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276 | gli duoi fratelli rivali |
Don Flaminio. Ecci pericolo della vita?
Leccardo. Peggio!
Don Flaminio. È morta?
Leccardo. Peggio!
Don Flaminio. Che cosa piú peggio della morte?
Leccardo. ... è morta, e morta disonorata!
Don Flaminio. O Dio, che nuova è questa che tu mi dai?
Leccardo. E mi dispiace darvela: e non vorrei sentiste da me quello che sète per intendere; ma avendolo a sapere, fate buon animo. Don Ignazio non so che ingiuriose parole disse ad Eufranone. Il quale, vinto in quel punto dal furore e inasprito dall’ira, con la schiuma in bocca com’un cignale, venne su e caricando la figlia di villanie correa col pugnale in mano per infilzarla come un tordo al spedo. A questo la moglie se le fe’ incontro e lo risospinse adietro. Instupedí la povera figlia e aiutata dalla sua innocenza diceva: — Padre mio, ascolta le mie ragioni; se conosci che ho fallato, ti porgerò il petto ché mi ammazzi! — Egli, come un vitello che cerca di scappar di mano di coloro che lo conducono al macello, cercava scappar da man di quelli che il tenevano. Carizia cercava parlare, ma le lacrime l’impedivano; poi disse a fatica: — La conscienza mia pura mi liberará dall’obbrobrio della calunnia, ché questa sola ha lassato Iddio per consolazion degl’innocenti! — Queste ultime parole morîr fra le labra, ché appena fûr udite; e morí prima della ferita. S’affoltavan i parenti per sovenirla; ma — Lasciate lasciate — gridava Eufranone — che l’uccida il dolore prima che l’abbi ad uccider il ferro, e che prevenga la violenza la voluntaria morte; e questo volerla far vivere è piú tosto opra di crudeltá che di pietá! — Cosí morí com’un agnello, e rimase con la bocca un poco aperta com’un porchetto che s’arroste al foco. Ancor morta par bella e t’innamora, perché è morta senza offesa della sua bellezza. ...
Don Flaminio. Ahi, padre troppo austero e troppo nemico del suo sangue!
Leccardo. ... Gli occhi miei, che mai piansero, piansero allora. Eufranone la fe’ subbito inchiudere in un’arca e fecela sotterrar