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272 | gli duoi fratelli rivali |
SCENA III.
Martebellonio, Chiaretta, Leccardo.
Martebellonio. Or mira che bizzari incontri vengon al mio fantastico cervello, ché pensando far correre un poco il mio cane dietro una bella fiera, s’è incontrato con una pessima fiera.
Chiaretta. Buon can per certo, che, per aver avuto tutta notte la caccia tra’ piedi, è stato sí sonnacchioso che non ha voluto mai alzar la testa né indrizzarsi alla via per seguitarla.
Martebellonio. Il mio can ha piú cervello che non ho io, che conosce all’odor la fiera, ché né per stuzzicarlo né per sferzarlo si volse mai spinger innanzi.
Chiaretta. Va’ e fa’ altre arti, ché di caccia di donne tu non te n’intendi.
Martebellonio. Troppo gran bocca avevi tu aperta, che aresti ingiottito il cane e il padrone intiero intiero.
Chiaretta. Non bisognava altrimenti, avendo a combatter con can debole di schiena.
Martebellonio. Io non so punger cosí con la spada come tu pungi con la lingua; ma ti scampa ché sei ignobil feminella, che vorrei con una stoccata passarti da un canto all’altro.
Chiaretta. Non temo le tue stoccate, ché la tua spada si piega in punta.
Martebellonio. O Dio, se non temessi che, cavando la spada fuori, la furia dell’aria conquassata movesse qualche tempesta, vorrei che la provassi! Ma me la pagherá quel furfante di Leccardo.
Leccardo. Menti per la gola, ché son meglio uomo di te!
Martebellonio. Dove sei, o tu che parli e non ti lassi vedere?
Leccardo. Non mi vedi perché non ti piace vedermi: eccomi qui!
Martebellonio. Mi farai sverginar oggi la mia spada nel sangue di poltroni.