze! — Ma ecco Leccardo.
Leccardo. Io ho avuto tanta paura d’esser appiccato che la gola si è chiusa da se stessa senza capestro, e mi ha data la stretta piú de mille volte e senza morir mi ha fatto patir mille morti; e ancora che io abbi avuto grazia della vita, per ciò non sento allargar il cappio e sono appicato senza essere stato appiccato. Adio, cavaliero! oh come presto m’era riuscito il pronostico che mi feci questa mattina! Ma per prender un poco di fiato, bisogna almeno bermi un barril di greco e quattro piatti di maccheroni; se non, che or mi mangerò voi vivo e crudo.
Don Flaminio. Or non si parli piú di scontentezza, poiché la fortuna dal colmo delle miserie mi ha posto nel colmo di tutte le sue felicitá. Starai meco tutto il tempo della tua vita, e comune sará la tavola, le robbe, le facultadi e le fortune. Licenzia costoro che son stati a disaggio ascoltando le nostre istorie, e vieni a prender possesso della mia tavola.
Leccardo. Spettatori, ho la gola tanto stretta che non posso parlare. Andate in pace e fate segno d’allegrezza.