Giovani/Un amico
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Una figliuola | Il morto in forno | ► |
Un amico.
Dove arrivavo io, la strada doventava solitaria e quasi paurosa. Saliva dritta, per un quarto di chilometro, fino a un suo ripiano, una specie di terrazza; da cui non si vedeva niente però. Si restava lì come delusi.
Il bosco cominciava eguale da tutte e due le parti: e davanti agli occhi, poi, non c’era altro che bosco: anche la strada si assoggettava ad esso. Era la strada che obbediva.
Fin dalle prime volte m’era venuto la sensazione di un’ombra, che non riescivo a vedere. Era una specie di esistenza che si aggiungeva alla mia; e mi ricordai d’un amico finito tisico a diciotto anni, che si chiamava Gino Scali. Con quanto piacere mi ricordai anche della sua camera tappezzata di carta chiara a fioricini verdi! Andavo a trovarlo sempre molto volentieri, anche perchè io volevo che fosse più amico a me che a qualunque altro.
Quand’egli m’era dinanzi, riflettevo soltanto a quel che dovevo dirgli; ma, se restavo solo, perchè suo padre o la sorella lo chiamavano, io capivo tutto com’egli viveva e quel che aveva fatto durante la giornata. Non so come, dalle cose stesse della stanza, che io guardavo sempre con simpatia, riescivo a sapere com’egli viveva. Il cappello posato su una sedia, un libro mosso dal posto, una tendina restata alzata bastavano. Egli, rientrando, mi chiedeva:
— Perchè guardi a quel modo?
— Io so quel che hai fatto.
— Sentiamo.
Io lo contentavo: e allora egli chiedeva:
— Chi te l’ha detto?
Io non sapevo quel che inventare che mi paresse meno da fargli invidia.
Allora egli esclamava, ironicamente:
— Tu riesci a indovinare.
Egli, piuttosto povero, era figliolo di un falegname che faceva il custode ad un teatro. Era molto alto e con i capelli neri, magro ma i piedi enormi e larghi; e aveva una sorella modista, più alta di lui.
Egli si riteneva molto intelligente ed era invidioso degli altri. Qualunque cosa che dicessi o facessi, lo Scali trovava sempre da criticarla; e, perciò, non andavamo quasi mai d’accordo. Non mi dava mai ragione; e, quando mi ascoltava, aveva sempre un sorriso che mi mandava via la voglia di parlargli. E pure facevo di tutto, perchè alla fine smettesse di non stimarmi; e, sopra tutto, di mostrarsi così con me quando c’erano anche gli altri. Si piccava di essere un canzonatore; ma non ci riesci va; quantunque, dopo aver parlato con lui, non avessi più dentro di me quella fiducia ingenua che hanno tutti i giovani.
Egli cercava di saper fare tutto meglio, di me: se non ne era stato capace, diceva in presenza degli altri, senza più rivolgersi a me:
— Badiamo di non credere che gli succederà così anche un’altra volta!
E poi non mi diceva più una parola; mettendosi a parlare di altre cose, con una disinvoltura sprezzante, dandomi occhiate dì compatimento.
Dopo la scuola, non esciva mai; restava in casa a studiare, oppure aiutava il padre quando il teatro era aperto.
L’ultimo anno che visse, gli erano tornati i geloni alle mani e agli orecchi; come quando era stato ragazzo. S’era fatto più magro, con il viso più lungo; e teneva alzato il bavero del suo pastranuccio sbiadito che gli giungeva sopra i ginocchi. Io allora ero innamorato di una ragazza, e una volta gli feci vedere la fotografia.
Egli me la strappò di mano, benchè io non volessi; e disse con una voce che non gli avevo mai sentita:
— Com’è bella! Le vorrei bene anch’io.
E baciò la fotografia.
Io dissi:
— Hai fatto male!
Eravamo per leticare; ma egli mi chiese, tirandomi per una manica:
— Che male ho fatto?
Non so perchè, non gli dissi altro. Ma mi ricordo che allora volevo sapere chi era quella a cui voleva bene lui. Non me lo volle mai dire. Un’altra volta, lo trovai a disegnare, nello studio di un ingegnere, sopra un foglio di carta incerata. Io lo aiutai, ed egli ne fu contento; perchè io avevo cominciato l’istituto tecnico mentre lui aveva smesso dopo la licenza della scuola tecnica; e gli fece piacere che continuassi ad essergli sempre amico lo stesso.
— Tu, almeno, doventerai un ingegnere!
Io arrossii, e gli risposi che forse non avrei continuato a studiare. Allora si mise a ridere, stropicciandosi il naso e poi divertendosi a bucare il tavolino con il compasso. E mi chiese, con il desiderio di conoscere il mio amor proprio:
— Ma perchè non vuoi prendere la laurea, giacchè tuo padre può tenerti a studiare?
— Non so il perchè.
— Dunque sei uno scemo.
E anch’egli si ricordò di quante volte aveva pensato o detto la stessa cosa. Ma era sicuro ch’io non gli dessi uno schiaffo, come due anni prima avevo fatto. E, vedendomi rosso e imbarazzato, disse:
— Fai bene a non desiderare d’essere da più degli altri.
Capii ch’egli voleva dire di noi compagni di scuola. In fatti essi, meno che io e un altro, avevano preso la licenza tecnica e basta; cercando subito d’impiegarsi alla meglio. Stemmo un poco in silenzio, ed egli non si baloccava più con il compasso. Poi disse:
— Sposi quella ragazza?
— Vorrei; e per questo non posso attendere tanti anni per studiare.
— Ma non sei troppo giovine?
— Perchè? Ormai bisogna che io sposi lei, perchè ne sono innamorato. E non voglio lasciarla. E tu?
— A me, quella che mi piaceva, non ha dato retta.
— E non ti dispiace?
— Che m’importa? Anzi, ha fatto bene.
Forse ella non aveva voluto saperne niente, perchè era povero e per antipatia con la sua famiglia?
Si passò una mano sul ciuffo dei capelli, e sorrise. Allora vidi che la sua sottoveste era il doppio per lui e che egli portava sempre la stessa giubba di quando andavamo a scuola. Ma questo mi fece quasi disgusto; ed egli, forse, se n’accorse, perchè si mise a guardarmi ironicamente tutto il vestito. Io mi compiacevo della sua ironia, e mi pareva di avere una sciarpa tanto bella che egli non potesse fare a meno di dirmelo. Ma, ad un tratto, abbassò gli occhi; impallidì e divenne triste. Riprese il compasso in mano per rimettersi a lavorare, quasi perchè me n’andassi. Aveva un gran naso, ma stretto e rigonfio a metà. I suoi occhi erano quasi sanguinolenti. Portava i mezzi guanti di lana bigia a righe pavonazze, e le sue unghie erano quasi livide. Aveva un pollice fasciato. Allora, io guardai il disegno; ma egli evitava che i nostri occhi s’incontrassero. Io gli chiesi:
— Ti sei avuto a male di qualche cosa?
— No: anzi, ora mi sei meno antipatico. Si capisce di più come sei fatto.
I suoi occhi neri scottavano, e il suo viso mi fece pietà. Gli guardai un’altra volta gli occhi, con più curiosità, quasi disfatti in un olio che ardeva: neri e con le sopracciglia che gli davano un’aria di tristezza e di lutto; quasi voluta. Tentai in vano di ricordargli uno dei nostri giorni più allegri: raggrinzò la fronte, quasi con sdegno. Capii che egli non ci pensava più: e smisi, sentendo la mia spensieratezza attraversata da un brivido. Ormai non avevo più voglia di ridere, e allora gli parlai con affetto di alcuni amici nostri, che da tanto tempo non vedevamo più.
— E perchè pensi a loro?
Mi chiese così come se avesse voluto dirmi: tu non devi pensare a loro, non voglio che ti amino.
— Hai scritto mai al....?
E me ne nominò uno; quello al quale egli era più certo d’indovinare che avessi scritto.
— Due volte.
Si mise a ridere:
— Hai fatto male.
Io non osai chiedergli perchè.
— Ti ha risposto?
— Sì.
Egli sembrò meravigliato, e disse:
— Non credevo.
— E perchè?
— Che cosa vuoi sapere come mi piace di giudicarli?
Nemmeno allora osai chiedergli spiegazioni.
— Se io andassi via dalla nostra città, non direi a nessuno quel che farei.
— E perchè?
Ma non mi rispose. Si mise a moltiplicare certe cifre, che gli servivano per le misure del disegno; con una tale attenzione come se io non ci fossi stato nemmeno. Ma capii che continuava, per conto suo, a pensare quel che mi aveva detto. E pure egli mi piaceva quando faceva a quel modo!
Egli lo capiva e si lasciava ammirare, sorridendone: come di un’abilità che io non avevo.
— Ora, vattene. Devo lavorare sul serio.
Io lo salutai, ed uscii.
Dopo due giorni, incontrandolo in strada, lo volevo fermare; ma egli tirò di lungo.
Per due mesi o più, fece di tutto perchè non ci parlassimo. Io stavo per adirarmi da vero e per inimicarmi, quando, una volta, mi raggiunse e si mise, camminandomi al fianco, a parlarmi con un desiderio di riescirmi grato che m’imbarazzò. Parlammo di musica e di pittura, come ci era possibile. Egli mi dette sempre ragione e promise perfino che avrebbe riportato a certi suoi amici, ai quali io non avevo mai parlato, quel che avevo detto. Questa cosa mi colmò di gioia e forse anche d’orgoglio; ma orgoglio non ne avevo, e lo avversavo quando lo scoprivo negli altri. Lasciandomi, per andare a casa, mi chiese:
— Sei amico anche a me come agli altri?
Io l’avrei abbracciato; ma egli non fu contento che gli avessi risposto a quel modo: forse egli voleva che io avessi meno effusione ma più sicurezza. Ma io non ci era abituato! Egli, dandomi la mano, mi disse:
— Ci possiamo vedere la sera. Io, ora, esco.
Ma, per quanto lo cercassi, non l’incontrai mai.
Quando, alla fine, seppi ch’era morto, mia sorella, Violetta, mi disse:
— Gli avevo promesso di non dirti niente, perchè si vergognava; ma, ora, egli mi ha pregato, prima di morire, ch’io ti debba dire tutto.
Mia sorella aveva sei anni più di me; e io le volevo molto bene. Perciò l’ascoltavo sempre volentieri, e mi faceva le veci di madre.
Ella proseguì:
— Lo Scali è stato innamorato di me, e voleva sposarmi.
Io le chiesi, con un rimprovero troppo impensato:
— E perchè non gli hai dato retta?
Ella non rispose, ma non io capii che era per pudore. Mi prese ambedue le mani e me le tenne finchè non ebbe finito di dirmi tutto. Allora conobbi quanto lo Scali l’aveva amata. Ella mi fece leggere anche certe sue lettere così piene d’una passione quasi inverosimile, che mi venne da piangere; e feci molto dispiacere a mia sorella. Egli aveva sofferto tanto del suo rifiuto, e non ci s’era rassegnato mai. Fino all’ultimo giorno, aveva avuto una certa speranza; e mia sorella era andata a trovarlo poco prima ch’egli spirasse; perchè egli aveva mandato la sorella sua a chiamarla. Esse, perciò, ora erano doventate amiche e si vedevano quasi ogni settimana, senza ch’io lo sapessi. Ma il ricordo dello Scali non mi lasciava; e mi pareva di vederlo dentro la sua bara già fatto irriconoscibile dalla morte.
E una volta ch’io ero sul ripiano di quella strada, tornai a dietro, stringendo i denti dalla paura, perchè m’era parso che il vento fosse freddo come d’inverno le sue mani.