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atto quarto 281

fatto quel che non deve, non deve piú vivere per non vivere vita pessima e infame, — ma chiede vendetta. E se in te è rimasta qualche scintilla di fraterna pietá, uccidimi. Non invidiarmi morte cosí desiata; anzi per rimedio delle mie pene non chiedo morte ordinaria, non assegno luoco alle ferite: ferite dove volete, trovate voi nuove sorti di morti com’io ho trovate nuove sorti di tradimenti.

Don Ignazio. La vendetta facciala Eufranone suo padre, a cui hai uccisa la figlia, e che figlia! quella ch’amava piú che l’anima sua, a cui se è pesata la morte, assai piú pesará il modo della sua morte.

Don Flaminio. Andrò ratto a lui; forsi troverò in lui quella pietá che non ho potuto trovar in voi, e li restituirò la fama come posso.

Don Ignazio. Ecco che giunge. Fuggirò il suo aspetto, ch’avendoli cosí a torto ingiuriato la figlia, non ho piú animo di comparirgli innanzi.

SCENA VII.

Eufranone, don Flaminio.

Eufranone. (Veggio il fratello di don Ignazio che vien verso me. Che voglion costoro? forsi uccidermi la rimasta figliuola?).

Don Flaminio, Onoratissimo Eufranone, ve si appresenta innanzi il reo di tanti mali, accioché con moltiplicato supplicio lo castighiate. Io essendo ardentemente innamorato della bellezza ma assai piú dell’onestá di Carizia, e veggendo che mio fratello m’avea prevenuto a tôrsela per moglie, l’invidia, l’amor, la gelosia facendono lor ultimo sforzo in me, l’infamai appresso lui, accioché, egli rifiutandola per onorar la sua fama, me la togliesse io per moglie. E Leccardo, vostro servo di casa, m’aperse la porta di notte; ...

Eufranone. O Dio, a che sorte d’uomini ho dato in guardia la casa mia!