Gemme d'arti italiane - Anno I/Venere che entra nel bagno
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VENERE Che entra nel BAGNO statua di Antonio Bisetti acquistata dalla Società di Belle Arti in Milano
Allorché, or son pochi anni, io mi andava aggirando pei santuarii dell’arte moderna, che Roma con tanta liberalità dischiude anche ai più umili visitatori, non di rado dopo di aver con tutti gli altri il mio tributo d’ammirazione alle magnifiche tele di Camuccini o di Podesti, agli immaginosi freschi di Paoletti o di Coghetti, alle angeliche Psichi di Tennerani, alle michelangiolesche creazioni di Finelli o di Torwaldsen, sentiva sorgere in me come un bisogno di calma, un desiderio che mi spingeva ad achetare gli sguardi in una luce più mite, e l’udito in suoni di lodi meno assordanti. Allora perciò m’era dolce far passaggio dalle aule di que’ magnati del regno artistico, a taluna di quelle stanze modeste, entro cui uomini privilegiati si travagliano di lottar colle invidie o colle bizzarrie de’ giudizi contemporanei, o novizii pieni di nobile ardore si apprestano a sostenere, le amarezze del cominciamento per conseguir, quando che sia, la dolcezza del premio. Ivi sovente, né so se io chiami ciò illusioni d’amor proprio o di sentimento, ivi di mezzo all’ingombro di incompiuti sbozzi, o di informi modelli, la mia fantasia si compiaceva di fingersi qua la scintilla del genio, là il marchio d’assoluta impotenza, qui il soffio proprio del nume, lì il ghiaccio della mediocrità. Ed il mio cuore si apriva intanto o alla speranza o alla tristezza secondo che mi parea di indovinare i destini serbati a quei ministri dell’arte. Siam d’accordo, o lettori, che quelle tacite mie profezie non ebber tutte adempimento, perché altro è recar né giudizi il solo lume che vien da caldo sentire, altro è conghietturar per dottrina; ma pur, benché di quest’ultima io fossi men che mediocremente fornito, non è a dire che i miei vaticinii andassero tutti ad un modo falliti. Fra que’ giovani, de’ quali io ardiva inesperto apprezzatore predir le sorti future, molti pur troppo rimasero a’ primi passi, o indietreggiaron, com’io imaginava, altri or son venuti in voce onoratissima, e fra breve occuperanno distintissimo seggio. Un di que’, che a bella prima si attrassero le mie simpatie e pell’amore candido e vivo dell’arte sua, e pel modo di fare, e per l’assiduità degli studii fu Antonio Bisetti, allora allora uscito del lavoratorio del grande Finelli, il quale promettea di voler far onore al maestro, e di sollevarsi oltre la sfera della mediocrità. Egli esponeva a’ quei giorni un modello di statua, ed io, che della sua valentia avea già avuto bel saggio in alcuni bassi rilievi egregiamente imaginati, ed in molti busti e ritratti condotti a squisita perfezione, ebbi argomento di confermare la stima già concetta, e per dargliene testimonianza scriveva nel giornal Tiberino un articolo concepito press’a poco in tal forma:
«Ritrarre in marmo una Venere dopo che i più celebri scultori da Fidia a Finelli ne fecero favorito argomento di studio, ritrarla qual si addice alla Diva della bellezza, senza macchiarsi di plagio, è opera che più presto si direbbe impossibile che ardua. Ma la fantasia dell’artista ha il privilegio di scoprire non avvertiti recessi anche nelle più esplorate regioni, e di coglier combinazioni insperate anche là dove ogni elemento sembra esaurito. Difficile certamente è il problema che si offre da risolvere al signor Bisetti, e chi comanda ad uno scultore giovane l’esecuzione d’una statua di Venere mostra o di far poca
stima delle difficoltà, o di farne moltissima dell’esecutore; ed io penso che pochi ardirebbon di lor talento cimentarsi a trattare un soggetto, del quale sì magnifici ed ammirati si vedon per tutto antichi e moderni modelli. Io, per me, e lo dirò con buona pace dei mitomani, non ho mai cessato dal rimpianger la sorte degli scultori, ai quali quasi sempre una cieca abitudine impone di retroceder secoli e secoli, onde ispirarsi alle smorte memorie delle olimpiche divinità. E perché si vuol dannar la scultura a vivere segregata dai nostri costumi, dall’indole nazionale, dalla religione, dal gusto odierno?
Perché, solo a riguardo di lei si vorrà infranto il misterioso legame, l’indeffinibile accordo che annodar pur deve lo stato della società e le condizioni dell’arte? Ma io non intendo fare il maestro, e qui volevo unicamente accennare ai grandi ostacoli che il Bisetti ha comuni con molti de’ suoi colleghi, per trarne argomento d’encomio, avendo egli saputo mostrar perizia meglio che giovanile nell’infondere all’opera sua tutta quella novità e quella vita che poteva desiderarsi.
La sua Venere è a sedici o diciasette anni, nell’età del candore e delle grazie, fanciulla di forme svelte e gentili, forse d’aspetto più casto che non si conviene alla sensuale Ciprigna. Essa è in atto di scender nel bagno, nel quale sta per immergere il destro piede, e quasi conscia che curioso nume o audace mortale faccia capolino fra le macchie della verde riva, rivolge un po’ a manca la testa siccome chi teme ed esplora. Nell’intento di schermirsi dalle ammirazioni indiscrete si studia di coprirsi d’un lieve drappo che foggiato a fascia ella sostiene colla sinistra di sotto al petto, e dopo averlo aggirato riprende colla destra graziosamente piegata. Piacente è la generale espressione della figura, ben disegnate le forme, ben conservato l’insieme, e la prima impressione che altri prova davanti alla statua è una attrattiva gradevole. Se non che ad interromper la lode pronta a venir sulle labbra dei riguardanti, può insorger qualche osservazione intorno ai lineamenti del volto, ed al carattere della fisonomia. Recano questi veramente l’impronto di quella grazia ideale di quella greca bellezza, che a rappresentar Venere è passata in universal convenzione? No per fermo, e non per questo sarà di farne rimprovero allo scultore. Egli più che all’esempio degli altri amò attenersi alla scuola della natura, abbandonò l’antico per andare in traccia del moderno, e se nella sua Diva voi cercherete indarno la figlia del mare, la madre d’amore, la delizia degli uomini e de’ numi. vi basti di trovare in essa un tipo di femminil leggiadría; chiamatela con altro nome, è tutt’uno; pur che sia leggiadra e vi attragga soavemente, poco monta che non sia la Dea d’Amatunta, sarà la Venere di Napoli, di Torino di Milano, ma sarà sempre una Venere.
lo so che molti fra i cultori dell’arte sfidati di rinvenire un incensurabile esempio di bellezza moderna l’hanno dichiarato impossibile, ed affermarono non esister che una specie di bello espresso già da lungo tempo dai Greci.
Ma sarà egli vero che l’arte abbia rivelato il suo ultimo precetto, abbia fatto l’estremo suo sforzo due mille anni fa? È egli vero che non si possa ragionevolmente calcare altra via fuor quella già tracciata dai Greci? Tanto varrebbe asserire che l’umana razza da venti secoli non ha fatto che degenerare, e che quel che l’uomo altre volte operò, or più non possa o sappia operare. Se il bello antico tranquillo, maestoso, preciso ritraea splendore principalmente dalla nettezza dei contorni, dalla squisita perfezion delle forme, dalla rigorosa armonia delle proporzioni, il bello moderno richiede movimento, vita, energia. L’espression della calma è una, quelle delle passioni sono infinite; come mai adunque si vorranno le arti stazionarie, ed immutabili?
Nè io qui io voglio affermare avere il Bisetti colto addirittura nel segno, col dar alla fisonomia della sua Venere quel colore così diverso dalle altre. La perfezione non è meta che si raggiunga a’ primi passi, e le smodate lodi tornano ad insulto di chi sa conoscer l’altezza in cui è posta. Vorrei sì bene persuadere agli schizzinosi seguaci degli scolastici precetti ch’egli non peccò né di temerità né di irriverenza se tenne strada diversa dai maestri, e credette acconciar l’opera sua ad un tipo più conforme all’indole dell’età nostra. Simpatico egli ci presentò quel sembiante; dolce e ridente quel viso, non è celestiale, io concedo, ma è amabile al paro e più di tanti altri, e tutto considerato, il suo difficil lavoro manifesta ingegno nudrito di buoni studi, occhio osservatore del vero, e mano addestrata al più dilicato magistero dell’arte sua.
Quel modello che io lodava per tal maniera in Roma nel 18391, non poté per sopraggiunti lavori, esser tradotto in marmo che or ora. Io salutai nelle sale di Brera la statua del Bisetti, coll’espansione con cui altri risaluta un amico conosciuto in terra straniera. Né la lontananza od il tempo valsero ad intiepidire il mio affetto, che anzi, - Caso strano! - la giovinetta che io avea ammirata cinque anni addietro, non solamente non mostrava traccia del tempo trascorso, ma è senza dubbio diventata più fresca, più avvenente. L’acconciatura delle chiome, le pieghe del velo, nelle quali io avea notato allora alcuna menda, le trovai bellamente mutate, e qualche dura ed inamabile linea che scemava la gentilezza delle forme si è rammorbidita quasi per incanto, talché fui ben lieto che la Venere da me amata in Roma fosse giudicata degna d’amore anche in Milano dagli intelligenti, i quali la vollero ornamento della nuova Società di Belle Arti, e diedero così al Bisetti quella testimonianza di stima, che più di ogni altra è efficace ad incoraggiare gli artisti.
Angelo Fava
- ↑ Mentre la Statua era esposta in Milano, il Bisetti ebbe da Roma commissione di scolpirne una seconda.