Firenze vecchia/IV. Maria Luisa, Napoleone I ed Elisa Baciocchi
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IV
Maria Luisa, Napoleone I ed Elisa Baciocchi
Primi atti della reggenza - Visita ai Santuari - II pontefice Pio VII - Un sonetto - Napoleone imperatore - Feste e luminarie - La principessa Carlotta di Parma - Editto della reggente - Le sorelle Paglicci - La caduta del regno d’Etruria - Lo Stato torna in mano di Napoleone - Nuovi ordinamenti amministrativi - Diecimila reclute - Buoni proponimenti - Elisa Baciocchi principessa di Piombino - La Semiramide di Lucca - Elisa Baciocchi, granduchessa di Toscana - La disfatta di Mosca - Una canzone francese - I napoletani a Firenze - Il prossimo ritorno di Ferdinando III.
La regina reggente con atto di politica femminile credè di fare un grande effetto facendo prendere subito, dopo trascorsi quaranta giorni dalla morte del padre, l’abito di cavaliere di Santo Stefano al nuovo re, Carlo Lodovico, che non aveva ancora quattro anni, e di dare in tale occasione un pranzo, sotto le Logge dell’Orgagna, a cento bambini e a cento bambine del basso ceto, permettendo loro di portarsi a casa gli avanzi, il tovagliolo, il bicchiere e la posata.
Il minuscolo re, in collo alla madre, assistè a quel pranzo, stando sotto un baldacchino eretto sul terrazzino di Palazzo Vecchio. Le musiche dei reggimenti fucilieri «Reale Toscano» e «Reale Infante» e la fanfara dei dragoni, tutti schierati sulla piazza, suonavano alternativamente, nel tempo stesso che dalle due fortezze si sparava il cannone. Povera polvere!Il palio dei barberi, veduto dal terrazzino del Prato La regina fu molto biasimata per avere sospeso il lutto, onde sfoggiare vesti ricchissime in quelle feste; ma essa ne fece pronta ammenda, riprendendo il lutto appena terminate: e per dar sempre più nel genio ai parrucconi che l’attorniavano, e fare impressione sul clero e su tutti gli abatucoli mondani e i farisei che bazzicavano a corte, si recò, a guisa di volontaria espiazione, a visitare il monastero di Vallombrosa, l’eremo di Camaldoli e il sacro monte della Verna, conducendo seco il conte Salvatico, il bali Antinori, la duchessa Strozzi e la contessa Arrighetti.
Quest’atto della sovrana reggente intenerì i cuori di tutti i bigotti, che la sfruttavano con la scusa della religione e con l’orpello della virtù. Essi portavano ai sette cieli la mortificazione che Maria Luisa si era imposta recandosi in quei monasteri di frati, e di volere essa degnarsi di prender parte a tutte le loro funzioni e intervenire a coro, anche nelle ore di notte, sedendo accanto al padre provinciale!... E spinse la sua umiltà, poveretta, fino a volere abitare, tanto a Vallombrosa, che a Camaldoli e alla Verna, nello stesso quartiere del padre abate. Tant’è vero, che alla Verna c’è sempre una celletta e un’altra stanza dette «il quartiere della regina.» Desiderava proprio di levarsi la voglia della vita fratesca!... Perfino alla sua mensa volle che si assidessero il guardiano, il provinciale e il padre abate. E perchè questa mortificazione del corpo risguardasse lei sola, ordinò che le persone del suo seguito alloggiassero nella foresteria. Voleva esser sola a guadagnarsi il paradiso, nel convento dei frati!
Per compire il mazzo poi, andò ad Arezzo a visitare il Santuario della Madonna del Conforto, nel cui nome gli aretini insorgendo avevan commesse tante scelleratezze; ed andò anche a Cortona per venerare il corpo di Santa Margherita. Insomma, volle, con la sua presenza in quelle due città, rendersi solidale della reazione del 1799. Ma il giusto Dio, venne anche per lei.
Tornata a Firenze, pretese di occuparsi da sé stessa delle finanze, da buona massaia, con la scusa di volerle riordinare; ma in sostanza per vedere di prelevare sulle economie 250 mila lire l’anno. Essa dovè contentarsi di risparmiare per sé trecento lire il giorno, attese le strettezze incredibili in cui si trovava lo Stato, poiché anche l’eredità che il defunto re aveva avuta poco tempo prima di morire, per la morte del padre, era stata più di scapito che di guadagno, per i gravi oneri che portò seco.
Una cosa che non ci voleva appunto per la povertà dello Stato, fu il passaggio da Firenze del pontefice Pio VII, che si recava a Parigi per incoronare imperatore Napoleone.
La reggente, al solito, voleva fare le cose alla grande; ma i ministri ebbero a moderare la sua manìa fastosa, facendole replicatamente conoscere che e’ eran più debiti che crediti: o, come diceva il popolo sarcasticamente, eran «più i birri che i preti!»
Pio VII arrivò il 4 novembre 1804 a Cettino, luogo di confine, e fu incontrato dal senatore Salvetti, direttore generale delle poste, e da un distaccamento di dragoni, che dalla reggente era stato colà inviato per scortare fino a Firenze il Pontefice, che fu ossequiato a Radicofani dal principe Tommaso Corsini, maggiordomo del re. Con esso eran pure il nunzio pontificio a Firenze e i vescovi delle varie città, per le quali sarebbe passato Pio VII, La regina andò ad aspettarlo, con gran seguito di dame e di gentiluomini. alla Villa Orlandìni a Poggio Torselli presso San C’asciano, dove spesso usava recarsi Maria Luisa.
Una di queste sue gite a San Casciano, avvenuta il 1 2 agosto 1804, ispirò il dottor Francesco Guarducci «Pastore arcade e Accademico etrusco» Il pontefice Pio VII a Poggio Torselli. a dettare questo lezioso, smaccato e piuttosto bugiardo sonetto, che fa uggia, non fosse altro per lo spreco delle lettere maiuscole, per dar più solennità al verso!
Donna Real, che al Fiume Etrusco in Riva
I giorni fai tornar del Secol d’oro,
Dell’Eroiche virtù sommo lavoro,
Del benefico Nume imagin viva;
Al Tuo venir la Patria mia s’avviva,
E t’offre quanto può; gemme, o tesoro
Non già, non Archi, o trionfale Alloro,
Che a tanto grandeggiar mai non arriva.
Ma in trionfo Ti dà l’umil suo cuore,
Su cui Tu sai Regnar: dagli occhi suoi
Scorgi, che per Te sola arde d’Amore.
Lascia al furor de’ marziali Eroi
De’ lauri sanguinosi il frale onore;
Tu più Nobil Trofeo vantar non puoi!
Per dire che jNIaria Luisa faceva tornare il secolo dell’oro, e che la patria del Pastor Guarducci, cioè San Casciano, le offriva l’umile suo cuore, mentre negli occhi ardeva l’amore per lei, ci vuole un coraggio da leoni!
jMa i pastori arcadi, dicevan quello e peggio. Non c’era da badarci.
Il Papa quando arrivò a Poggio Torselli, si soffermò al cancello che metteva al viale della Villa Orlandini, dove la regina e tutta la corte, inginocchiatisi subito per non perder tempo, gli domandarono la benedizione. Quindi continuò per Firenze, seguito da diciotto carrozze piene di prelati, di segretari, di minutanti, di camerieri segreti e palesi, di cuochi e di servitori.
Sua Santità dopo il pomeriggio giunse a Firenze e scese alla chiesa di .Santo Spirito, ricevuto sulla porta da monsignor Alartini, mentre le campane delle chiese scampanavano senza pietà e le artiglierie delle fortezze sparavano senza misericordia.
Non e’ è bisogno di dire che fu cantato il Te Deum La regina intanto s’affrettò a tornare a’ Pitti per ricevere l’augustissimo ospite, il quale, appena arrivato e preso possesso del suo quartiere al primo piano, ricompensò Maria Luisa di tante premure e di tanto onore, ammettendola a baciargli il piede! Anche la corte fu ammessa a questo invidiabile onore.
Per contentare il popolo, che stipato giù nella piazza s’ammazzava per arrivar sotto il terrazzino implorando la benedizione, il pontefice, dopo poco, in piviale di teletta d’oro e con la mitria in capo, comparve sotto il magnifico baldacchino eretto sul terrazzo, e di lì diede la invocata benedizione al popolo, che si prostrò a un tratto tutto in ginocchioni come fosse rimasto fulminato.
Il giorno dopo, nella Sala delle Nicchie, fu da Pio VII amministrata la cresima al piccolo re Carlo Lodovico.
La mattina del dì 7, il papa lasciò Firenze passando da porta al Prato, diretto a Pistoia.
Egli fu ricevuto a Parigi con ogni sorta di distinzioni e d’onori; ed il 2 dicembre 1804 nella chiesa di Nòtre-Dame consacrava col crisma Napoleone Imperatore, rivolgendo a Dio queste enfatiche parole:
«Dio Onnipotente, che avete stabilito Hazael per governare la Siria, e Jehu re d’Israele, manifestando loro le vostre volontà per l’organo del profeta Elia; che avete ugualmente sparsa l’unzione santa dei re sulla testa di Sanile e di Davidde, pel ministero del profeta Samuele, spandete per mezzo delle mie mani, i tesori delle vostre grazie e delle vostre benedizioni sopra il vostro servo Napoleone, che malgrado siamo noi personalmente indegni, oggi consacriamo Imperatore in vostro nome.»
Pio VII ripassò da Firenze la sera del 6 maggio 1805, entrando dalla porta a San Gallo e fu ricevuto con luminarie, archi di trionfo e cannonate come se invece di uno Stato vicino a fallire, fosse venuto in California. La reggente, al solito, con grande sfarzo, andò a incontrarlo a Cafaggiolo. Di lì il papa proseguì per Firenze; e mentre egli scendeva a Santa Maria Novella dove fu cantato l’eterno Te Deum, Maria Luisa andò ad aspettarlo a’ Pitti per riceverlo da Sovrana !
La regina reggente cominciava però ad accorgersi che i Ministri non eran più portati per la sua casa; e che cercavano di orientarsi di nuovo verso la Francia, ed alcuni anche parteggiavano per il ritorno di Ferdinando III.
Cosicché credè di operare con furberia accostandosi sotto sotto alla Spagna; e per ingrazionirsi con quella corte così stomachevolmente bigotta e falsa, colse l’occasione dell’arrivo a Firenze della principessa Carlotta di Parma, che s’era vestita monaca delle Orsoline, e andava con altre due monache a Roma per fondarvi un nuovo monastero, per farle smaccate dimostrazioni: la prima fu quella d’andar fino a Cafaggiolo a riscontrarla, con un drappello di guardie a cavallo e con tale sfarzo, che contrastava con la umiltà dell’abito della principessa; la seconda d’andar con lei, vestita da monaca, a girar per Firenze a visitare i monasteri; e quindi assistere, insieme con essa, dal terrazzino di Palazzo Vecchio, sotto un ricco padiglione, al passaggio della processione del Corpus Domini. E come se questo fosse poco, dando ascolto ai vescovi che da tanto tempo si lamentavano contro «il vestire sfacciato delle donne» che osavano andare in chiesa coi cappelli colle penne, ebbe la disinvoltura di pubblicare questo curioso editto:
Le giuste doglianze de’ nostri zelanti vescovi pervenuteci al trono contro l’immodestia di vestire, specialmente del sesso femminino, resta ormai scandalosa nelle chiese medesime, ad onta della loro vigilanza, predicazione e catechismo, ed hanno richiamato la nostra sovrana previdenza a coadiuvarli per impedire e togliere, per quanto da noi dipende, un sì fatto intollerabile abuso.
Perciò col presente editto avvertiamo i nostri amatissimi sudditi ad usare d’ora in avanti nella loro foggia di vestire la dovuta modestia cristiana, specialmente nelle chiese, ed a tralasciare in quelle, X indecente uso dei cappelli e di qualunque altro abbigli a mento seducente, con sostituire invece, per il bene della società, la vera semplicità e la modestia, non escludendo da tale avvertimento sempre più le persone del teatro, tanto per i balli che per la recita.
Attesa la fiducia dei nostri amatissimi sudditi, abbiamo creduto espediente di restringere la nostra suprema autorità a questo semplice avvertimento, convinti che per loro equivarrà ad un comando, senza obbligarmi ad addivenire ad ulteriori misure.
Ma, povera donna, fece come quello che lavava il capo all’asino: perse ranno e sapone. Nel tempo che essa si dava da fare per mantenersi sul trono, Napoleone e il re di .Spagna, firmarono a Parigi un trattato, in virtù del quale il regno d’Etruria tornava pari pari alla Francia, verso un compenso alla Spagna nel Portogallo, che ancora Napoleone non aveva conquistato. Quello si chiamava trattar gli affari!
I.’ ultima consolazione che ebbe avanti il crollo del suo regno, sul quale ormai non si faceva pìù illusioni, fu quella di vedere finalmente una delle sorelle Paglicci, dopo tanto inutile brigare, e tanto affannarsi con altri personaggi della Corte, sposare il conte Ferdinando Guicciardini, colonnello dei cacciatori toscani.
Il matrimonio si celebrò nella cappella della villa di Castello, il 20 ottobre 1807.
Queste Paglicci, pettegole e intriganti, che erano le intime della regina, la quale, con grande scandalo delle dame di Corte, portava alle Cascine nella sua stessa carrozza, non furono ultima causa dell’antipatia che si acquistò Maria Luisa. Essa stava su tutti i chiacchiericci di queste sorelle, le quali non avevano altra mira che di concluder qualche bel matrimonio fra i gentiluomini che frequentavano la reggia, diventando nemiche acerrime, con quelli che facevan loro la corte e poi le lasciavano in asso, mettendo scandali, e seminando zizzania. Per conseguenza, quando finalmente il Guicciardini sposò la Margherita Pagiicci, alla regina più che a lei, parve di toccare il cielo con un dito. E spinta dalla sua cieca affezione, avrebbe voluto regalare agli sposi la villa di Castel Pucci, se i Ministri non l’avessero dissuasa, facendole conoscere in ultimo, siccome lei non voleva intendere, che il regno d’Etruria c’era per oggi e non per domani.
E più a proposito non poteva capitare la visita del cavalier D’Aubusson La Feuillade, plenipotenziario francese in Etruria, il quale, il 23 novembre 1807 si presentò a lei, che si trovava alla villa di Castello, per dirle che poteva lasciare la Toscana ed andarsene, poiché questa non le apparteneva più, per il trattato stipulato in quei giorni a Fontainebleau.
Maria Luisa ci pensò un pezzetto prima di partire, ma non ci fu rimedio. Quindi il dì 11 dicembre diresse un proclama al buon popolo toscano - poiché non ce n’è mai stato un altro che abbia avuto tante volte di buono da tutti come quello toscano — col quale proclama essa lo proscioglieva dal prestato giuramento di fedeltà, sebbene nessuno vi si credesse più obbligato. La reggente però fu l’unica sovrana che molto scortesemente fosse fischiata da alcuni giovinastri, quando fu fuor della porta a San Gallo; il popolo, benché tanto buono, non ne poteva più di tanti sconvolgimenti, e di questo fare e disfare di stranieri, che pareva si dessero la muta, uno mandando via l’altro.
E poi da considerare, che nonostante le mezze difese dei partigiani d’un governo retrogrado e fazioso, Maria Luisa, donna frivola e vana, dilapidò l’erario pubblico in un lusso e in un fasto esagerato.
Dopo la morte del re le male spese non ebbero più freno. Non considerando gli esorbitanti aggravi sopportati dalla misera Toscana in nove anni di occupazioni straniere, i quali assorbirono centosette milioni di lire - cosa quasi incredibile se non fosse vera — la corte borbonica «montata con lusso parassito» accrebbe a dismisura il dissesto finanziario. «A tutti i momenti, i favoriti e le favorite cortigiane cospiravano a vuotare i regi scrigni.» Ed il marchese Corsi, nobile ma incapace ad amministrare la finanza, metteva ogni cura a far sì che la Corte «non penuriasse di danaro erogabile in scioperaggine,» aggravando sempre più i disgraziatissimi sudditi, che eran ridotti all’estremo della pazienza. Ci vuol altro per governare i popoli, che andare a dormire nei conventi dei frati, desinare coi padri abati, andare a gironzar con le monache, e proibire alle donne i cappelli con le penne!
Il successivo 1 2 dicembre, i toscani, liberati da un governo di donnicciuole, di bigotti e di pettegoli, come era stato quello della reggente, salutarono quasi con sollievo il generale Reille che venne in Firenze a nome di Napoleone, a prender possesso dello Stato. E il Senato e i Magistrati, il giorno stesso giurarono daccapo fedeltà a lui, finché non avrebbero dovuto fare altrettanto a un altro che fosse venuto in sua vece. In otto anni, era stato tutto un leg^ger proclami, giurar fedeltà e cantar il Te Deum in Duomo per il regnante che via via i padroni ci davano, e pagar quattrini stando sempre con r animo rimescolato, che non venisse di peggio.
E il peggio venne, perchè ancora non s’era a nulla. I toscani inviarono a Napoleone a Milano una deputazione di ragguardevoli cittadini per esortarlo a dare un assetto definitivo allo Stato, e nello stesso tempo a rispettare questa volta i musei e le gallerie. Si contentasse di guardare e non toccare. Fu tempo e fiato sprecato. Napoleone promise tutto ciò che vollero quegli egregi cittadini; e per riscaldarli anche più, si disse fortunato «che i padri suoi dall’inclita Firenze traessero origine.» A queste parole, i deputati toscani gli avrebbero buttate le braccia al collo e lo avrebbero baciato. Ma Napoleone non contento d’averli tanto confusi, fece loro capire che la sua idea costante era di fare un gran regno italico.
Quella brava gente rimase così entusiasmata, così commossa e sbalordita da tali dichiarazioni, che non trovava più nemmen la porta per andar via. Prima però che i deputati tornassero a Firenze, la Toscana pulitamente e bene era stata annessa alla Francia. Con ordine del i8 marzo 1808, Napoleone ne dichiarò cessato il Consiglio di Stato e venne divisa in tre prefetture con funzionari venuti da Parigi. Questo per far vedere che Napoleone manteneva la promessa di costituire il gran regno italico. Di più, nello stesso anno fece fare la prima coscrizione levando di Toscana diecimila reclute, che servirono in gran parte a sostituire i vuoti nell’esercito francese e a formare il 13° reggimento di fanteria e il 28" di cavalleria. La desolazione delle famiglie, la costernazione di tutti fu grandissima. Non c’era da rifiatare; Quei ragazzi, a diciotto anni, furon presi, vestiti, o meglio, insaccati nelle ampie uniformi, e in quei calzoncioni dove ci si perdevano, furono mandati a raggiunger qua e là l’esercito francese. La sola soddisfazione, e non fu lieve, che ebbe la Toscana, fu quella di sapere, per bocca degli stessi scrittori francesi, il che è tutto dire, che le reclute toscane, convertite in soldati, sui campi di battaglia si portarono da valorosi sempre, destando lìammirazione delle vecchie truppe agguerrite, al fianco delle quali marciarono in terre straniere, e per interessi non propri, vi lasciarono, pur troppo, anche la vita.
Napoleone medesimo decorò di propria mano sul campo molti toscani in ricompensa del loro valore, sul quale fece sempre grande assegnamento. E perchè la Toscana diventasse francese in tutte le regole, Napoleone aveva firmato a Parigi fin dal ig febbraio 1808 un decreto, che imponeva in Toscana l’applicazione del Codice Napoleone, mandando poi a Firenze una Giunta che doveva governare lo Stato per conto della Francia. Quella Giunta, che prese possesso il 26 giugno dello stesso anno, era preseduta dal generale Menon, uomo inetto, «avido e licenzioso.»
Un altro bel servizio di Napoleone che ci voleva tanto bene!
Uno sfrontato editto di quella malaugurata Giunta, diceva nientemeno ai toscani queste parole: «L’Imperatore e re vi chiama all’onore di far parte della gran famiglia, e vi associa ai gloriosi destini dell’Impero che il suo genio ha fondato. Napoleone il Grande vi adotta per suoi figliuoli, ed i francesi vi salutano col nome di fratelli. Questa adozione vi assicura gli effetti della benefica sollecitudine del nostro augusto Imperatore. Protettore della religione e dei costumi egli vi vuole felici; vi dà un Codice che è il frutto della saviezza e dell’esperienza de’ secoli, i quali prende sotto la sua tutela le proprietà e le famigiie (sic); egli vuol veder sempre florida la vostra agricoltura e la vostra industria; egli vuol rendere alla Toscana, alla patria di Dante, di Galileo e di Michelangiolo, all’Atene d’Italia, l’antico splendore che le procurarono nei suoi giorni più belli le lettere, le scienze e le arti, delle quali fu essa la cuna nel seno dell’ Europa moderna. Giunti tra voi per ordine del più grande degli eroi e dei sovrani, il nostro primo scopo si è quello di farvelo amare; basta a tal fine il solo farvelo conoscere, ed eseguir fedelmente le istruzioni che abbiano ricevute. Ma già i vostri sentimenti hanno prevenuto i nostri desiderii; voi venerate, ammirate ed amate con noi il suo nome augusto. Toscano! voi siete un popolo buono, virtuoso e fedele; l’Imperatore vi conosce e vi stima; abbandonatevi alla fiducia; tacciano omai le persone esagerate di ogni partito, e non nutrano alcuna speranza. Gli uomini dabbene, saggi ed imparziali si riuniscano qui, come nel resto della Francia; non abbiano che un solo spirito, ed un solo cuore; siano essi, ed insegnino a voi, ad essere degni figli di Napoleone!»
E così, anche questa volta i toscani la pensavano secondo i desiderii del grand’uomo. Dapprima, nel 1799, eran secondo lui repubblicani; e perciò mandò i francesi ad occupar la Toscana; quando poi cede questa alla Spagna, allora era ammirato dal loro attaccamento alla monarchia; e vi mandò il re d’Etruria: fatto poi imperatore mutò registro; e capi, a detta sua, che i toscani che erano «un popolo buono, virtuoso e fedele» volevano tornare alla Francia, per essere «adottati come figliuoli» dal «più grande degli eroi e dei sovrani.»
Queste continue cabale, finirono per stancare addirittura i toscani, i quali, per uscirne, non vedendo altro mezzo, domandarono a colui, che i preti francesi avevano portato alle stelle dicendolo l’inviato da Dio, che accordasse loro una corte residente in Firenze tanto per vedere che cosa avrebbero ottenuto. E siccome le sorprese non eran finite, così un decreto dell’Imperatore li contentò. Era predestinata a divenir sovrana la sua sorella Elisa, nata nel 1776, e fatta sposa nel 1797 al tenente di fanteria Felice Baciocchi, nobile còrso, il quale con quel matrimonio diventò colonnello di stianto, e fu felice di nome e di fatti.
Ma benché semplice tenente, il Baciocchi era noto per un giuocatore valoroso, forse più di quello che non lo fosse come soldato. Una volta diventato cognato di Napoleone, la strada agli onori era più che aperta e larghissima. Infatti, come militare, arrivò sollecitamente al grado di colonnello; e come marito, giunse fino a diventare il principe consorte di sua moglie, essendo essa già stata nominata dal fratello, principessa di Piombino. Dopo due mesi, siccome ogni prun fa siepe, fu aggiunto al piccolo principato anche la repubblichetta di Lucca, cosa molto gradita alla signora Baciocchi, la quale aveva però mire più alte. Essa, anche senza l’aiuto del marito che non contava nulla, e che non era buono ad altro che a far pompa della sua uniforme, o piuttosto livrea, si mostrò arditamente degna dei suoi nuovi destini, e faceva la regnante sul serio, come se davvero fosse nata, per modo di dire, sui gradini d’un trono. Presiedeva i consigii dei ministri, favoriva il commercio e spendeva assai nei pubblici lavori. Per ciò i suoi devotissimi sudditi l’appellarono la Semiramide di Lucca. Quanto più la signora Baciocchi si affermava come sovrana, sia pure di terza classe, tanto più il principe consorte spariva, e faceva la figura di quei mariti delle levatrici, che ricevono l’ambasciate per le chiamate della moglie che li mantiene.
Il pensiero fisso della signora Elisa, era il trono di Toscana: paion cose da nulla, ma era proprio così. Essa non cessava d’informare delle spese pazze, dello sperpero delle finanze toscane che faceva la frivola regina reggente Maria Luisa l’«augustissimo» fratello, che s’era già incoronato re d’Italia, senza domandare il permesso a nessuno.
Queste segrete informazioni, la moglie del principe marito le mandava non per altro che perchè quanto più sciupava la regina d’Etruria, meno restava per lei, giacché oramai era più che sicura, che la Toscana poteva star poco a diventar lo Stato della signora Baciocchi, la quale andava prendendo pratica del trono esperimentando la sua abilità su quello minuscolo di Lucca.
E quando in forza di un imperiale decreto del 3 marzo 1809 la signora Elisa fu nominata Granduchessa di Toscana, non stava più nella pelle. Gongolante di gioia, mandò subito dalla reggia lucchese un pomposo proclama al buon popolo cioè il toscano, che ora diventava suo - dicendo che l’altissimo ed augustissimo di lei fratello «col suo vasto genio, le aveva affidata la dolce cura» di accogliere i voti della Toscana.
Come se qualcuno avesse cercato proprio lei! Ma oramai la Toscana era di tutti e di nessuno; se la passavano da uno a un altro, come se i cittadini non ci fossero stati nemmeno.
«Noi saremo» diceva il proclama con frase un po’ arrischiata per una Granduchessa nuova «accessibile agli uomini di tutte le classi:» e prometteva che avrebbe soprattutto protetti e favoriti i ministri del culto. Non c’è da dire se i preti ne gongolassero di gioia. Tutti i vescovi ed arcivescovi mandaron subito pastorali ai loro diocesani, perchè pregassero Dio affinchè si degnasse di accogliere i ringraziamenti dei sudditi della signora Baciocchi, per avergliela data per Granduchessa. E di nuovo si cantò il Te Deum in tutte le cattedrali anche per questa nuova sovrana: e Dio, che da quei benedetti sudditi si vedeva ringraziar sempre ogni volta che cambiavan padrone, lasciava fare. Contenti loro, contenti tutti.
Il male era che dopo il Te Deum di ringraziamento, cominciavano i malcontenti, se non degli uni, certo degli altri, con vicendevole scambio.
Sotto la signora Baciocchi, la Toscana non fu altro che una grande Prefettura francese. Ed il buon popolo toscano cominciava ad averne piene le tasche, di tutto quell’andare e venire di sovrani che gli piovevan dal cielo quando meno se r aspettava, e che non aveva mai visti né conosciuti. A crescer poi questo malcontento, contribuì assai un’altra leva anticipata d’un anno, per mandare nuove reclute in Russia a farsi ammazzare per il bel viso dell’«altissimo e augustissimo» fratello della signora Baciocchi truccata da Granduchessa: il quale, col suo vasto genio dissanguava la Toscana, ne portava via i tesori d’arte, e sostituiva i vuoti del suo esercito con la miglior gioventù, costretta a servire ed a morire per l’oppressore della patria.
Ma il rovescio di Mosca cambiò aspetto alle cose, e Napoleone fu costretto il dì 1 1 aprile 1814 ad abdicare. Come accade ai vinti, tutti voltaron le spalle al grande capitano, che ebbe il solo torto di non comprendere che il genio della guerra, di cui egli era veramente dotato, non può accoppiarsi alla malafede come uomo di Stato, né alla tirannia come monarca. Il più spregevole fra i beneficati da quest’uomo che lasciò nella storia una traccia così luminosa, fu Gioacchino Murat, suo cognato, avendo sposata la sorella di lui Maria Carolina, e che egli aveva creato re di Napoli, poiché a lasciarlo fare avrebbe dato la corona anche al gatto di casa.
Murat, dopo la ritirata di Mosca, si accostò all’Austria con la quale fece alleanza col trattato del dì 1 1 gennaio 1 8 1 4, ed in forza di esso gli austriaci, ripassando s’intende da Firenze, andarono a Napoli, ad occupare il posto che lasciavano i francesi.
Un proclama agli italiani, diretto a nome del suo imperatore, dall’austriaco generale Nugent, diceva che gli eserciti di S. M. venivano a liberarli dal ferreo giogo sotto il quale avevan dovuto gemere per tanti anni. Concludeva promettendo questa po’ po’ di fandonia: «Avrete tutti a divenire una nazione indipendente!» Erano le stesse parole di Napoleone ai deputati toscani, in bocca d’un generale austriaco, e che, come le prime, non ebbero altro significato che d’una ingiuriosa menzogna.
In questo mentre giunsero da Parigi anche a Firenze molte copie di una canzone contro Napoleone, evidentemente scritte da legittimisti francesi rifugiati in Russia. Ora che egli era caduto, veniva calpestato da quel popolo, che aveva reso grande e temuto come non fu mai.
Quella canzone, oggi rarissima, che si cantava impunemente per le vie, era intitolata: «La bravoure de Nicolas - sur l’air To-to carabo, etc, -» era stampata a Parigi nella Imprimerie De Dubié, rue Saint Ferréol, e merita di essere roportata nella sua integrità:
S' exquivant de Russie, |
Chevaux, soldats, caissons |
le renom
Du grand Napoléon
C'est le héros {bis), des petites
maisons.
Courant à perdre haleine,
Il croit prendre à Moscou,
Le Pérou
O le grand capitaine !
Il n'y voit, ventrebleu,
Que du feu.
Gai, gai, mes amis, etc.
Il laisse son armée
Sans pain, sans General,
C'est égal ;
Elle est accoutumée
A vivre de cheval,
Pour regal.
Gai, gai, mes amis, etc.
Son armée est en route,
Mais bientòl l'aquilon
Furibond
Soufle et met en déroute
Gai, gai, mes amis, etc. Dans cet état funèste Brave comme un Cesar De hazard; Sans demander son reste Napoléon le grand F t le camp. Gai, gai, mes amis, etc. O campagne admirable, Les destins sont remplis, Accomplis, Son armée est au diable. Que n'en est-il autant Du brigand. Gai, gai, mes amis, chantons le renom Du grand Xapoléon C'est le héros {bis), des petites maisons.
Il 31 gennaio 1814, guidate dal maresciallo di campo Minutolo, entrarono in Firenze le truppe napoletane. Non ci manca van che quelle!
La mattina dopo, anche la signora Baciocchi, non più Granduchessa, ebbe a fare come quelli che erano stati a Palazzo Pitti prima di lei: cioè far le valigie e andarsene alla svelta, come c’era venuta.
I francesi, che all’arrivo dei murattiani furono tenuti come prigionieri nelle fortezze, poiché quel che si fa vien reso, appena liberati dopo pochi giorni se ne partirono, e buon viaggio.
Cominciarono intanto a far capolino le coccarde toscane, e pur troppo anche quelle austriache gialle e nere, poiché i toscani, fra i due mali, furon costretti a scegliere il minore, e desiderare il ritorno di Ferdinando III: né potevano fare diversamente. Stremati di forze, esausti di denaro, con la migliore e più valida gioventù o morta in Russia, o sempre sotto le armi nell’esercito francese di là dalle Alpi, non potevano profittare di quel momento per governarsi liberamente, tanto più che mancavano gli uomini di mente illuminata, e che avessero in petto anima sinceramente italiana.
Il Murat, che aveva usata ogni maniera di lusinghe per cattivarsi l’animo dei toscani, condonò perfino le somme da pagarsi per le guerre sostenute dai francesi, come se fossero state in prò nostro. Ma non valse; si cominciò con qualche subbuglio e qualche bastonatura, complicata da dei lattoni dati alle truppe napoletane, ed a gridare con sempre meno paura: «Viva Ferdinando III.»
Per conseguenza, siccome Murat per timore di perdere il trono di Napoli, che stava ritto sui puntelli, non poteva sdegnarsi con l’Austria, mandò a Parma il duca Di Gallo per sottoscrivere col conte De Mair, rappresentante dell’Imperatore d’Austria, e col principe Rospigliosi, che rappresentava Ferdinando III, il trattato dei tre plenipotenziari firmato il 20 aprile 18 14, mediante il quale il granducato di Toscana tornava in possesso di Ferdinando.
Così l’Austria, tornò finalmente ad esserne la padrona.
E non si poteva dir nemmeno di male in peggio, venite adoremus!