Firenze sotterranea/Capitolo VIII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo VII | Capitolo IX | ► |
VIII
Una sera il famoso ladro C... (un tipo, che vi descriverò) mi aveva promesso di farmi vedere una di queste scuole di piccoli borsaiuoli.
Il modo, che mi avea proposto, per riuscire in questo intento, mi sembrava assai pericoloso. Ebbi sulle prime sospetto, che mi tendessero un agguato: io sarei andato là mal vestito, senza arnese o denaro: che cosa potevo temere? Poi l’uomo mi avea già reso altri servizi: io l’avea retribuito; quindi per suo profitto dovea continuare ad essermi fedele.
Vi sono in Firenze tre o quattro osteriuole, Caffè immondi, dove i ladri, i pregiudicati si radunano. Entrarvi è arduo. Fra loro non comportano intrusi. Hanno una grande e severa aristocrazia: la più severa e intollerante di tutte: l'aristocrazia dei birbaccioni: la canagliocrazia. Ciascuno di loro ha un nome: si chiamano Febbre, Scala, Lupetto, Tremito, Fortuna, Ghigliottina: i nomi più strani. Con tali nomi si conoscono non soltanto tra loro, ma sono conosciuti alla Polizia: e li hanno resi famigerati con degne gesta.
Allorché accade un furto, gli agenti più bravi, dopo aver preso contezza di tutti i particolari, esclamano: è Febbre e Lupo; o è Fortuna e Tremito e Febbre insieme, che lo hanno commesso. Perchè ogni ladro ha il suo genere, ha una maniera sua particolarissima di operare: ha uno stile. (Quanti scrittori sono inferiori ai ladri!).
Non solo hanno un nome, ma un linguaggio strano, capriccioso, che mutano di periodo in periodo, cioè quando si accorgono che la Polizia ne ha la chiave.
Non tollerano dunque la presenza di un estraneo nei loro raddotti.
Prima di tutto può essere una spia: in secondo luogo, che diritto ha di andare fra loro, chi non può far vedere il suo stato di servizio: dieci, venti, perfino quaranta condanne? I più condannati sono i più venerati, ma veneratissimi quelli, che ebbero venti, trenta processi e ottennero diciassette, venti assoluzioni! Costoro sono maestri di scaltrezza, ladri santi, da essi aspettan miracoli: sono eroi, che hanno saputo schernire, deludere la giustizia umana, mettersi sopra di essa.
Poiché anche questa è una guerra, e tal gente non si crede altro che perseguitata, sopraffatta dal numero: non si tien per rea, anzi tien per soverchiante e crudele la società umana verso di sé.
— È una lotta — essi dicono — fra voialtri e noi; voi avete tutte le ricchezze, tutti i godimenti, tutta la forza: noi abbiamo la fame, l’astuzia: voi avete le fatiche, gli studii, le industrie: noi vogliamo vivere senza lavoro, essere i satrapi del delitto. —
Non rubano, ma combattono per l’esistenza, attuano a modo loro la massima brutale del gran filosofo, che non era cristiano, e a cui pareva il supremo della vita stesse nel cercar di divorarsi gli uni gli altri, e avvantaggiarsi in danno altrui! Però tra loro si stimano, e non pure non si dispregiano, ma si tributano ossequio: si addolorano insieme della disgrazia, che tocchi ad uno di essi; compiangono quelli che muoiono, si raccontano con ammirazione, con desiderio di emulazione, le gesta fornite da’ più bravi di loro, già morti sul campo dell’onore (?) o chiusi nelle carceri.
Strana esistenza, ma pur meritevole di essere studiata: profonda sventura, che chiede alla religione, alla ragione di Stato, alla carità e alla prudenza umana di essere alleviata.
Io mi occupo solo di Firenze, e auguro che in altre città scrittori coraggiosi e pazienti si dieno ad analoghe osservazioni.
Noi abbiamo una popolazione composta di centinaia di persone, le quali hanno per vivere un solo rincalzo: il delitto: che non seguono nessuna norma sociale, che oltraggiano, bruttano, insozzano i vincoli della famiglia: menano i giorni a modo di bruti. E sono uomini, donne, bambini.
Il delitto di cui vivono è per entità piccolissimo, quasi sempre; scendendo addentro in certe investigazioni, si capisce una cosa enorme: tutta questa gente ruba perchè ha fame, ruba perchè non ha tetto!! E ci sono tante Opere Pie, tante filantropie e tante ipocrisie!
E voi fate leggi per distruggere l’anarchia: — fate piuttosto leggi per distruggere la miseria.
Mi spiego.
Si commettono in Firenze, in media, da’ cinque a’ sei furti il giorno. Lievi furti, in generale: si tratta di un fiasco di vino, o d’olio, di una pagnotta di pane, di una coperta, di un vestito, di polli, ecc. Rubano dunque per cuoprirsi e per mangiare; rubano molti, specialmente, per avere dove ricoverarsi, come vi proverò più tardi.
Con tanta carità ospitaliera, il pregiudicato, il ladro, che ha scontato la pena non trova dove dormire, dove ripararsi senza pagare; e non ha nessun mezzo di pagare; or ora vi proverò l’anomalia di tale condizione.
Rettori di Stati, più provvidi, e a suo tèmpo il dimostrerò, ci aveano già pensato. Siete tornati addietro: e non soltanto in questa, ma altresì in molte altre cose buone.
Torno un po’ addietro anch’io — onde m’ero partito.
I ladri, i pregiudicati, gli ammoniti vedono di mal occhio chiunque voglia avvicinarsi a loro: scrutare i loro pensieri e le loro abitudini. Che uno sia ladro, briccone, e sarà ben accolto; esser galantuomo è una colpa, o una debolezza, che eccita almeno il loro disprezzo.
Un giorno, io entrava con un brigadiere in una di quelle moféte, che si chiamano alberghi del Ghetto.
— Quanti siete ora qui a dormire? — domandò l’ufficiale della Polizia al notissimo ladro, che fa mestiere di spazzaturaio, è il drudo di una donna cupa, fosca, specie di Lucrezia Borgia da brago, di pelle scura, e appena mezzo coperta di stracci neri.
— Quanti siamo? — risponde il bieco proprietario del raddotto immondo, allungando verso noi la sua faccia scialba, i suoi occhi biancastri (veri occhi di ladro) e la sua testa aguzza di rettile. — Di noialtri siamo nove! —
Noialtri! La parola fu detta in tuono altezzoso, con piglio quasi di vanto. Avea quasi sembiante di voler dire: noialtri: i pregiudicati, gli ammoniti, gli spregiatori delle vostre leggi, della vostra potenza: noialtri, che facciamo scede della vostra autorità: che siamo in aperta ribellione con voi... e non ce ne duole!
Noialtri! fu detto in modo da giustificare il sentimento, che essi tutti provan di sè: un sentimento di esser vittime, perseguitati da una società iniqua, che sfidano, e di cui ridono, eziandio, nei momenti in cui li ferisce nel modo più crudele. Sono cinici! Diogene Laerzio potrebbe aggiungere una pagina al suo piccolo, arguto libro.
Scendendo, ci abbattiamo, per la lunga fila di scale, in altro ammonito.
Costui saluta la Polizia e, fatta una voltata alla prima scala, si mette a cantare con voce squillante tal che risuona nel vuoto di tutti quegli antri e di quelle cortacce.... — E c'è le peeeeere cooootte!! — Uno dei modi, che hanno, di metter in sull’avviso i compari che la Polizia va in volta per gli imbrattati androni, tra le muffose, viscide, crepolate pareti, sotto i solai tesi d’immensi ragnateli, e gremiti d’insetti, dell’orrido, vasto casale.
Entrate in una stamberga, in una soffitta, in una di quelle catapecchie. Subito vi si palesa come un movimento di gente e di cose, che si nascondono; tutti vi guardano torvi, o timidi, di sotto in su; tutti pigliano un atteggiamento come ragazzi, se di un tratto mette il piede nella scuola il pedagogo, dopo breve assenza.
Par che vi vogliano ingannare, imbubbolare: a ogni domanda, anche la più innocente: — avete caldo? siete contenti di questa casa? — rispondono confusi, ingarbugliati, sospettosi. Sono gente,9 |
marachella, e credono voi gli abbiate scoperti e siate sul punto di coglierli, o gli vogliate scuoprire. Operano male sempre e sempre hanno paura.
Una sera il famoso ladro C... mi aveva dunque promesso farmi vedere una scuola di borsaiuoli.
Fissammo la sera: lo incontrai all’ora indicata. Per tre sere, a distanza l’una dall’altra di non breve spazio di tempo, lo trovai confuso, imbarazzato. Non si poteva... credeva compromettersi... non voleva arrischiare me e sè in una brutta avventura: pazientassi.
La quarta sera mi venne incontro tutto raggiante, appena mi vide; mi disse: — Questa è proprio la serata. Andiamo! — Erano circa le nove.
— E questo corbello? — dissi io, accennando un grosso corbello, che faceva dondolare da una funicella, che si era attorta alla mano destra.
— Il corbello l’ho preso ora qui da una botteguccia in prestito (così almeno mi disse) col cappello che ci è dentro. —
Ci era un cappellaccio, a tese larghissime, di paglia nera.
— E perchè occorre questa roba?
— Per lei.
— Per me?
— Altrimenti... come vorrebbe entrare con me? Darebbe a tutti nell’occhio.—
Compresi. Da anni, io studio la parte più grottesca della nostra popolazione, e mi son trovato con uomini e donne a incontri de’ più bizzarri, e potrei raccontare le più strane peripezie.
Ho già scritto quattro volumi in cui ho fatto uno studio, che credo, senza ostentazione, il più accurato e coscienzioso che sia stato fatto in Italia sul grandioso dramma, che ha attori così dispari di forze e di condizione: dramma, che ha da un lato i delinquenti, dall’altro incarnato nella Polizia (somma istituzione) tutto il civile consorzio, che si difende contro di loro. Ho molto studiato gli attori da una banda e dall’altra: il pubblico ha fatto a’ miei romanzi, che sono studii verissimi, messi in luce dai fratelli Treves, l’accoglienza più onesta e più generosa.
Non mi dette quindi stupore la proposta di entrare alla Sacra con un corbello sulle spalle, in maniche di camicia, sotto un cappellone bisunto: già avea indosso panni adatti all’uopo.
E così entrai nella casupola dell’onesto ladro.
Vi dirò di dove, come, e in qual posizione vidi una di quelle scuole di borsaiuoli, che la Polizia cerca scuoprire da un certo tempo, e di cui nutre sospetto. Ed è arduo che vi riesca. Tali scuole si tengono in varii punti della città: o nel Ghetto, o a Malborghetto, alla Sacra, o in certi vicoli del Mercato: e cambian sempre di posto. Più di due o tre volte non si tengono nello stesso luogo. Ecco come sono ordinate.
Il cattedratico è sempre uno dei sette o otto ladri più famosi, che abbia Firenze, incanutiti nelle carceri: ne abbiamo almeno sette da dar pappa e cena ai sette savi della Grecia per la finezza del loro cervello.
Uno di essi, arrivò, tempo fa, per dar saggio di sua valentia, a rubare l'orologio al Delegato, che lo interrogava, nello stesso ufficio della Questura.
E quindi gli domandò, prima di restituirglielo: — Che ore sono, signor Delegato? —
Un collega del delegato poco appresso osservava al compagno:
— Te lo aveva detto che costui sarebbe stato capace di rubare l’orologio anche a te? —
Racconto fatti accertatissimi, storici, a così dire.
La scuola de’ borsaiuoli è fatta così.
Dicono a due, tre o quattro ragazzotti: — «Stasera alla tal’ora ti troverai nel tal posto!» ma il dicono in modo diverso, ricorrendo a varii pretesti di commissioni, di ordini, di castighi: i bambini si trovano al punto convenuto, alla medesima ora, e senza saper nulla uno dell’altro.
Il luogo di riunione, come ho già notato, cambia sempre.
I ragazzotti sono scelti fra i più destri e avveduti. Sono indirizzati a far certi tiri, e si esigono da loro le prove, come da artisti innanzi la recita di una commedia.
Poi s’impartiscono loro le istruzioni necessarie: trovarsi alla tale ora nella tale strada, o fuori di una Porta, o in fondo alle Cascine, che è un ritrovo assai accetto ai ladri.
I ragazzotti diventano abili a simulare tutte le sconciature e difformità, a pigliar tutti i sembianti.
Uno, per esempio, si contorceva a gobbo, a perfezione.
E fece questo saporito scherzo ad un sartucolo.
Andò a ordinare una giacchetta di frustagno. Il sarto gli prese la misura: vide che era gobbo sotto la spalla destra. Tornò a provarsi la giacchetta. Oh stupore del sarto! La gobba era a sinistra. Costui corresse, strabiliando. Alla terza prova, il sarto rimase per smemorato, la gobba era proprio nel mezzo. Si dette a corregger di nuovo. Neppure alla quarta prova la giacchetta tornava bene; il giovinastro sedicenne era diritto come un fuso!