Galatea (Barrili)/XIX
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XIX.
Cavalier bagnato.
17 settembre 18...
Una grossa bega evitata; che fortuna! Per quanto gridassi di voler provvedere da me alle faccende mie, m’avrebbe seccato mortalmente un duello con questo conte Quarneri, degnissimo gentiluomo che non ho mai più visto nè conosciuto dal giorno che l’ho dato a balia. Filippo si è mostrato veramente savio, in questa occasione, ed io lo aggiungerò volentieri ottavo ai famosissimi sette dell’antica Grecia. Ed anche, come mi ha rimesso il fiato in corpo con una sua modesta confessione! Mi son sentito rinascere; ancor oggi mi par d’essere quel tale, che uscito fuori convalescente dagli ardori e dai delirii d’una febbre da cavalli, ricomincia a sentir l’allegrezza del vivere, poichè dalla finestra riaperta penetra una buona corrente d’aria fresca nell’afa e nel viscidume della sua stanza d’infermo.
Oggi sono andato fuori, la prima volta dopo tanti giorni, per far qualche visita; lento, a piccoli passi, col mio bastoncino di città, rinunziando alle mie mazze babilonesi di ridicola e dolorosa memoria, facendomi più debole di quello che veramente io non sia, e fermandomi volentieri ad ogni svolta della strada campestre. La prima stazione del mio viaggio di gratitudine, un po’ per riguardo alle conoscenze più antiche, un po’ per avvezzarmi all’ufficio e procedere per gradi, dal minore al maggiore, è stata dalle Berti. La voluminosa Giunone e le sue tre graziose figliuole m’hanno fatto una festa da non dirsi.
— Ma che idea è stata la loro, di far della scherma senza le maschere? — mi ha detto la buona signora, giungendo le palme. — Non sono, per caso, un po’ matti? L’abbiamo già detto al signor Ferri, che è stato tanto sincero da convenirne. Così abbiamo avuto il dispiacere di perderli tutt’e due, per una quindicina di giorni. Ma anche lor signori, con questa assenza prolungata, hanno perduto molto. Corsenna, come Lei saprà, è rimasta deserta.
— Deserta? E ci son Loro?
— Questa, signor Morelli, è una galanteria. Ma il fatto sta che abbiamo perduta la contessa. Ha promesso di ritornare; ma, colla stagione inoltrata, ci sarà poco da sperarlo.
— Ebbene? Una signora di meno; — risposi. — Ma da quanto ho sentito dire, ne sono arrivate di nuove; la marchesa Valtorta, per esempio.
— Ah sì, ne è giunta la notizia anche al Giardinetto? La marchesa Valtorta è una gran signora, che il caldo eccessivo della campagna pisana ha fatta fuggire in Corsenna. Ha condotto molta gente con sè; ma non mi pare che n’abbia abbastanza, poichè ci ha quasi rubato il nostro commendator Matteini. Ed è un guaio; perchè i cavalieri della nostra piccola società sono rimasti pochi, assai pochi.
— Che cosa mi racconta! E il Dal Ciotto?
— Partito.
— Ah! ed allora.... anche il Martorana?
— Sicuro, e poteva aggiungere il signor Cerinelli; — conchiuse la signora Berti, ridendo maliziosamente. — Si capisce; erano tre inseparabili amici.
— Gran perdita, ne convengo; — ripigliai. Ma infine, la marchesa — Valtorta non vorrà essere così egoista, e alla vecchia società di — Corsenna farà parte della nuova che ha portata con sè.
— Non c’è caso, signor Morelli. Per fonderci, dovremmo adattarci ad un altro genere di vita. Noi si ama prender aria e passeggiare: in casa Valtorta si sta chiusi e si giuoca. Sicuro; la marchesa è ancora una bella donna, che forse vede ancora i quaranta, e può lasciar credere che siano trentacinque o trentasei; e già si butta per disperata in braccio al peggiore dei diavoli, che è quello del giuoco. Carte, signor Morelli, carte a tutto spiano. E a che giuoco, poi! lo indovini.
— A tressetti? a briscola? a naso e primiera?
— Oh, peggio assai, a zecchinetto; e corrono un po’ troppo i quattrini. Bisogna averci fortuna, come il nostro commendatore, per trovarci gusto. Dopo tutto, una signora gentilissima; e se vorrà esserle presentato....
— No, Dio guardi! — interruppi. — Ora vorrei rifarmi dell’ozio. L’aria è più fresca, e ne approfitterò per lavorare un pochino. —
Uscito dalle Berti, passai dalla signora sindachessa, per una visita da medico. Più lunga volevo farla dalle signore Wilson, dove andai a finire. Mi batteva il cuore, arrivando davanti alla palazzina; e più mi batteva entrando nel salottino, dove la signora Wilson madre era seduta secondo l’uso al suo telaio da ricamo. Non sola, per altro, come l’ultima volta ch’ero andato a visitarla; Galatea era con lei, reduce allora dalla solita passeggiata. Inutile il dire che combinai in casa anche Buci.
— Gliel’ho un po’ sviato, il suo Buci! — mi disse la signorina Kathleen, dopo i convenevoli d’obbligo, che riuscirono del resto un po’ magri e naturalmente impacciati.
— Ah, signorina, io glielo rinunzio, se vuole, anche per iscritto, e su carta bollata; — risposi. — Il signor Buci non vuol riconoscermi più, neanche per prossimo.
— Non ce l’offra, La prego; — gridò la signora Wilson madre, con un gesto di comico terrore. — Mia figlia sarebbe capace di accettarlo.
— Oh, mamma, mi credi dunque così egoista? Il signor Morelli si riprenderà il suo Buci, quando noi ce ne andremo da Corsenna, e sarà sempre stata una gran gentilezza da parte sua avercelo lasciato per questo po’ di tempo. Non è vero, Buci, che ritornerete dal vostro padrone? —
Buci non la intende così; ma ride, per cortese abitudine; frattanto gliene importa di me come dell’ultimo collarino che ha smesso. E come no? ne ha uno nuovissimo, di fettuccia rossa, col nome ricamato d’oro dalle mani della sua bella padroncina pro tempore.
Per tenere un po’ viva la conversazione colla signorina Kathleen, bisogna parlarle di Buci; ed io non mi lascio sfuggire l’appiglio.
— Buci avrà un pregio per me, quando se ne saranno andate; — rispondo; — quello di essere stato con Loro per tutta la stagione. Se mi permetteranno di venirle a riverire a Firenze, lo condurrò a farsi vedere.... Ma ad un’ora bruciata, s’intende.
— Perchè?
— Perchè, in verità, non è una bestia presentabile. In campagna, passi; ma in città....
— Non ne faccia così poca stima; — mi ribatte Galatea; — altrimenti non Le vorrà più bene affatto. —
È tutto ciò che ho ottenuto dalla buona grazia di Galatea. Ma che cosa doveva poi fare? Saltarmi davanti, come il re David nel cospetto dell’Arca? Fu cortese e garbata; non poteva esser di più, rivedendomi per la prima volta, dopo una certa conversazione, che il mio cattivo umore aveva resa fin troppo penosa per lei. Quest’oggi, poi, nè essa nè la sua mamma gentile fecero allusioni alla mia testa rotta; neanche mi vennero sul tema della contessa Quarneri e della sua fuga da Corsenna. Sì, tutto bene; ma io ero andato colla speranza di rimanere un paio d’ore; e dopo mezz’ora, per la freddezza cerimoniosa del ricevimento, vidi la necessità di prender congedo. Per fortuna, quando mi alzai, la mamma gentile mi disse:
— Ci rivedremo, signor Morelli? Qui, se non Le spiace; perchè in piazza oramai si va poco. La società è quasi sciolta.
— Ho bene inteso; — risposi, dopo essermi inchinato profondamente alla cortesia dell’invito. — C’è un astro nuovo, sull’orizzonte di Corsenna, e dicono che ci abbia già rubato il nostro commendator Matteini.
— Oh, quello.... — entrò a dire la signorina Kathleen, ridendo per la prima volta del suo bel riso protervo di Galatea; — quello, poi, ci sentiremmo di riafferrarlo alla prima occasione. Ma ce ne manca il desiderio; e del resto, chi non ci vuole non ci merita.
— Kitty! — esclamò la signora Wilson, con accento di dolce rimprovero.
— La lasci dire, signora; — gridai. — È una gran massima, e può consolare tutti coloro che non è destinata a colpire. —
Mi congedai presto, ho detto, perchè già ero in piedi; ma me ne andai molto più lieto, osando stringere coll’antica effusione fraterna la cara mano che Galatea non potè ricusarmi in quel punto.
A casa m’aspettava Filippo, con una notizia.... come dirò? sì, certamente spiacevole. Ha deciso di partire, e di partir domattina. S’intende che l’ho pregato, ed anche sinceramente, di rimanere, almeno due o tre giorni ancora. Ma egli è risoluto, e non si lascia smuovere.
— Senti; — mi ha detto, — ogni bel giuoco dura poco, e il mio è durato fin troppo. Tu non hai più bisogno di me, e puoi lasciarmi andare pei fatti miei. Piuttosto hai bisogno di far la tua strada. Non ti perdere in ragazzate, che n’hai fatte già molte, e possono bastare. Vai all’arma bianca, e conquista una mano che è degna di te.
— Ah, sì, per me non vorrei di meglio. Ma è così fredda, mio Dio! così ferma nel suo puntiglio!
— Ma che! avrebbe da far le pazzie, per dimostrarti quel che pensa di te? È una ragazza, non lo dimenticare. Quanto al puntiglio, è ancora e sempre una ragazza, che non ti può chiedere la spiegazione a cui ha diritto, e non può neanche aver l’aria di desiderarla. Animo, dunque, all’opera; "qui si parrà la tua nobilitate." Il tuo Don Giovanni, così pratico dei cuori femminili, come m’immagino che debba essere, vorrà avere qualche idea in proposito. Fattela suggerire da lui. —
Filippo è un amico eccellente. Se ne va, togliendomi d’impiccio, e mi lascia un buon consiglio, che io seguirò certamente.
18 settembre 18...
Corsenna è deserta, dicono. Ma che deserta! è libera! Io sono stato oggi un po’ triste, accompagnando Filippo alla stazione. Poveraccio!
egli meritava questo tacito omaggio del cuore alle sue nobilissime doti ed ai suoi utilissimi servigi. Ma io, ritornando al Giardinetto, mi sentivo più padrone di me, che non fossi stato mai. Avevo due ore libere, prima di desinare, e le ho subito messe a profitto correndo al fiume, al pancone, al viale dei pioppi, alla gran prateria, alle carpinelle, e al mio sacro rivolo dell’Acqua Ascosa. Non per ritrovarci Galatea, che non era quello il momento, se pure avesse l’usanza di andarci ancora, ma per pensare a lei liberamente. Sia pure Don Giovanni il consigliere; ma sia un Don Giovanni che abbia affogata la sua malizia in un mar di latte. Così dicevo a me stesso, arrivando al mio dolce rifugio.
Quanto è bello, fresco, ridente, quest’angolo di mondo ignorato! e quanto sarebbe più bello, più fresco, più ridente, se fosse qui Galatea, lieta, fiduciosa, serena come una volta, prima di quella tal passeggiata che le sarà parsa una profanazione, ma in cui non ebbi colpa veruna! Ecco dei fiorellini nuovi, autunnali, che dovrebbero piacerle. Ma ci viene ella più, da queste parti? Vorrei domandarne a quei cardellini, che saltellano, svolazzano e si rincorrono sull’orlo di quella ripa: ma essi non intendono il mio linguaggio, ed io non intendo il loro. Quest’erba tenera, che forse ella ha calpestata, è muta, e conserva gelosamente il segreto. Ah, non tanto gelosamente!
Ecco qua, tra un ciuffo di sermolino e un cesto di terracrepolo, biancheggia qualche cosa. Un tesoro, niente di meno, un tesoro. A tutta prima l’ho creduto un temperino; ma no, è più minuscolo ancora d’un temperino. Vediamo; è un ninnolo, un amore di stecchettina d’avorio, di quelle che adoperano le signore per tagliar le carte dei libri, in viaggio, colla piccola presa a taglio vivo da un lato, per usarne come segno quando hanno smesso di leggere.
Ed è sua, la stecchettina minuscola, è sua; vedo il nome di Kitty inciso sulla costola, in bei caratterini italici, di colore azzurro carico. Ah, Galatea, siete tradita! ed io vi potrei convincere d’esser venuta all’Acqua Ascosa stamane, o alla più lunga ieri mattina. Ma non lo farò; non mi preme di convincervi, non mi piace di restituirvi il fatto vostro. Questa cara stecchettina è mia; roba trovata è più che comprata.
Contento della mia piccola fortuna, non amo guastarla andando la sera a cercare la nostra antica colonia villeggiante, o quel tanto che n’è rimasto in Corsenna, e che la marchesa Valtorta non ne ha tirato al suo zecchinetto. Temo che le signore Wilson, o le Berti, credano necessario di parlarmi di Filippo Ferri; cosa che sarebbe pure naturalissima, nel giorno istesso ch’egli è partito. Voglio bene a Filippo, ma non amo sentirmelo ricordare davanti a Galatea. Domattina, domattina la vedrò, quella cara puntigliosa, se si risolverà di uscire a passeggio.
19 settembre 18...
Stamane, infatti, mi sono rimesso in caccia un po’ prima dell’ora in cui ella suole andar fuori. Al rivolo dell’Acqua Ascosa non c’era; ed io, lesto ai casali di Santa Giustina. Ecco la Nunziata, la buona vecchierella che attende alle sue occupazioni domestiche. Mi fermo a chiacchierare con lei; assisto al pasto delle sue galline; accarezzo il collo della sua mucca, le parlo di cento cose, e trovo anche il modo di farle un regaluccio, in compenso del bicchier di latte che ella mi offre, ancor caldo e spumoso. Trepidante, girando largo, conduco il discorso sulla signorina Wilson. Che buona e bella figliuola, niente superba, tutta amorosa colla povera gente, non è vero? E viene sempre a trovarvi? Sì, sempre, ma non tutti i giorni, perchè ci ha qualche cosa da fare in casa, specie nell’ultimo mese del suo soggiorno in Corsenna. Come vola il tempo! E par ieri, che la signorina è venuta in campagna. Ma ella ha promesso di ritornare un altr’anno. Si è trovata così bene, la sua mamma, tra queste montagne! Ed anche lei, quantunque non ci sia venuta per salute, come la sua mamma cara. È stata ieri a Santa Giustina, non è vero? Sì, ieri, una mezz’ora appena; ma oggi, chi sa?
Non ho più niente da dire, e saluto la buona vecchia, promettendo di ritornar qualche volta a bere il latte della sua mucca. L’ho pur detto; Don Giovanni affogherà la sua malizia in un mar di latte. E preso il sentiero del bosco, scendo verso il mulino, andando a fermarmi più in là, sulla strada che mette al paese. È il luogo dove ho incontrata per mia disdetta la signora Adriana; non mi piace, e vado ad appostarmi cinquanta passi più oltre, seduto sul lembo estremo del bosco, sopra un tappeto di eriche nane, e mezzo nascosto tra il fogliame di alcune ceppaie di castagno, che han rimessi i polloni. Specola eccellente, donde io posso dominare l’incontro di tutti i sentieri dai quali ella potrebbe passare, andando o ritornando; ma non mi serve, perchè stamane ella non si lascia vedere.
La vedo questa sera, a passeggio, con la mamma e con le Berti. È cortese, ma fredda, e, più che fredda, occupata a discorrere con l’una o con l’altra delle sue giovani amiche. Poi c’è Terenzio Spazzòli, a cui si fanno complimenti della sua poca passione per lo zecchinetto. Egli ci si gonfia un pochino, ed io mi annoio altrettanto.
Ah, c’è uno strappo nelle mie relazioni con Galatea! uno strappo che bisogna rammendare ad ogni costo. Ma tu ci passerai, bambina, laggiù dalla parte del mulino; ci passerai, una mattina o l’altra, e dovrai pagare il pedaggio.
20 settembre 18...
“Roma è nostra„, mi ha detto stamane il signor sindaco, incontrandomi sul ponte, avviato verso la strada del mulino. “Viva Roma in eterno„, ho risposto con pari ardore, al patrio ricordo del primo magistrato di Corsenna. Era di buon augurio la data: Roma è nostra; e Galatea è mia, posso soggiunger qui, senza aspettar complimenti ed evviva. Giorno fortunato davvero, quantunque non senza pericolo; ma il pericolo fa preziosa la vittoria, e più caro il trionfo. O Buci, o cane impagabile, io troverò bene uno scultore che voglia farti il ritratto e gittarmelo in bronzo, affinchè io possa mettere il tuo simulacro a decorazione della piazza grande, ed unica, della nobil Corsenna.
Erano le nove e sette minuti, quando la signorina Wilson mi apparì tra gli alberi della strada campestre. Come mi batteva il cuore, come mi batteva, intravvedendo nel verde la sua marinara bianca dalle risvolte turchine! Ella veniva innanzi a passi lenti, leggendo; Buci la precedeva, da buon battistrada. Al lieve rumore, che io feci, alzandomi dal mio nascondiglio sul ciglione del bosco, il buon cane si fermò di botto sulle quattro zampe, abbaiando. Allora mi lasciai vedere, e saltai sulla strada.
— Oh, Lei! — esclamò la signorina. — Credevo che Buci avesse visto un serpe.
— Povero serpe intirizzito, se mai! E dove se ne va, signorina!
— Quassù, dalla mia buona Nunziata.
— Ah, bene. Ci sono andato ancor io, ieri mattina, a bere un bicchier di latte della sua mucca. E volevo ritornarci anche oggi, ma poi....
— Ma poi, che cosa?
— Ho deciso di aspettarla qui, signorina, perchè volevo.... desideravo parlarle.
— Era dunque in agguato? Male. Ma noi non abbiamo paura, e possiamo dire al malandrino: ci accompagni pure, e beva il suo latte.
— Volentieri lo farò, signorina. Ma sarei tanto felice, se Ella mi concedesse un quarticello d’ora, qui, proprio qui.... —
La signorina Kathleen rimase un po’ sconcertata, guardandomi.
— In questo punto; — ripigliai, incalzando. — Soffra che io Le faccia una rispettosa domanda: Che cosa Le ho fatto io, perchè Ella sia tanto severa con me?
— Io? — diss’ella, sforzandosi di ridere. — Lei vede sempre, signor Morelli, tutto quel che non è. Non Le ho detto or ora di accompagnarmi fino a Santa Giustina?
— Or ora, sì; — risposi. — Ma tutti questi giorni passati.... povero a me! non mi pareva di meritarmi tanta sua crudeltà.
— Crudeltà! che sarebbe? Ella vuol farmi ancora dei discorsi che io non posso sentire?
— No, no; si cheti; potrà sentir tutto, glielo giuro. E si fermi, La supplico.
— Fermiamoci; — diss’ella, crollando il capo come persona rassegnata. — Vede? mi siedo per giunta. E parliamo. Ma, se permette, incomincio io, che sono più tranquilla di Lei. Dica su, come si trova contento di Corsenna? —
La signorina Kitty voleva darmi la baia, con quel vano discorso. Ma io lo girai destramente ai miei fini.
— Moltissimo, — risposi, — perchè finalmente c’è quiete. La campagna dovrebb’esser sempre così.
— Se l’abbian per detto le persone che ci hanno lasciati a goderne, non è vero?
— Sì, se l’abbian per detto; quantunque.... della partenza di una mi duole un pochino.
— Ah! e quale?
— Filippo Ferri.
— Dopo essersi battuto con lui.... veramente....
— Che vuole, signorina? Dopo ciò che mi aveva detto Lei, lassù, alla discesa di Santa Giustina!...
— Ah! ed è per quel discorso che Lei ha messo mano alle armi?
— Sì, per quello; e non ne avevo forse ragione? Le assicuro, ero fuori di me dalla rabbia.
— Che uomini! — esclamò. — Vuol dire che se avesse potuto battersi con me....
— Quel giorno, sì, l’avrei fatto; — risposi.
— Mi piace la sincerità. Ma è sempre così sincero, Lei?
— Sempre.
— Allora mi dica un’altra cosa; — diss’ella, dopo aver balenato un’istante.
— Domandi, domandi pure.
— Ma Lei giuri....
— Di esser sincero? Non ne dubiti nè ora nè mai! Voglio ad ogni costo meritar la sua stima; almeno quella!... — soggiunsi, lasciandole intendere il resto.
Si fece un po’ rossa; ma voleva padroneggiarsi, e ne venne a capo. Del resto, si capiva ch’ella aveva accettato battaglia, e che, avendola accettata, voleva anche attaccarla a suo modo.
— Ottimamente; — diss’ella. — Or dunque, alla prova, e in una cosa da nulla; badi, proprio da nulla, salvo la difficoltà dell’indovinare di chi parlo, perchè io non l’aiuterò punto punto. Dove l’aveva incontrata? Perchè c’era, non è così?
— Sì, c’era; — risposi. — Anzi, c’eravamo, e avevamo presa la fuga. Essa non voleva, rendiamole giustizia; son io che ho voluto ad ogni costo, e posso dirgliene il perchè.
— Lasci che la interroghi io; — replicò la mia giudichessa. — Ella deve rispondere ancora alla mia prima domanda. Dove l’aveva incontrata?
— Là, a cinquanta passi da noi, dove Ella vede appunto quel rigagnolo che attraversa la strada.
— A caso? Non l’aspettava, come aspettava oggi?
— Sull’onor mio, e per il conto che io faccio della sua stima, non l’aspettavo. Scendevo dal bottaccio, mi avviavo da questa parte, quando improvvisamente l’ho veduta. Giuro inoltre che se fossi stato in tempo di cansarmi, l’avrei fatto; e con che gusto, se lo può figurare.
— Io, veramente, non mi posso figurar nulla. E poi? dove sono andati?
— Vuole che rifacciamo la strada, signorina? A passo a passo le racconterò ogni cosa, come l’ho scritta nel mio memoriale, ch’Ella non ha voluto leggere.
— Lasciamo stare il suo memoriale; ne parleremo poi. E andiamo rifacendo la strada, che tanto è la mia per salire a Santa Giustina.
— Non tutta; — risposi. — Bisognerebbe salirci dall’altra parte, se mai, passato l’argine dell’Acqua Ascosa.
— E così faremo; — conchiuse ella, che aveva rotto il ghiaccio oramai, e appariva risolutissima. — Prima di tutto, saltiamo questo rigagnolo, come avrà fatto quell’altra.... Immagino che non avrà voluto immollarsi la punta degli scarpini.
— Non so, non ho badato. Le ho già detto ch’ero molto seccato dell’incontro, e per conseguenza confuso. Ed ecco, proprio qui, imbattendosi in me, mi chiese dove fosse l’Acqua Ascosa. Che cosa avrebbe fatto Lei ne’ miei panni?
— L’avrei accompagnata, ci s’intende.
— Così feci, risalendo con lei questo po’ di sentiero, di fianco alla ruota del mulino; e di là, poi, conducendola sul ponticello che cavalca la caduta dell’acqua.
— Ed ecco, ci sono anch’io; — disse ridendo la signorina Wilson.
— Ma Lei ora mi precede, e soffrirà che io passi avanti per rifarle questo importante episodio. La signora aveva paura, molta paura, ed io dovetti prenderla per mano.
— Così?
— Per l’appunto; — diss’io, fremendo al contatto della mano di Galatea.
— E tremava, dunque?
— Può immaginarselo, colla paura che aveva.
— Strano! — diss’ella. — Ora mi pare che tremi Lei, signor Morelli.
Capisco; forse è pel ricordo.
— Le pare? A me pare, invece, che Lei voglia ridersi un pochino di me.
Ma basta; seguitiamo.
— Qui, poi, siamo all’argine del bottaccio; riprese la signorina; — al — largo, adunque, e non c’è più bisogno di tenersi per mano.
— Infatti, è vero; — diss’io. — Lei intende le cose, signorina, e le rifà come se fosse stata presente. Ma badi, che l’argine non continua sempre così forte e così largo. C’è ora quest’altro ponticello, che cavalca lo sportello della cateratta. A questo punto fu un altro guaio. La signora non si peritava più di venire avanti da sola; nè si poteva andar tutti e due sulla medesima fronte.
— Allora?
— Allora le fu necessario aggrapparsi alla mia spalla.
— Che sciocca! che sciocca! — gridò Galatea. — Ma a questo modo si vuol egli andare in campagna? Non c’è posto per camminare, in due, qui?
Ebbene, si va da soli; e se occorre si passa avanti al compagno; così. senza tante paure. —
E mandava gli atti compagni alle parole. Aveva posata la mano sinistra sulla mia spalla destra, assai leggermele, che appena l’avevo sentita, e di lancio mi era passata di fianco, per correr via davanti a me sul colmo dell’argine, toccando a mala pena il terreno con la punta dei piedi. E volli correre anch’io per raggiungerla; ma proprio in quel punto che alzavo il piede a mia volta, inciampai in qualche cosa che non avevo avvertito, e mi ritrovai di punto in bianco per aria. Ci fossi almeno rimasto; sarebbe stato un miracolo. Ma no; non ci stetti niente più del tempo necessario alla caduta dei gravi, e precipitai nel bottaccio, facendo un tonfo rumoroso nell’acqua, che era alta almeno un uomo e mezzo in quel punto.
Che cos’era? Un’alzata d’ingegno di Buci. Il nostro buon cane era stato modestamente il terzo, finchè Galatea era stata seconda. Ma come ebbe veduto lei farmisi avanti e correr veloce sull’argine, il signor Buci non istette alle mosse, volle esser lui il secondo, e si cacciò avanti senza badare a me, suo legittimo padrone e degno del massimo rispetto, non foss’altro, per le venti lire che avevo buttate via, a riscattarlo dalla schiavitù di Corsenna. Si cacciò avanti, ho detto; il sentiero bastava appena per me, ed egli strisciò contro le gambe mie, proprio al momento che io levavo il passo per correr dietro alla mia fuggitiva. Così avvenne che io perdessi l’equilibrio, e mi ritrovassi in acqua prima di aver visto il pericolo.
Al tonfo che io feci si volse Galatea, e mise un grido di spavento. Ma il grido non poteva far niente al caso mio. Piuttosto poteva giovare il consiglio che ella mi gittò, in mezzo ai latrati di Buci.
— Nuoti verso l’argine; non si lasci trascinare dal filo della corrente. —
Io non sono stato mai un gran nuotatore nel cospetto di Dio. Ma se anche fossi stato meno sbercia di quel che sono, credo che non mi sarei cavato con le mani mie dal pericolo di stamane, perchè non ero più in tempo di seguire il consiglio di Galatea. Nella confusione del momento, e pestando l’acqua alla guisa dei can barboni, mi ero ritrovato per l’appunto nel bel mezzo del bottaccio, non riuscendo a far cammino contro corrente, nè a tirarmi destramente da un lato. Il caso mio poteva dirsi disperato, perchè di laggiù dal mulino nessuno mi poteva sentire, se avessi gridato al soccorso, essendo la gran ruota in movimento, e la cascata facendo un rumore d’inferno.
La signorina Kathleen era corsa indietro a furia, e m’incitava colla voce a piegare quanto potessi verso di lei. Ma ella non istette molto a capire che il filo della corrente era più forte di me, nuotatore mal pratico. E appena ebbe capito, non pose tempo in mezzo; com’era là, vestita di tutto punto, sì buttò in acqua e mi afferrò per una mano, tirandomi forte a sè, fuori della corrente. Descrissi, io credo, un mezzo cerchio nell’acqua, e mi ritrovai vicino allo sportello della cateratta, al cui anello di ferro fui pronto ad aggrapparmi, colla furia disperata del naufrago.
— Sì, bravo, respiri; — -mi disse Galatea, ridiventata ninfa marina per me, quantunque in acqua dolce. — E adesso, se può nuotare adagino....
— Nè adagino, nè altrimenti; — risposi. — Ho le mani intormentite da certi colpi dell’altra settimana, e m’è tornato il dolore, acutissimo.
— Anche il duello ci voleva! E facciamo altrimenti. Veda di attaccarsi ad un lembo della mia veste; così, leggero leggero, per non tirarmi sott’acqua, che s’affogherebbe in due. Nuoterò io; ma Lei si tenga quanto più Le vien fatto rasento all’argine, e spinga coi piedi. Non avrà mica intormentite le gambe. Bravo, così va bene; avanti sempre.
— E voi tacete di lassù, perfido cane; — gridai, raffidato da quella buona andatura, e cercando di volgere il nostro caso in burletta; — siete voi che m’avete fatto incespicare, obbligando Galatea, la più candida delle ninfe, a seguirmi nell’acqua.
— Lasci star Galatea! — rispose la mia nuotatrice. — Quella poverina ha rimorso d’essersi messa a correre come una bambina matta.
— Perchè rimorso? Se tutti i miei mali hanno da essere come questo, io ne invocherò uno al giorno dalla misericordia divina.
— Sì, bravo, si preghi anche un reuma; — diss’ella ridendo; — e lo preghi a me pure. Faccia meglio, per ora; si rizzi in piedi, perchè qui si tocca, e via presto presto, verso la stretta del bottaccio. Ma si tenga ancora all’argine, che oramai, come vede, si può afferrarne già l’orlo. Qua, qua, è fuori di pericolo, sia lodato il Signore! —
Siamo usciti di là tutti inzuppati, e battendo un po’ i denti. All’aperto non si poteva andare, col rischio di abbatterci in qualcheduno che vedesse il nostro stato compassionevole. Si rideva come due ragazzacci, che venissero via da qualche impresa un po’ matta, e si andava frattanto lungo la siepe delle carpinelle, avviati al rivolo dell’Acqua Ascosa; dove per altro, così bagnati fino all’osso, non avremmo potuto rimanere.
— Che peccato! — le dissi. — Si doveva star qui un’ora almeno, a finire la storia incominciata.
— Un’ora! — esclamò. — Doveva durar tanto, quella brutta storia?
— No, quella poteva esser finita in due minuti, tanto era vuota; ma ce ne sarebbero rimasti cinquantotto per ragionar di cose più liete.
— Ah, volevo ben dire! Ma ciò che non mi può raccontare quest’oggi, mi potrà raccontare un altro giorno.
— Domani!
— Anche domani. Veda di rammentarsela bene.
— Oh, non dubiti; l’ho scritta tutta nel mio memoriale, ed Ella potrà confrontare....
— Capisco; Ella ha una gran voglia ch’io legga il suo memoriale.
— Sicuramente; c’è tutta la mia giustificazione.
— E niente la sua glorificazione? Gli autori di memoriali son tutti così.
— Non io, signorina. Vedrà, se si degna di leggerlo, che spesso mi tratto.... secondo i meriti miei. —
Così ragionando, si era giunti a quello che si potrebbe chiamare il Passo della Contessa.
— Di qui, signorina; — diss’io; — bisogna saltare il rivolo, per salire da quell’orto ai casali di Santa Giustina.
— Ho ben capito; — mi rispose Galatea. — Di qui era saltato anche il cane. Buci, — soggiunse ella, — voi conoscete la strada, animo, su. —
Buci saltò l’acqua, ed ella dietro a Buci. Volevo saltare ancor io; ma ella mi trattenne col gesto.
— Alto là! — disse poi. — Vado dalla buona Nunziata a rasciugare i miei abiti. Non potrei mica ritornare in paese così. E lei, signor Morelli, deve fare altrettanto a casa sua, che per andarci non ha da passare per l’abitato. Intanto, con quel bagno che ha preso, si è levato di dosso un certo odore di pelle di Spagna, che non era niente piacevole. E noti che io lo gradivo, in altri tempi; ma da parecchie settimane, non so come, mi era venuto a noia.
— Non sia cattiva, La supplico. Quando avrà letto....
— Sì, sì; ma vada a casa, poverino, che è tutto immollato; vada a casa, e si cambi alla svelta.
— Andrò; ma ad un patto.
— Dei patti a me?
— Sì, a Lei, e favorisca di ripetere le mie parole: Che mi lasci....
— Che La lasci....
— Parlare quest’oggi....
— Parlare quest’oggi....
— A.... nostra madre. —
Galatea rimase un istante perplessa: ma tosto, vedendo il brutto senso che il suo silenzio faceva su di me, gridò intenerita:
— Sì, sì, a nostra madre. Non è dunque più lecito di fare una piccola pausa, per meditare.... per gustare.... un bel modo di direi —
E mi stese la mano, che io afferrai prontamente, e lungamente e divotamente baciai. Oh, sire Iddio, questa è felicità grande e piena, e senza mistura! Buci, gran cane, io vi farò fare certamente un simulacro di bronzo. Corsi a precipizio verso il viale dei pioppi, valicai il fiume di sotto al pancone, e cinque minuti dopo ero al Giardinetto, per mutar abiti. Un’ora prima che Galatea ritornasse a casa sua, c’ero già io, e facevo un breve ma solenne discorso alla signora Wilson, che già abbastanza mi conosceva e mi voleva bene, contro i meriti miei, da non sapermi dire di no, e da non pigliar tempo a rispondermi.
— Come! — esclamò la signorina stupita, vedendomi. — Lei qui?
— Io, per l’appunto; — risposi. — E se non temessi di dispiacerle con la mia tracotanza, Le riferirei quel che ho finito di dire a sua madre. E se non volessi lasciare a sua madre l’incarico di persuaderla, Le soggiungerei che la buona signora per conto suo risponderebbe volentieri di sì ad una mia calda e rispettosa domanda.
— Eh! — mormorò la signora Wilson. — Mi pare che il nostro signor Rinaldo non mi lasci più niente da fare. Che ne pensi tu, Kitty, o piuttosto Kathleen, come bisognerà dire oramai, per far piacere a lui?
— Mamma! — gridò Galatea.
E non potè proferire una parola di più. Ma intanto si gittava nelle braccia della madre, scoccandole sulle guance due baci, che mi parvero fratelli germani di quelli ch’io avevo impresso tre ore prima sulla cara sua mano.