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di camerata che non è più, appare una nube di mestizia sulla sua fronte, e succede un momento di silenzio, silenzio come dinanzi ad una generazione di estinti. Ahimè! Le nostre ricordanze più care portano il suggello della morte; piaceri, amori, amicizie tutto tace alla fine sotto di una croce: appiè di una croce si vengono a cercare le reliquie del nostro passato, polvere innaffiata dalle lagrime dei viventi.
Chi crederebbe che mi dovessero pullulare nella mente tutti questi pensieri alla vista di un quadro?
Tant’è; la mirabile tela del Canella, quella tela dove tutto è sì quieto, sì soavemente mesto, soprattutto sì vero, mi richiamò tosto al pensiero tanti altri dipinti raffiguranti il medesimo soggetto e notai il gran divario che ci corre tra quelli e il dipinto del nostro artista. Questo mi condusse ad esaminare se veramente il verno sia sempre quell’orrida stagione che ci è rappresentata dall’universale dei poeti e dei pittori. Però, lasciandomi andare d’uno in altro pensiero, quasi dissi alla ventura, la finzione dell’arte mi trasse a meditare la realtà della vita. Nel resto, chi meglio sa del Canella col prestigio dell’arte trasportare gli animi alla contemplazione del vero? Guardate, esaminate questa tela: vi trasporta essa nelle sterminate solitudini della Russia, o lungo le rive dell’Obi agghiacciato fra i perpetui orrori della Siberia, ovvero fra i precipizj e i paurosi burroni dell’Alpi? È un vero inverno della Lombardia che avete sotto gli occhi, come ne avrete veduti chi sa quanti, come vi auguro che ne possiate vedere di molti ancora; non è l’inverno di convinzione, l’inverno passato come tradizione d’una in altra età, che noi poveri scolari di Rettorica, seguendo certi principi prestabiliti