Gl'innamorati/Atto I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Personaggi | Atto II | ► |
ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Eugenia e Flamminia.
Eugenia. Che cosa avete, signora sorella, che mi guardate così di mal occhio?
Flamminia. Eugenia mia, compatitemi; mi fate tanto venir la bile, che oramai non vi posso più guardar con amore.
Eugenia. Bella davvero! che cosa vi ho fatto, che non mi potete vedere?
Flamminia. Non posso soffrire quella maniera aspra, litigiosa, indiscreta, con cui solete trattare il signor Fulgenzio. Egli è innamorato di voi perdutamente; si vede, si conosce che spasima, che vi adora, e voi non cercate che d’inquietarlo, e corrispondergli con mala grazia.
Eugenia. In verità mi fareste ridere. Avete tanta compassione per il signor Fulgenzio?
Flamminia. Ho per lui quella carità ch’egli merita, e che voi dovreste usargli per giustizia e per gratitudine. È un uomo civile, è un uomo ricco, è di buonissimo core. Considerate che voi avete pochissima dote; che nostro zio a forza di spendere in corbellerie ha precipitata la casa; che io mi son maritata come il cielo ha voluto, e ho penato tre anni in povertà col marito, e quand’è morto, ho avuto scarsa occasione di piangere. Così, e peggio, potrebbe accadere di voi, che non siete in migliore stato del mio. Il signor Fulgenzio, che vi ama tanto, e che ha detto di volervi sposare, è l’unico forse che possa fare la vostra fortuna. Ma voi, sorella cara, lo perderete; lo perderete senz’altro; e ci scommetto che ieri sera si è più del solito disgustato, e starete un pezzo a vederlo.
Eugenia. Ed io scommetto che non passano due ore, che Fulgenzio è qui, e mi prega; e se voglio, mi domanda ancora perdono.
Flamminia. Voi l’avete ingiuriato, ed egli vi chiederà il perdono?
Eugenia. Eh! non sarebbe la prima volta.
Flamminia. Vi fidate troppo della sua bontà.
Eugenia. E anch’egli si può compromettere dell’amor mio.
Flamminia. L’amate dunque, e lo trattate sì male?
Eugenia. E che cosa finalmente gli ho fatto?
Flamminia. Niente! In tutto il tempo che viene qui, è mai passato un giorno o una sera senza che voi lo abbiate fatto inquietare?
Eugenia. Sono sempre io quella che lo fa inquietare? Parmi ch’egli sia sofistico e puntiglioso assai più di me.
Flamminia. Non è vero.
Eugenia. Oh, voi sapete assai quello che vi dite.
Flamminia. Specialmente poi lo tormentate sempre sul proposito di sua cognata.
Eugenia. Sua cognata io non la posso vedere.
Flamminia. E che cosa vi ha fatto quella povera donna?
Eugenia. Non mi ha fatto niente, ma non la posso vedere.
Flamminia. Quest’odio è cattivo, sorella cara. Il cielo vi castigherà.
Eugenia. Io non le porto odio; ma non la posso vedere.
Flamminia. Eppure ella vi ha fatto delle finezze.
Eugenia. Si tenga le sue finezze; meno che io la vedo, sto meglio.
Flamminia. Che cosa vi siete cacciata in testa? Che Fulgenzio sia impazzito per la cognata? Sapete pure ch’egli la serve e l’assiste, perchè gli fu raccomandata da suo fratello.
Eugenia. Sì, va bene, ma che bisogno c’è ch’egli vada a spasso con lei, e pianti me qui sola, come una bestia?
Flamminia. Orsù, signora sorella, io vi consiglio, per vostro meglio, abbandonare ogni cattivo pensiere, e di questa donna vi prego a non ne parlare.
Eugenia. Oh sì, vi prometto di non parlarne mai più.
Flamminia. Se lo farete, farete bene. Ma torno a dire, io dubito che il signor Fulgenzio per oggi almeno non si lasci vedere.
Eugenia. Possibile? non è mai stato un giorno senza venire.
Flamminia. Se non forse in collera, a quest’ora forse sarebbe venuto.
Eugenia. Anzi l’aveva detto di venire questa mattina.
Flamminia. Oh, non viene assolutamente.
Eugenia. Quasi, quasi, gli manderei a dir qualche cosa.
Flamminia. Vi dispiace, eh, che non venga?
Eugenia. Sicuro che me ne dispiace. Gli voglio bene davvero.
Flamminia. E sempre lo disgustate.
Eugenia. Ho questo temperamento. Per altro lo sa che gli voglio bene.
Flamminia. Un poco più d’umiltà, sorella.
Eugenia. E voi tenete sempre da lui1
Flamminia. Io tengo dalla ragione. (Guai se non facessi così; è una vipera). (da sè)
Eugenia. Chi viene?
Flamminia. E il servitore del signor Fulgenzio.
Eugenia. Non ve l’ho detto? Quanto credete che sia lontano il padrone?
Flamminia. Aspettate prima. Chi sa che non mandi qualche ambasciata che vi dispiaccia!
Eugenia. Ha della roba il servitore,
Flamminia. Povero galantuomo! è di buonissimo core.
SCENA II.
Tognino e dette.
Tognino. Servo di lor signore.
Eugenia. Addio, Tognino. Che fa il padrone?
Tognino. Sta bene. La riverisce, e le manda questo viglietto.
Flamminia. E qui, che ci avete?
Tognino. Un po’ di frutta.
Flamminia. Poverino!
Eugenia. Sentite, come mi scrive. (a Flamminia)
Flamminia. È sdegnato?
Eugenia. Vorrebbe far lo sdegnato, ma non lo sa fare. Sentite, come principia: Crudelaccia!
Flamminia. Via, via, è parola d’amore.
Eugenia. Mi prendo la libertà di mandarvi due frutta, perchè possiate raddolcirvi la bocca, che avete per solito amareggiata di fele.
Flamminia. È amore, è amore.
Eugenia. Sarei venuto in persona, se non avessi temuto di accrescere i vostri sdegni.
Flamminia. Sentite? (ad Eugenia)
Eugenia. Ma ci verrà. (a Flamminia) Vi amo teneramente, e appunto per questo, stando da voi lontano, intendo unicamente di compiacervi.
Flamminia. Sentite? (con più forza)
Eugenia. Ma ci verrà. Bramerei due righe di vostra mano, per assicurarmi se vi è rimasta nel cuore qualche scintilla d’amore per me.
Flamminia. Via; rispondetegli, e usategli un poco di carità.
Eugenia. Siete molto compassionevole.
Flamminia. Oh, io non posso vedere a penar nessuno.
Eugenia. Con questi uomini non bisogna poi essere tanto corrive; e non è sempre ben fatto far loro conoscere, che si amano tanto.
Flamminia. Io non l’ho mai usata questa politica, e non la saprei usare.
Eugenia. Scrivetegli voi per me.
Flamminia. Volete che lo faccia davvero?
Eugenia. Sì, fatelo, che mi farete piacere, lo ci metto assai tempo a scrivere; voi scrivete meglio, e più presto.
Flamminia. Avvertite, ch’io voglio scrivere a modo mio.
Eugenia. Sì, scrivete come vi pare.
Flamminia. Voglio scrivere per placarlo, e non per irritarlo di più.
Eugenia. Credete ch’io abbia piacere di disgustarlo? Signora no. Fate anzi una bella lettera che lo consoli, il mio caro coruccio bello.
Flamminia. In nome vostro.
Eugenia. In nome mio: ci s’intende.
Flamminia. Aspettate, quel giovane, che or ora vengo colla risposta. (a Tognino)
Tognino. Dove vuole ch’io posi questo canestro?
Flamminia. Date qui, date qui. Guardate, Eugenia, che belle frutta! Sa che vi piacciono, e ve le manda. In vece di star sulle sue, vi manda le frutta. Un uomo come questo, non lo trovate più. Io so, che se avessi un amante simile, lo vorrei propriamente adorare. (parte coi frutti)
SCENA III.
Eugenia e Tognino.
Eugenia. A che ora è venuto a casa ieri sera il vostro padrone?
Tognino. È venuto prima del solito. Non erano ancor sonate le due.
Eugenia. Che ha detto sua cognata, quando l’ha veduto venir così presto?
Tognino. Ha mostrato d’aver piacere.
Eugenia. Aveva compagnia la signora Clorinda?
Tognino. Oh, da lei non ci vien mai nessuno. Ella è di natural melanconico. Suo marito è anche qualche poco geloso; è andato a Genova per affari, l’ha raccomandata al fratello, ed ella non tratta con nessun altro.
Eugenia. Le fa buona compagnia il signor Fulgenzio?
Tognino. Quand’è in casa, procura di divertirla.
Eugenia. La diverte bene? (con un poco di sdegno)
Tognino. (Se parlo, non vorrei far male). La diverte, m’intendo così, mangiano insieme.
Eugenia. Ridono a tavola? (placidamente)
Tognino. Qualche volta.
Eugenia. È grazioso veramente il vostro padrone. Mi ha detto, che gioca qualche volta con sua cognata: è egli vero?
Tognino. Sì signora, giocano qualche volta.
Eugenia. E vanno a spasso la sera.
Tognino. Io non lo so veramente.
Eugenia. Perchè me lo volete negare? Persone mi hanno detto per certo, che li hanno veduti a spasso anche ieri sera.
Tognino. Può essere.
Eugenia. Mi fareste venir la rabbia. Può essere? dite che è di sicuro.
Tognino. Lo sa di certo?
Eugenia. Fate conto ch’io l’abbia veduto.
Tognino. Bene; quando lo sa, perchè me lo domanda?
Eugenia. (Come ci casca bene il baggiano). E a che ora sono tornati a casa?
Tognino. A tre ore in circa.
Eugenia. Hanno cenato subito?
Tognino. Subito.
Eugenia. E poi avranno giocato una partitina.
Tognino. Hanno giocato una partitina.
Eugenia. (Venga da me, che sta fresco).
SCENA IV.
Flamminia e dette.
Flamminia. Ecco qui la lettera bell’e fatta. La volete sentire?
Eugenia. Date qui, non preme.
Flamminia. Signora no, ve la voglio far sentire. Mio bene...
Eugenia. Ma bene bene... (con caricatura)
Flamminia. Cosa vorreste significare?
Eugenia. Niente; dico che dite bene.
Flamminia. Sentite. Mi hanno tanto consolato le vostre righe, che non ho termini sufficienti per ispiegarvi il giubbilo del mio cuore.
Eugenia. E che giubbilo! (con ironia)
Flamminia. No forse?
Eugenia. Sì. (con ironia caricata)
Flamminia. Siete pur sguaiata. Mi pare un secolo, ch’io non vi vedo. Caro il mio bene...
Eugenia. Ma bene.
Flamminia. Io non vi capisco.
Eugenia. Mi capisco da me.
Flamminia. (Pazza). Venite a consolare la vostra cara gioiella.
Eugenia. Con quella bella grazietta! (con ironia)
Flamminia. Che modo è questo?
Eugenia. Ci fo la rima.
Flamminia. Mi fareste dir delle brutte rime. Finiamola. Vedrete ch’io non sono la crudelaccia; ma la vostra fedele, sincera amante. Eugenia Pandolfi. Vi pare che non abbia scritto a dovere?
Eugenia. Ottimamente. Date qui, che la voglio sigillar io.
Flamminia. Eh, la so sigillare da me.
Eugenia. La voglio consegnar io a Tognino, acciò possa dire che l’ha ricevuta da me.
Flamminia. Fin qui non avete il torto. Eccola, (dà la lettera ad Eugenia)
Eugenia. Venite qui, Tognino.
Tognino. Eccomi.
Eugenia. Dite al vostro padrone, che mia sorella Flamminia in nome mio gli ha scritto una bella lettera, e che io medesima colle mie mani l’ho lacerata. (straccia la lettera)
Flamminia. Che! siete impazzita davvero? Mi fate di queste scene?
Eugenia. E ditegli che venga da me, che gli darò la risposta in voce. (a Tognino)
Tognino. Come comanda.
Flamminia. Non glielo dite che ha stracciata la lettera.
Eugenia. Anzi, glielo deve dire. Tognino, se glielo dite, vi do un testone di mancia.
Tognino. Sarà per sua grazia. Non mancherò di servirla.
Flamminia. Dico, che non gli dite niente. (a Tognino)
Tognino. Perdoni. La sua signora sorella ha delle maniere obbliganti. Un testone vale a Milano quarantacinque soldi di buona moneta. (parte)
SCENA V.
Flamminia ed Eugenia.
Flamminia. E perchè avete fatto questa baggianata?
Eugenia. L’avete mai letto il libro del Perchè? Leggetelo, e lo saprete.
Flamminia. Sguaiaterie, vi dico; e ne sono stucca e ristucca.
Eugenia. Gran premura aveva ieri sera il signor Fulgenzio d’andare a casa!
Flamminia. È andato via per la rabbia.
Eugenia. Eh pensate! è andato via, perchè aveva un impegno.
Flamminia. E con chi?
Eugenia. Col diavolo che se lo porti.
Flamminia. Eugenia, voi vi volete precipitare.
Eugenia. Quando si tratta di quelle maladette bugie, non le posso soffrire.
Flamminia. Vi ha detto qualche cosa il servitore?
Eugenia. Niente.
Flamminia. Non istate a credere sì facilmente...
Eugenia. Oh, io già non credo a nessuno.
Flamminia. A Fulgenzio potete credere.
Eugenia. Peggio.
Flamminia. E a me?
Eugenia. Peggio.
Flamminia. Già chi non dice a vostro modo, ha il torto presso di voi. Ecco qui nostro zio.
Eugenia. Chi diavolo c’è con lui?
Flamminia. Un forastiere, mi pare.
Eugenia. Ha sempre seco delle seccature.
Flamminia. Sì, chi sentirà lui, sarà qualche gran personaggio. Sarà di costa di re. Egli magnifica tutte le cose, e si fa burlare da tutti.
SCENA Vi.
Fabrizio, Roberto e dette.
Fabrizio. Signore nipoti, ecco qui un cavaliere, che vi vuol conoscere e favorire: il conte d’Otricoli; una delle prime famiglie d’Italia, di una ricchezza immensa.
Roberto. Mi fa troppo onore il signore Fabrizio. Io non merito nessuno di questi elogi.
Fabrizio. E non serve dire, e non dire: quest’è il primo cavaliere del mondo. In materia di cavalleria, non c’è altrettanto in tutta l’Europa. Fate il vostro dovere col signor Conte. (alle donne, con qualche rispetto2)
Flamminia. Signore, attribuisco a mia singolar fortuna l’onor di conoscere un cavaliere di tanta stima. (a Roberto)
Roberto. Posso io consolarmi...
Fabrizio. Vede, signor Cavaliere? Questa è Flamminia mia nipote. È vedova. Ha avuto per marito il primo mercante di Milano.
Flamminia. (È morto miserabile il povero disgraziato).
Fabrizio. È una donna3, che per una casa non si dà la compagna. Non c’è in tutto Milano, non c’è in tutta l’Italia una donna come Flamminia.
Roberto. Mi rallegro infinitamente colla signora.
Flamminia. Mio zio si diverte; non ho questi meriti.
Fabrizio. Via, signora Eugenia, ditegli qualche cosa; fate conoscere il vostro spirito, la vostra vivacità. Non c’è, veda, non c’è in tutto il mondo una giovane come lei. Balla in una maniera, che i primi ballerini sono rimasti storditi. Canta poi di un gusto, che chi la sente muore. Parla, che non c’è stata mai, da che mondo è mondo, una parlatrice compagna.
Roberto. È ammirabile la signora per la virtù e per il merito della bellezza.
Eugenia. Vi prego non secondare mio zio nel piacer di mortificarmi.
Roberto. È ancor zitella la signora Eugenia? (a Fabrizio)
Fabrizio. Sì signore. M’è stata richiesta dalla prima nobiltà di Milano; ma io non l’ho voluta dare a nessuno. Ho delle idee grandiose sopra di lei.
Roberto. In fatti ella merita una fortuna corrispondente alle sue rare prerogative.
Fabrizio. Al giorno d’oggi vi è poco da compromettersi. Ci sono più debiti che ricchezze. Dei conti d’Otricoli non ce n’è che un solo al mondo.
Roberto. Io vaglio molto meno degli altri. Le mie fortune sono assai limitate. Quello di che mi pregio, si è la sincerità e l’onore.
Fabrizio. Nipoti mie, quest’è l’esempio dei cavalieri onorati; è il libro aperto, che insegna agli uomini la sincerità.
Flamminia. Lo conoscerete ch’è un pezzo questo signore? (a Fabrizio)
Fabrizio. Quest’è la prima volta, che ho l’onor di vederio.
Flamminia. (E pare che sieno trent’anni che lo conosce).
Fabrizio. È stato diretto a me da un amico mio di Bologna, ch’è il fiore de’ galantuomini, ed il più bravo pittore che sia stato al mondo, dopo Zeusi ed Apelle. Signor Conte, ella si diletterà di pitture.
Roberto. Certamente, me ne diletto assaissimo.
Fabrizio. Eh, gli uomini grandi, gli uomini di talento sublime, come quello del signor Conte, non possono fare a meno di non intendersi d’ogni cosa. Vedrà nella mia miserabile casa, nel povero mio tugurio, nella mia capannuccia, dei tesori, in materia di quadri, delle cose stupende. Cose che non le ha il Re di Francia. Originali dei primi maestri dell’arte. Signore nipoti, conducete questo cavaliere a vedere la mia miserabile galleria. Fategli vedere quel quadro maraviglioso, quell’opera insigne del pittor de’ pittori. Vedrà, signor Cavaliere, un quadro spaventosissimo del Tiziani4, di cui mi hanno offerto due mila doppie, ed io l’ho avuto per cento zecchini! Che dice eh? per cento zecchini un quadro che vale due mila doppie. Cosa vuol dire intendersi delle cose. Oh, io poi per conoscere non la cedo ai primi conoscitori del mondo.
Eugenia. (Poveri danari gettati! Ha tutte copie, e gliele fanno pagar per originali).
Roberto. Si vede, che siete assai di buon gusto; avrò occasion d’ammirare.
Fabrizio. Eh picciole cose. Compatirà la miseria. Ehi, fategli vedere quei quattro pezzi stupendi del Wandich5, quelle due cene singolarissime insigni del Veronese, quella meraviglia del Quercino, quell’aurora inimitabile di Michel’Angelo Buonarotti6, quella notte inestimabile del Correggio. Tesori, signor Conte, tesori.
Roberto. Voi, a quel che sento, avete una galleria da monarca.
Fabrizio. Picciole cosarelle da poveruomo. Si serva, favorisca di andare colle mie nipoti.
Flamminia. Ma noi non ce n’intendiamo di quadri, e non li sapremo distinguere come voi... (a Fabrizio)
Fabrizio. Che serve? Se non ve n’intendete voi, se ne intende il signor Cavaliere. Ho un affare per ora, che mi trattiene. Servitelo intanto, che poi verrò io pure, e gli farò vedere di quelle cose che non avrà mai vedute.
Roberto. Mi sarà carissima la vostra compagnia (ma più quella delle sue nipoti).
Flamminia. (Anderò io, sorella, non v’è bisogno che voi venghiate). (ad Eugenia)
Eugenia. (Anzi ci voglio venire).
Flamminia. (Se arriva il signor Fulgenzio...)
Eugenia. (Che importa a me, che mi trovi col forastiere?) O questa è bella! Va egli a spasso con sua cognata? Voglio ancor io trattare con chi mi aggrada. (da sè, e parte)
Flamminia. (Gran testa originale è costei). (parte)
Fabrizio. Vada, signor Cavaliere, s’accomodi.
Roberto. Mi prevalerò delle vostre grazie. (in atto di partire)
Fabrizio. Eh favorisca.
Roberto. Che mi comandate?
Fabrizio. Oggi avrà la bontà di restare a mangiar una cattiva zuppa con noi.
Roberto. Oh questo poi...
Fabrizio. Oh, non c’è risposta.
Roberto. No certo.
Fabrizio. Per sicurissimo.
Roberto. Ne parleremo.
Fabrizio. Mi dà parola?
Roberto. Contentatevi...
Fabrizio. Mi dà parola?
Roberto. Non so che dire.
Fabrizio. Compatirà la miseria, ma sentirà un paio di piatti, che i simili non li avrà la tavola dell’Imperadore, e saranno fatti dalle mie mani.
Roberto. Non posso ricusare le vostre grazie. (Egli ingrandisce tutte le cose, ma credo che non si dia un pazzo più grande di lui). (parte)
SCENA VII.
Fabrizio, poi Succianespole.
Fabrizio. Sono in impegno di farmi onore. Voglio che tutti possano dir bene di me; se vado anch’io per il mondo, mi verranno incontro colle carrozze, coi tiri a sei, colle trombette. Mi dispiace che non ci ho altri che un servitore solo, vecchio, stordito. Ma farò io. I buoni piatti li farò io. Ehi, Succianespole.
Succianespole. Signore.
Fabrizio. Come stiamo in cucina?
Succianespole. Bene.
Fabrizio. È acceso il foco?
Succianespole. Gnor no7.
Fabrizio. Perchè non è acceso il foco?
Succianespole. Perchè non c’è legna.
Fabrizio. Non mi star a fare lo scimunito, che oggi ho da dar da pranzo a un’Eccellenza.
Succianespole. Ci ho gusto.
Fabrizio. Succianespole, che cosa daremo da pranzo a Sua Eccellenza? (ridente, con confidenza)
Succianespole. Tutto quello che comanda Vostra Eccellenza.
Fabrizio. Qualche volta mi faresti arrabbiare con questa tua flemmaccia maladetta.
Succianespole. Io son lesto.
Fabrizio. Lo sai fare il pasticcio di maccheroni?
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. Un fricandò alla francese?
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. Una zuppa coll’erbuccie?
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. Colle polpettine?
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. E coi fegatelli arrostiti?
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. Hai danari per ispendere?
Succianespole. Gnor no.
Fabrizio. Ti ho pur dato un zecchino.
Succianespole. Quanti giorni sono?
Fabrizio. L’hai speso?
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. E il tuo salario, che ti ho dato, l’hai speso?
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. E non hai più un quattrino?
Succianespole. Gnor no.
Fabrizio. Maladetto sia il gnor sì e il gnor no. Si sente altro da te, che gnor sì e gnor no?
Succianespole. Insegnatemi, che cosa ho da dire.
Fabrizio. Bisogna pensare a trovar danari.
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. Quante posate ci sono?
Succianespole. Sei, mi pare.
Fabrizio. Sì, erano dodici. Sei le ho impegnate, restano sei. Siamo in quattro; impegnamone due.
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. Va al monte, e spicciati.
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. E non mi fare aspettare due ore.
Succianespole. Gnor no.
Fabrizio. Andremo a spendere, quando torni.
Succianespole. Gnor sì.
Fabrizio. C’è vino?
Succianespole. Gnor no.
Fabrizio. C’è pane?
Succianespole. Gnor no.
Fabrizio. Che tu sia maladetto. Gnor sì, che tu sia bastonato...
Succianespole. Gnor no. (parte con una riverenza, poi torna)
Fabrizio. Io non so come vada. In casa mia non vi è mai il bisogno, e oramai ho dato fine a tutto. Ma non importa. Io ho da avere delle fortunaccie. I gran soggettoni ch’io tratto, i principi, i cavalieri ch’io servo, mi faranno cavalcar colle staffe d’oro. Semino per raccogliere; e il grano della mia testa mi ha da rendere il cento per uno. Che si impegni, e che si spenda; e poi? in carrozza, in carrozza.
Succianespole. In carretta. (spuntando dalla scena, e subito parte)
Fabrizio. Il diavolo che ti porti. (gli corre dietro, e parte)
SCENA VIII.
Lisetta e Ridolfo.
Lisetta. Che mi comanda il signor Ridolfo?
Ridolfo. Ho necessità di parlare con una delle vostre padrone.
Lisetta. Dica pure a quale di esse ho da far l’ambasciata.
Ridolfo. Veramente l’affare appartiene alla signora Eugenia, ma io parlerei più volentieri alla signora Flamminia.
Lisetta. Perdoni la curiosità: so che V. S. è amico molto del signor Fulgenzio; ci sarebbe forse qualche novità fra lui e la padroncina?
Ridolfo. Per l’appunto, vi è una novità non indifferente.
Lisetta. La prima l’ho indovinata; vo’ un po’ vedere, se indovino ancor la seconda. Viene forse per trattare il come e il quando per concludere queste nozze?
Ridolfo. Tutto al contrario. Vi dirò quello ch’io son per fare, poichè Fulgenzio m’ha detto di dirlo pubblicamente. L’amico per mezzo mio si licenzia dalla signora Eugenia. Desidera farlo con civiltà, ma qui non lo vedrete mai più. (Se costei glielo dicesse prima di me, mi farebbe piacere).
Lisetta. Ma perchè questa risoluzione così repentina?
Ridolfo. Questo poi non l’abbiamo a cercare nè voi, nè io. Fulgenzio e la signora Eugenia sapranno eglino la cagione.
Lisetta. Oh, è facile indovinare il perchè. Avranno gridato insieme.
Ridolfo. Può essere.
Lisetta. E se hanno gridato, faranno la pace.
Ridolfo. Mi par difficile.
Lisetta. L’hanno fatta tante altre volte
Ridolfo. Questa volta l’amico è risolutissimo. Per quanto gli abbia io suggerito di pensarvi, di star a vedere, di non precipitare una risoluzione di questa natura, ha battuto sodo, mi ha risposto come un cane arrabbiato, e fino colle lagrime agli occhi mi ha pregato per carità, che io venissi a disimpegnarlo.
Lisetta. Non ci credo, e non ci crederò mai. Ne ho vedute tante di queste scene, che non ci credo8.
Ridolfo. Orsù, in ogni modo io mi vo’ disimpegnare dalla mia commissione: parlare con una di esse; spiegar l’intenzione dell’amico Fulgenzio; e nasca quel che sa nascere, io non vo’ strolicar d’avvantaggio.
Lisetta. Se voi parlate di ciò alla signora Eugenia, la fate cascar morta: almeno usatele carità. Non le date il colpo tutto ad un tratto.
Ridolfo. Credetemi, io lo faccio mal volentieri. Ho pregato l’amico di dispensarmi: gli ho anche detto che mi lagnerei, se dopo di aver fatto io questo passo, lo riconoscessi pentito. Tant’è, è costantissimo, vuol ch’io lo faccia. Chiamatemi la signora Flamminia.
Lisetta. È di là ora con un forastiere, che per ordine di suo zio gli fa veder certi quadri.
Ridolfo. E la signora Eugenia dov’è?
Lisetta. Ella pure si è messa della partita... Oh aspettate. Che il signor Fulgenzio abbia saputo del forastiere, e che sia sdegnato per questo?
Ridolfo. Oibò; mi ha detto di certa lettera; ma non l’ho capito. Orsù, fatemi un poco parlare o coll’una o con l’altra.
Lisetta. Povera padrona! Andrò, signore... Oh, chi è qui?
Ridolfo. Per bacco! È qui Fulgenzio.
Lisetta. Non ve l’ho detto?
Ridolfo. Verrà a cercare di me.
Lisetta. Eh sì, verrà a cercare di voi!
SCENA IX.
Fulgenzio e detti.
Fulgenzio. (Una parola). (a Ridolfo, chiamandolo a parte, con ansietà)
Ridolfo. (Non l’ho ancora potuta vedere). (piano a Fulgenzio)
Fulgenzio. (Non le avete parlato?)
Ridolfo. (No, vi dico).
Fulgenzio. (Non sa niente la signora Eugenia di quello che vi avevo raccomandato?)
Ridolfo. (Ma se non ho veduto nè lei, nè la sorella).
Fulgenzio. (Lisetta è informata di nulla?)
Ridolfo. (Sì, qualche cosa le ho detto).
Fulgenzio. Caro amico, compatitemi per carità. Dopo che da me partiste, mi sono sentito gelare il sangue; sarei caduto per terra, se il servitore non mi sosteneva. Ah, quell’indegno dei servidore è stato causa di tutto. La povera Eugenia è gelosa, e l’eccesso della sua gelosia è partorito da un eccesso d’amore. Buon per me, che non avete parlato. Lisetta, per amor del cielo, non dite niente alla vostra padrona. Tenete queste poche monete, godetele per amor mio. E voi, Ridolfo amatissimo, perdonate le mie debolezze, e ricevete le mie scuse in questo tenero sincero abbraccio.
Lisetta. (Mi pareva impossibile, che non avesse ad esser così).
Ridolfo. Amico, vi compatisco, ma non mi mettete più in tali impegni.
Fulgenzio. Avete ragione. Ringraziamo il cielo, che è andata bene. Lisetta, dov’è la signora Eugenia?
Lisetta. E di là che si veste. (Non gli dico niente del forastiere).
Fulgenzio. Se volesse favorir di venire.
Lisetta. Glielo dirò, signore. (in atto di partire)
Fulgenzio. Ehi; è in collera?
Lisetta. Non mi pare.
Fulgenzio. Via, chiamatela.
Lisetta. (Oh, questi si amano daddovero!) (parte)
SCENA X.
Fulgenzio e Ridolfo.
Ridolfo. Amico, a rivederci.
Fulgenzio. Andate via?
Ridolfo. Volete ch’io resti?
Fulgenzio. No, no, se vi preme, andate pure.
Ridolfo. Sì, vado. Conosco benissimo, che il restar solo non vi dispiace. Vi compatisco, ma permettetemi che qualche cosa vi dica per amicizia. Se conoscete che la persona che amate meriti l’amor vostro, disponete l’animo a sofferir qualche cosa. Tutti in questo mondo ci dobbiamo compatire l’un l’altro, e specialmente la donna merita di essere un poco più compatita. Se poi vi sembra aver giusto motivo di dolervi di lei, pensateci prima di risolvere, ma quando avete pensato, ma quando avete risolto9, non fate che la ragion vi abbandoni, e che l’affetto vi acciechi, vi trasporti, e vi avvilisca a tal segno. (parte)
SCENA XI.
Fulgenzio, poi Eugenia.
Fulgenzio. Dice bene l’amico, dice benissimo. Dalle donne qualche cosa convien soffrire, quando si sa specialmente che una donna vuol bene, non serve il sofisticare, non conviene pesar le parole colla bilancia dell’oro, e guardare i moscherini col microscopio per ingrandirli. Son troppo caldo, lo conosco da me; ma in avvenire voglio assolutamente correggermi, vo’ moderarmi. Già so che mi vuol bene. Se vuol dire, lasciarla dire. Eccola. Voglia il cielo ch’ella sia di buon umore. Mi pare ilare in volto. Ma qualche volta sa fingere. Non vorrei che dissimulasse. Orsù, non principiamo a sofisticare.
Eugenia. Serva umilissima, signor Fulgenzio. (affettando allegria)
Fulgenzio. Quest’umilissima si poteva lasciar nella penna.
Eugenia. Mi scappò, non volendo. La riverisco. Che fa? Sta bene?
Fulgenzio. Eh! sto bene io. Ed ella come sta? (intorbidandosi un poco)
Eugenia. Benissimo. Ottimamente.
Fulgenzio. Me ne consolo. È molto allegra questa mattina.
Eugenia. Quando sono in grazia sua, sono sempre allegrissima.
Fulgenzio. (C’è del torbido: non mi vorrei inquietare, ma ho paura non potermi tenere).
Eugenia. Che dice ella di queste belle giornate?
Fulgenzio. Con questo ella, con questo ella mi ha un pochino sturbato, signora mia.
Eugenia. Questa mattina sono stata in complimenti, e mi è restato il lei fra le labbra.
Fulgenzio. In complimenti con chi?
Eugenia. Con certe amiche, che sono venute a favorirmi. Anzi mi hanno detto, che vogliono venir questa sera, per condurmi a spasso con loro.
Fulgenzio. E che cosa avete risposto?
Eugenia. Che ci anderò volentieri.
Fulgenzio. Senza di me?
Eugenia. Sicuro.
Fulgenzio. Mi piace. S’accomodi.
Eugenia. Oh bella! mi avete mai condotta voi una sera a spasso?
Fulgenzio. Non vi ho condotta, perchè non mi avete comandato di farlo.
Eugenia. Eh, dite perchè avete degli altri impegni.
Fulgenzio. Io? che impegni?
Eugenia. Eh via, che serve? Se avete in casa qualche mazzo di carte che vi avanzi, favorite portarmelo, che mi divertirò un poco dopo cena a giocare una partita con mia sorella.
Fulgenzio. Che novità è questa? che discorso è questo? cosa c’è sotto a questo vostro ragionamento?
Eugenia. Niente, signore. Faccio per non andare a letto si presto. Voi avete fretta di partire la sera, e vi compatisco, perchè avete i vostri interessi, avete degli affari importanti, ed io starò a divertirmi con mia sorella, o anderò a spasso colle mie amiche.
Fulgenzio. Eh signora Eugenia, ci conosciamo10.
Eugenia. Prenderete anche ciò in mala parte?
Fulgenzio. Ci conosciamo, vi dico, ci conosciamo.
Eugenia. Sì, ci conosciamo, e ci conosciamo.
Fulgenzio. Ma il mio servidore in casa vostra non ci verrà più.
Eugenia. Che importa a me, che ci venga nè il servitor, nè il padrone?
Fulgenzio. Eh già; queste sono le solite sue buone grazie.
Eugenia. Ha tabacco?
Fulgenzio. Se sono andato a far quattro passi con mia cognata...
Eugenia. Che cosa c’entra vostra cognata? che importa a me di vostra cognata?
Fulgenzio. So quel che dico; e non avrete più il divertimento di tirar giù quel balordo del mio servitore.
Eugenia. Mi maraviglio di voi, che parliate così. Vi torno a dire, non m’importa nè di lui, nè di voi.
Fulgenzio. Nè di me? non v’importa di me? nè di lui, nè di me? non ve n’importa? (passeggiando in giro con isdegno)
Eugenia. Fermatevi, che mi fate girar il capo.
Fulgenzio. Nè di lui, nè di me? (si dà un pugno nella testa)
Eugenia. Facciamo scene?
Fulgenzio. Nè di lui, nè di me? (si batte il capo a due mani)
Eugenia. Animo; finiamo queste sguaiaterie. (fra lo sdegno e l’amore)
Fulgenzio. Non posso più. (si abbandona sopra una sedia)
Eugenia. Avvertite che siete pazzo davvero.
Fulgenzio. Son pazzo, son pazzo? (seguita a battersi)
Eugenia. Non la volete finire? (con un poco di tenerezza)
Fulgenzio. Cagna! crudele!
Eugenia. Bell’amore! a ogni menoma cosa subito si sdegna, va in bestia, non può soffrir niente il signor delicato. Finalmente chi vuol bene ha da compatire; e ad una donna le si deve donar qualche cosa. Bella maniera da farsi amare!
Fulgenzio. Sì, avete ragione. (placato)
Eugenia. Ogni giorno siamo alle medesime.
Fulgenzio. Compatitemi, non farò più.
Eugenia. Non mi fate di queste ragazzate, che non ne voglio.
Fulgenzio. Andrete a spasso questa sera? (ridente amoroso)
Eugenia. Se mi parerà. (scherzando con amore)
Fulgenzio. Con chi anderete?
Eugenia. Eh! (come sopra)
Fulgenzio. Con me anderete.
Eugenia. Sicuro! (ironico)
Fulgenzio. Non volete venir con me? (un poco sdegnato)
Eugenia. Se ci veniste volentieri.
Fulgenzio. Ma cara Eugenia, possibile che ancora non siate certa dell’amor mio? In un anno in circa che ho la consolazione della vostra cara amicizia, vi ho dato scarse prove d’amore? Ancora mi volete fare il torto di dubitarne? So che vi sta sul core quella povera mia cognata. Ma sapete il debito che mi corre. Mio fratello, che l’ama teneramente, me l’ha con calore raccomandata. Sono un galantuomo, sono un uomo d’onore. Non posso abbandonarla, non posso trattarla con inciviltà; se siete una donna ragionevole, appagatevi dell’onesto, compatite le mie circostanze, e per l’amor del cielo. Eugenia mia, non mi tormentate.
Eugenia. Via, avete ragione. Non vi tormenterò più. Compatitemi; conosco che ho fatto male....
Fulgenzio. Basta così, che mi si spezza il core per la tenerezza.
Eugenia. Mi vorrete sempre bene?
Fulgenzio. Credetemi, che domandandomi questa cosa, voi mi offendete.
Eugenia. Ve la domando, perchè vorrei sentirmelo replicare ognora, ogni momento.
Fulgenzio. Sì, cara, ve ne vorrò in eterno; e se il cielo vuole, non passerà gran tempo, che sarete mia.
Eugenia. E che cosa aspettate?
Fulgenzio. Il ritorno di mio fratello.
Eugenia. Non potete maritarvi senza di lui?
Fulgenzio. La convenienza vuol ch’io l’aspetti.
Eugenia. Io lo so, perchè differite.
Fulgenzio. E perchè?
Eugenia. Perchè avete paura di disgustare vostra cognata.
Fulgenzio. Maladetta sia mia cognata; maladetto sia quando parlo.
Eugenia. Eccolo qui, non si può parlare.
Fulgenzio. Ma se sempre mi provocate.
Eugenia. Mi voglio mettere a non dir più una parola.
Fulgenzio. Non potete parlare senza dire delle schiocchezze?
Eugenia. Le schiocchezze le dite voi, signor insolente.
Fulgenzio. Or ora vi faccio vedere un qualche spettacolo.
Eugenia. Ehi, chi è di là?
Fulgenzio. Non chiamate. (arrabbiato)
Eugenia. Pazzo.
Fulgenzio. Anderò via.
Eugenia. Andate.
Fulgenzio. Non ci tornerò più.
Eugenia. Non m’importa.
Fulgenzio. Diavolo, portami. Portami, diavolo. (parte correndo)
Eugenia. Che vita è questa? Che amor maladetto! non posso resistere, non posso più. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Così nel testo a stampa. Meglio fosse: Eh, voi tenete ecc.
- ↑ Così l’ed. Zatta. Nell’ed. Pasquali: con qualche risetto.
- ↑ Nel testo: E una donna ecc.
- ↑ C. s.
- ↑ Così nel testo.
- ↑ C. s.
- ↑ Gnore, in vece di signore, si dice in vari luoghi fra lo Stato Romano ed il Regno di Napoli. [nota originale]
- ↑ Ed. Zatta: e non ci credo.
- ↑ Zatta: risoluto.
- ↑ Nell’ed. Pasquali: conoschiamo.