Gemme d'arti italiane - Anno I/L'inverno in Lombardia
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Pianura LOMBARDA con cascina e marcita
ossia l'inverno in lombardia
quadro ad olio
di Giuseppe Canella
per commissione del Nobile signor Uboldo
La maggior parte dei pittori che presero a dipingere l’inverno si compiacquero adoperare i più tetri colori e le più tristi e sconsolate immagini che suggerisse loro la fantasia. Direbbesi che usassero tutte le forze dell’ingegno per gareggiare di orridezza colla natura ed anche superarla se venisse lor fatto. Non cercare nelle scene che ti raffigurano il lieto raggio del sole; per essi il verno è l’immagine dell’inerzia, della desolazione, della morte, laddove il sole, è la vampa, è l’anima di tutte cose, la vita del creato. Gira intorno lo sguardo:
tutto è solitudine; la campagna è un vasto deserto, le piante brulle curvano i rami sotto il peso della neve; i piccoli laghi, che soavemente s’increspavano ad ogni più lieve soffio di vento, giacciono immobili come percossi da una maligna potenza che tolga a tutte cose il moto e la vita: i fiumi travolgono masse di ghiaccio galleggianti. Dov’è la gioconda varietà de’ colli? Dove la voluttuosa ombrìa de’ boschi, cara ai sospiri della sventura, più cara ai misteri dell’amore? Tutto è scomparso:
se appare qua e là alcun essere vivente porta anch’esso l’impronta della mestizia. Qui vedi una vecchierella coperta di laceri panni che, ristretta nella persona, studia il passo incamminandosi verso un miserabile tugurio: là un povero taglialegne, scarno, sparuto, cadente, coi capelli canuti, quale appunto si suol dipingere il verno stesso, che, distendendo bramosamente le palme, curvasi sovra un gran fuoco acceso a piè d’una quercia antica, e quel fuoco è l’unico elemento che mostri aver vita in mezzo a quella morta natura; ovvero un mendico che assiderato, rifinito di forze, sotto un cielo rannuvolato, s’abbandona sovra un sasso, guardando intorno se mai scopra alcuno che pietoso lo guidi a qualche casolare ospitale.
Che se la scena è fra monti ed alte giogaje, queste immagini sono un nulla a petto di quelle che allora la tela li rappresenta. Nude roccie, irte, pendenti sopra spaventevoli precipizj, fiori, pini, abeti spezzati, travolti fra le ammonticchiate nevi, e in esse capanne mezzo affondate, valanghe fra la cui ruine fruga paziente il cane del S. Bernardo per disseppellire un misero viandante che n’esce solo col capo e colle estremità delle braccia, mentre al violento curvarsi delle piante, al color cenerognolo del cielo, alle larghe falde di neve qua e là svolazzanti, quasi candida polvere, ti accorgi che stride il vento e imperversa la tormenta, tali sono le immagini di che si compiace il pittore. Siffatte scene possono riuscire assai belle e commovere profondamente il cuore de’ risguardanti, ai quali non è forse inutile sotto più mite clima ricordare la misera sorte di chi, uguale ad essi per natura, è, ridotto a vivere sotto sì aspro cielo fra tanta e sì fiera vicenda di pericoli. Pure ameremmo talvolta veder la faccia del verno un po’ men trista, ameremmo vederlo spianare, per dir così, quella fronte accigliata, schiudere un tal poco le labbra ad un sorriso mesto, se volete, ma pur sempre giocondo.
Tale le più volte il vediam noi figliuoli del mezzodì, ai quali la natura riserba le sue grazie privilegiate.
Se le piante ci appajono nude di foglie, se i campi, se i colli, se le valli più non ci rallegrano la vista col loro verde, e coll’armonica varietà de’ fiori, non però il sole ci niega il conforto della sua faccia.
L’occhio facile trascorre più lontano come in libero campo, e si spazia più sublime nel cielo; se breve è il dominio della luce che, come frettolosa viaggiatrice, pare che appena si degni volgerne un saluto, impaziente di rallegrare più fortunate spiaggie, in compenso quanto bella ne appare la notte! Direbbesi che trovi al
lora nuove stelle per fregiare il suo manto, che gli astri brillino di nuova luce, sì schietti campeggiano nell’immenso spazio de’ cieli. È allora che l’astronomo più franco signoreggia collo sguardo indagatore quelle miriadi di mondi che vanno roteando nel vuoto fra loro equilibrati, e come insiem congiunti da una invisibile e misteriosa catena; è allora che scopre nuove maraviglie, e riconosce in quella innumerabile milizia del cielo nuovi astri che aggiungono una voce all’immensa melodia, onde i cieli e la terra annunziano la gloria di colui che tutto move. Oh quante anime allora in quel silenzio delle cose s’innalzano colla mente al di là delle sfere! Quanti cuori in quel riposo universale della natura assurgono a meditare sui giorni degli uomini, che incerti fra la luce e le tenebre, corrono incontro ad una notte che non avrà più mattino in sulla terra! Quando spira acuta la brezza del monte, quando nuda la terra appare come vedova donna che non ha più ghirlande pel suo capo, l’uomo sente il bisogno di una non mutabile stanza; quando la terra non ha più lusinghe a’ suoi occhi, alza gli sguardi al cielo.
Ma il cupo azzurro del cielo poco a poco s’imbianca: le stelle dileguano come gli ultimi fuochi di un campo. Addio misteri della notte! L’ora del pensiero è passata; è tempo di operare. Lungo è il riposo della natura, perché lunghi i suoi destini; ma il riposo dell’uomo vuol esser breve, perché brevi sono i suoi giorni sulla terra, e grande è l’opera che deve compiere nel suo corto pellegrinaggio.
Anche il verno non è senza le sue dolcezze. Se la luce del sole più rado sfolgora nella sua limpida gioja, in compenso quanto non riesce più gioconda perché meno aspettata? Di tutto si sazia il cuore dell’uomo quaggiù, perfino della luce. Nelle lunghe giornate estive quasi ti viene in ira la superba signoria del sole sopra tutte le cose. È bello è, è stupendo lo spettacolo di questo primo ministro della natura; ma l’occhio non può reggere al suo splendore; maravigliosa è la pompa della sua bellezza, più maravigliosa ancora la sua virtù creatrice di sempre nuove ricchezze; ma l’aere ti porta nel petto una fiamma che lenta ti consuma; il corpo, come accasciato sotto l’improbo peso di una mole che ti preme, vien meno; l’animo quasi vinto da un fascino fatale, più non trova le sue forze e pare che si addormenti sopra sé stesso. Domandate al contadino quante volte sotto il sollione, sparsa la fronte di sudore, ristette pensoso sulla stiva, o sulla marra, guardando amaramente la terra che gli resta tuttavia a dissodare! Tutto è serenità, tutto è vita a lui d’intorno; ma il suo sguardo è languido, rotte le membra, l’anelito affannoso; tutto è esultanza nei fiori, nelle erbe, nelle acque; ma l’uccello nel bosco più non canta; ma deserta è la via, tacenti i campi che danno imagine di una immensa solitudine, che, ricca d’ogni tesoro, non aspetti che la presenza dell’uomo per giocondarla. L’operajo nell’officina si sente come da una cieca possanza che lo perseguiti affrangere le braccia nerborute; rombano i mantici, suona il pesante martello sull’incudine, stride la sega: ma la voce dell’uomo, la voce potente, interprete della vita, è muta. Chi esercita l’anima irrequieta nelle solitarie vie della sapienza, credeva poc’anzi lo spirito arbitro supremo dei sensi, ciechi organi che riducono in atti i suoi voleri; ora sente che la materia pesa sullo spirito tiranna; le immagini gli sfumano incerte nella fantasia; la volontà fiacca e indolente non sa risolversi ad un partito. Allora il poeta sospende il suo canto, e contempla immoto il cielo e la terra, senza che gli trabocchi spontaneo dall’anima un inno. È pure un’estasi la sua: ma un’estasi vaga, che non prende alcuna forma, che non si ferma in alcun pensiero, che non afferra alcuna idea, simile a quella onde è preso l’indiano panteista presso le sacre onde del Gange; estasi muta, non traducibile in alcun linguaggio di questo mondo, la quale morendo nell’anima che l’ha concepita, non troverà mai un’eco nel cuore delle moltitudini.
Ma nel verno tutto è forza e vigore: se la vita appare quasi che spenta nelle opere materiali della natura, quella dell'uomo si svolge più energica, più continuata, più industre. Direbbesi che l’uomo, ente spirituale imprigionato nella creta, quanto meno è distratto dai sensi non accarezzati dalle bellezze esteriori della natura corporea, tanto più ritorcendo sopra di sé le proprie facoltà, diventi operoso, e più senta di bastare a sé medesimo. Che gli importa allora della crudezza dell’aere che lo circonda? Il moto e la fatica procaccieranno alle sue membra un calore intimo, forte, salutare.
Tacerò io della più cara fra le consolazioni che il verno suole arrecare alle nostre famiglie? Il so: questa superba età che si crede in diritto di mettere in deriso quanto piacque ai nostri padri non vuol sentir parlare di domestiche gioje, e rimanda all’idillio, cui pure cacciò con isprezzo fra le anticaglie, rimanda, dico, all’idillio certe descrizioni di famiglie patriarcali, pendenti nelle lunghe sere d’inverno dalla bocca dei vecchi con amorosa ansietà; discordie cupe, ire ognor rinascenti, odii profondi, implacabili che dividono i padri dai figli, e il talamo sacro all’amore verecondo di due sposi tramutano in poco meno che un eculeo di martiri, e ne fanno un testimonio nefando di reciproche perfidie e tradimenti, tali sono le immagini che più le talentano, dacché le lettere prostituendosi assunsero il troppo facile incarico di mettere sul trono le passioni più turpi, e rappresentarle come una fatalità ineluttabile che aggira ogni mortale, come la serpe implica nelle terribili sue spire l’incauto viandante. Resta però sempre una non piccola parte della società, che, estranea a così fatte pazzie e cupi capricci della moda, non crede che per ammazzar la noja debba volontariamente torturarsi colla lettura di strane vicende e atroci e misteriosi delitti.
Questa non isdegna le modeste e tranquille gioje del paterno focolare; questa conosce per prova quanto sia dolce cosa, mentre la neve cade a lente falde sui tetti, sul lastrico delle vie, sui campi d’intorno, e l’aria è cruda, il cielo tutto velato, sedersi presso a un bel fuoco fra una gaja corona di vispi fanciulli che scherzano e giuocano sotto gli occhi tuoi, o fra una brigatella di buoni amici, che vengano a ricambiare con te i loro pensieri e le semplici loro cure. È questa l’ora che il figlio del montanaro scozzese dalle labbra del padre impara le antiche canzoni che già animarono le tante
volte il suo Clan alla battaglia; è l’ora che le fanciulle di Altorf e di Svitz ricordano nei loro canti il lamento delle antiche vergini elvetiche ansiose pei prodi fidanzatati mossi a fiaccar l’orgoglio del Borgognone; è l’ora che il veterano, superstite ai fasti di un’impero che dileguò come un sogno, rammenta i pericoli, le vicende, le superbe gioje di una gioventù sudata fra le armi sotto diverso cielo, e, passando come a rassegna le sue memorie, ad ogni nome di camerata che non è più, appare una nube di mestizia sulla sua fronte, e succede un momento di silenzio, silenzio come dinanzi ad una generazione di estinti. Ahimè! Le nostre ricordanze più care portano il suggello della morte; piaceri, amori, amicizie tutto tace alla fine sotto di una croce: appiè di una croce si vengono a cercare le reliquie del nostro passato, polvere innaffiata dalle lagrime dei viventi.
Chi crederebbe che mi dovessero pullulare nella mente tutti questi pensieri alla vista di un quadro?
Tant’è; la mirabile tela del Canella, quella tela dove tutto è sì quieto, sì soavemente mesto, soprattutto sì vero, mi richiamò tosto al pensiero tanti altri dipinti raffiguranti il medesimo soggetto e notai il gran divario che ci corre tra quelli e il dipinto del nostro artista. Questo mi condusse ad esaminare se veramente il verno sia sempre quell’orrida stagione che ci è rappresentata dall’universale dei poeti e dei pittori. Però, lasciandomi andare d’uno in altro pensiero, quasi dissi alla ventura, la finzione dell’arte mi trasse a meditare la realtà della vita. Nel resto, chi meglio sa del Canella col prestigio dell’arte trasportare gli animi alla contemplazione del vero? Guardate, esaminate questa tela: vi trasporta essa nelle sterminate solitudini della Russia, o lungo le rive dell’Obi agghiacciato fra i perpetui orrori della Siberia, ovvero fra i precipizj e i paurosi burroni dell’Alpi? È un vero inverno della Lombardia che avete sotto gli occhi, come ne avrete veduti chi sa quanti, come vi auguro che ne possiate vedere di molti ancora; non è l’inverno di convinzione, l’inverno passato come tradizione d’una in altra età, che noi poveri scolari di Rettorica, seguendo certi principi prestabiliti dipingevamo a gara con sì foschi colori. Di questo intendimento si vuol dare, per mio credere, somma lode al pittore, tanto più che pochi sono, anche oggidì, che osino svincolarsi da certe regole che non hanno fondamento che nel dispotismo di un’antica usanza. Così egli ha dimostrato che forte del proprio ingegno non ha bisogno dei mendicati ajuti di un’arte fittizia per piacere e commuovere. Questa smania di sopraccaricar le tinte per iscuotere più fortemente pur troppo è molto comune: i monumenti delle arti e delle lettere, anche di quei privilegiati che più salirono in grido, ne porgono continua prova. Ma io non so se veramente sia d’uopo eccitare i nervi a convulsioni febbrili per ricreare, toccare i cuori, istruir le menti; anzi oserei dubitare che quanto più le impressioni sono violente tanto meno le debbano durare, perché in fin dei conti ogni eccesso stanca, e l’illusione del falso cede il luogo dinanzi alla verità. Quando tu vedi una movenza di corpo, un espressione di volto, un gesto che escono dai confini del vero, puoi bene in su le prime restarne percosso, e tanto più fortemente quanto più per la sua stessa esagerazione quella vista ti riescirà nuova; ma alla fine, cessato quel primo senso di stupore, tu domanderai a te stesso se la natura si manifesti a quel modo, e tosto succederà in te un sentimento contrario al primo, un sentimento di dispiacere e di disapprovazione. Solo la semplice natura, come i cibi più semplici, non sazia mai; quello che varca i limiti del vero non può piacere a lungo, perché non trova corda che gli risponda nel cuore umano. So bene che anche nella natura sì corporea che morale occorre più d’una volta alcun che di eccentrico, che si scosta al tutto dalle regole generali, ma non è dato che alle menti viziate, il gustare a lungo le bizzarrie, le stranezze e mostruosità. Il nostro Canella è di quei pochi che non si avvisano di superare il bello della verità; di que’ pochi che sentono che non si può esser più varj, più grandi, più commoventi della natura, che mostrano alla prova di essere profondamente persuasi come chi cammini sulle orme di quel vero che tutti possiamo vedere non può mai perdere del suo prestigio, perché non arriverà mai tempo che alcuno lo abbia a convincere che si appoggiasse sul falso. Quando io miro questa bellissima tela, non dico a me stesso, dove siam noi?
Non vi ha dunque che un solo aspetto sotto cui l’austera figura dell’inverno valga la pena d’esser contemplata? Quelle nostre belle giornate del gennajo quando al mattino, affacciandoci alla finestra, vediamo il sole che pallido ma pur non triste ci sorge di fronte come per invitarci ad uscire all’aperto, non possono dunque eccitare la fantasia dell’artista? Pur le sono delle più dolci giornate dell’anno, pur fanno frequenti di passeggiatori le nostre vie, rinfrancano le nostre membra bisognose di moto, e allora il sangue ci corre vigoroso nelle vene, si dissipano le nostre cure.
Che bisogno abbiam noi di perpetue nevi, di stemperate pioggie, di furiosi aquiloni, di valanghe per commoverci, come se tutto dì non avessimo altro sotto gli occhi? Io non intendo riprovare chi volle dipingere il verno nelle più orride sue sembianze: questo pure è vero, e il vero è sempre bello; ma non è bella la monotonia, non è bello il manierismo, il ripetersi continuo delle stesse scene, il ricorrere mai sempre a delle eccezioni per ottenere un dato effetto. Eccitare forti impressioni con mezzi straordinarj non è difficil cosa; la copia degli accessorj per dare spicco al soggetto principale molte volte accusa l’autore di povertà d’ingegno.
Trovatemi una scena più semplice più naturale di quella immaginata nella tela di che ora parliamo? È mattino: il sole di mezzo ad un cielo leggermente velato di nebbie sorge tranquillo, e la sua luce un po’ malinconica, ma di una cara e soavissima malinconia, si riflette nelle onde di una bella riviera che attraversa la campagna. Alcuni contadini con diverse attitudini tutte composte si stanno a riguardarla. Qui sono alcuni contadini che la discorrono dolcemente tra loro, là un uomo, che volgendo le spalle al sole, dalla riva li sta guardando; più in su un carro che a stento si avvanza per quel suolo lubrico e cedevole; a destra, a sinistra
lungo quell’acqua si distendono alcune fila di piante che mettono ad alcune povere casuccie, le quali, riposando lontano da ogni strepito cittadinesco, t’invitano a’ pensieri casalinghi. Al di là della riviera si stende una marcita bella di erbe verdeggianti, sulle quali appaiono qua e là le reliquie della neve caduta la notte.
Quel verde fa un bellissimo contrasto colla nudezza delle piante, colla nebbia che ingombra il cielo. In tutta questa tela quale armonia di tinte sapientemente digradanti secondo ché più o meno ricevono della luce del sole! Guardala per ogni verso, è sempre la natura nella sua verità che ti rapisce a maraviglia. Ora se io dicessi che in questo quadro, come negli altri lavori del Canella, trovo un far largo, disinvolto, franco, una certa magnanima sprezzatura, che sdegna le minutezze, il tritume, e quel soverchio studio dei minimi oggetti, che converte tante tele di oggidì in una specie di miniatura, dove appare più la meschina pazienza dell’autore, che non la fantasia, il cuore, l’anima creatrice, chi oserebbe contraddirmi? Basta aver due occhi in fronte, e l’anima educata al sentimento del bello per riconoscere i pregi del nostro artista. Io non so se vi abbia pittore che meglio di lui conosca i più cari e preziosi segreti della luce, tanto che si potrebbe dire il pittor della luce per eccellenza. Sia questa immensa e sfavillante come in pien meriggio, sia pacata e languida come nell’ultimo crepuscolo della sera, o sorridente e gaja come in sul primo albeggiare del mattino, non ha mistero che a lui tenga nascosto. Come bella nelle sue tele pel rotto del fogliame delle piante trapela, come tremolante scherza ripetuta nello specchio delle acque, come si rifrange aerea, vaporosa fra le nubi, che la raccolgono nel loro seno trasparente! E in questa tela quanto non è simpatica quella luce velata, dinanzi alla quale la natura si mostra tra mesta e lieta come donna che mescoli col sorriso le lagrime! Potrebbe l’occhio correre più libero tra quegli oggetti? Potrebbero questi più netti distaccarsi dal fondo del quadro! Quel cielo, quell’aria, quelle acque, quelle piante, quelle casuccie, potrebbero ritrarre più al vero la natura, fare più dolce inganno agli occhi? Ci parve soprattutto mirabile quanto alla magia dei colori quel raggio di sole che si riflette nelle acque, così adombrato qual è dalla nebbia, e quella neve che si va sciogliendo; bellissimo concepimento per farci intendere che siamo nel cuore del verno ma di un verno né orrido né pauroso. Questo quadro del Canella è un vero idillio in pittura, ma un idillio semplice e grave ad un tempo che per mezzo degli occhi parla soavemente al cuore e li fa pensare soavemente.
Antonio Zoncada