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suo canto, e contempla immoto il cielo e la terra, senza che gli trabocchi spontaneo dall’anima un inno. È pure un’estasi la sua: ma un’estasi vaga, che non prende alcuna forma, che non si ferma in alcun pensiero, che non afferra alcuna idea, simile a quella onde è preso l’indiano panteista presso le sacre onde del Gange; estasi muta, non traducibile in alcun linguaggio di questo mondo, la quale morendo nell’anima che l’ha concepita, non troverà mai un’eco nel cuore delle moltitudini.

Ma nel verno tutto è forza e vigore: se la vita appare quasi che spenta nelle opere materiali della natura, quella dell'uomo si svolge più energica, più continuata, più industre. Direbbesi che l’uomo, ente spirituale imprigionato nella creta, quanto meno è distratto dai sensi non accarezzati dalle bellezze esteriori della natura corporea, tanto più ritorcendo sopra di sé le proprie facoltà, diventi operoso, e più senta di bastare a sé medesimo. Che gli importa allora della crudezza dell’aere che lo circonda? Il moto e la fatica procaccieranno alle sue membra un calore intimo, forte, salutare.

Tacerò io della più cara fra le consolazioni che il verno suole arrecare alle nostre famiglie? Il so: questa superba età che si crede in diritto di mettere in deriso quanto piacque ai nostri padri non vuol sentir parlare di domestiche gioje, e rimanda all’idillio, cui pure cacciò con isprezzo fra le anticaglie, rimanda, dico, all’idillio certe descrizioni di famiglie patriarcali, pendenti nelle lunghe sere d’inverno dalla bocca dei vecchi con amorosa ansietà; discordie cupe, ire ognor rinascenti, odii profondi, implacabili che dividono i padri dai figli, e il talamo sacro all’amore verecondo di due sposi