Fantasia (Serao)/Parte quarta/II

II

../I ../III IncludiIntestazione 3 dicembre 2020 75% Da definire

Parte quarta - I Parte quarta - III
[p. 257 modifica]

II.

Per una settimana, dopo la scena del giardino inglese, il loro amore era stato calmo, senza nessuna espansione, quasi si concentrasse in sé, tutto interno. Si guardavano alla sfuggita, ma senza ansietà: non impallidivano, non arrossivano, non tremavano dandosi la mano. Lucia aveva un’aria assorbita, come se guar- [p. 258 modifica]asse dentro se stessa, senza che il mondo esteriore e il suo medesimo amante potessero strapparla a questa contemplazione. Andrea aveva il contegno tranquillo e la sere: noncuranza dell’uomo che è sicuro di sè, che è sicuro dell’avvenire. Quando scambiavano un’occhiata fuggitiva, pareva si dicessero, quieti, calmi, soddisfatti:

— Io t’amo — tu mi ami — tutto va bene.

Gli è che la giornata del giardino inglese era stata troppo passionata per non esaurire, almeno per qualche giorno, tutto l’impeto selvaggio di un amore represso. Allo stato acuto, alla vibrazione alta, era succeduto quel periodo di riposo, quella specie di cullamento orientale nella certezza di essere amato, quello stato di annullamento che riunisce la dolcezza del ricordo alla dolcezza della speranza.

Ma durò poco. Si ridestarono d’un tratto, appassionati, infelici. Una mattina Andrea si levò torbido, irrequieto, sospinto da un desiderio pungente di veder Lucia. Era troppo presto: ella dormiva. Egli passeggiò nel salotto, come un prigioniero, guardando ogni tanto l’orologio. Caterina che si era già alzata, gli portò il caffè e latte nel salotto, gli si sedette accanto per parlargli di certi conti famigliari, per ricordargli che si doveva andare a Caserta pel pagamento delle imposte. Egli ascoltava, inzuppando il biscotto nel caffè e latte, senza intendere quello che ella gli diceva. Si rodeva d’impazienza. Che poteva fare sino a quell’ora Lucia, in camera sua? Come non comprendeva che egli voleva vederla, che egli l’aspettava da un pezzo? Era [p. 259 modifica]senza dubbio quell’indolente Alberto che non si levava mai, che stava sempre a riscalducciarsi tra le coltri, freddoloso e piagnoloso, creatura infelice e odiosa che contristava l’esistenza di quella povera Lucia! Quell’idea che Alberto fosse di là con Lucia, che la trattenesse, che le impedisse di venire, gli fu insopportabile. Si levò in piedi, come per protestare, come per andare...

— Ci sarà oggi l’intendente di finanza? — finì col chiedere Caterina, spingendo via con le dita le miche del biscotto, col suo istintivo bisogno di ordine.

— Dove?

— A Caserta.

— E chi ne sa nulla?

— Possiamo domandare all’avvocato Marini, che fa le cause demaniali: egli deve saperlo. Mando Giulietta.

— Manda Giulietta.

Ella uscì, senza essersi accorta di nulla. Andrea si era un po’ calmato, pensando che presto sarebbe venuta Lucia, che era irragionevole pretendere che ella venisse in salotto alle nove e mezzo. Desiderava ancora di vederla, ma con un desiderio più dolce. Dietro i vetri egli stamburava con la mano una marcia, ripensando a quel momento in cui ella lo aveva pregato di non abbracciarla perchè lo amava, e egli, obbediente come un fanciullo, l’aveva lasciata. Bisognava amarla in tutt’i modi Lucia, la sua Lucia, con passione, ma con tenerezza profonda: con ardore di giovinezza, ma con rispetto e venerazione. Oh! egli aveva in cuore tutto questo. Egli avrebbe atteso con tranquillità che Lucia venisse, senza dare in escandescenze pericolose. Poteva [p. 260 modifica]tardare Lucia, l’amante suo non avrebbe sfondato le porte, non avrebbe infranto i mobili e le porcellane, per assopire la propria collera...

Caterina rientrò.

— Ha detto l’avvocato Marini che l’intendente ci è dalle nove alle dodici, in ufficio, oggi.

— Sicchè?

— Tu hai il tempo di andarci prima di colazione. In un’ora vai e ritorni.

— No, non vado — disse Andrea, dopo avere esitato.

Caterina tacque: non gli faceva mai osservazioni. Le pareva che egli avesse sempre ragione.

— Andrò dopo colazione — soggiunse egli, quasi spiegasse la sua condotta.

— Come vuoi — disse Caterina, senza fargli osservare che, dopo colazione, l’intendente non lo avrebbe trovato.

Andrea s’irritava di nuovo: Caterina lì, ritta innanzi a lui, gli dava fastidio. Pareva che aspettasse qualche cosa, che volesse domandargli, chiedergli conto...

— Senti, Caterina, va in camera e portami la mia cartella: scriverò qui certe lettere molto interessanti.

Ella se ne andò di nuovo, col suo passo ritmico che sfiorava la terra. La porta di Lucia si aprì ed ella entrò: Andrea le corse incontro, pallido dal piacere di rivederla. Ma si arrestò disilluso. Dietro veniva Alberto. Andrea salutò, freddamente, vedendo svanire tutto il suo bel progetto di contemplarsela lungamente.

— Non sei uscito stamane? — domandò scioccamente Alberto. [p. 261 modifica]

— No.

— Ti senti male forse?

— Io sto sempre bene. Sono seccato.

Lucia lo guardò, come se lo interrogasse. Ella era così seducente quella mattina, coi suoi occhioni bistrati, con le labbra vivide che tagliavano il pallore del viso, con la sua aria languida e provocante di donna che ama, di donna che è amata, che vorrebbe dirlo, che vorrebbe sentirselo dire. In una occhiata passionata e desolata, dietro le spalle di Alberto, essi si compresero. Egli si era seduto in mezzo a loro, sdraiato sopra una poltrona, deciso a non andarsene. Quando lo vide così, per contrasto, Andrea sentì nascere potente in sè il desiderio di dire a Lucia che le voleva bene. Dirglielo una volta sola, pian piano, nell’orecchio, come nel giardino inglese: una sola volta e sarebbe stato contento, se ne sarebbe andato quieto e felice. Ma voleva dirglielo, assolutamente: la parola gli veniva sulle labbra e pareva che Lucia ve la leggesse, tanto sbarrava gli occhi, ansiosa, rapita. Intanto Alberto sbadigliava, si stirava le braccia, provava a respirare lungamente per sentire se vi era intoppo nel petto, tossiva leggermente per provare il fiato. Ora, Andrea non desiderava altro se non che Alberto si alzasse per un momento, che andasse sino in camera o sino al balcone, perchè egli, Andrea, potesse dire a Lucia che l’amava. Ma che! Quello, lungo, sdraiato, guardando il soffitto, dondolando una gamba sull’altra, non si moveva. Lucia fingeva di leggere il giornale, giunto per la posta, ma le mani le tremavano nervosamente. [p. 262 modifica]

— Che dice il giornale, Lucia?

— Nulla.

— Al solito: non vi è mai niente. Tu ti diverti a leggere?

— Immensamente — e la voce fischiò fra i denti.

— Perchè non chiacchieri con noi? Ci è qui Andrea, che non è uscito: la prima volta che resta in casa di mattina, tu t’immergi nel Pungolo.

— Io ho dimenticato in camera la scatola con le tue pastiglie — disse lei, pensierosa.

— Eccola qua — rispose Alberto, e la cavò di tasca.

L’espediente volgare, ma quasi sempre efficace, non era riuscito. I due amanti rimasero taciturni, abbattuti, come sconfitti. In questo entrò Caterina con la cartella.

— Ho tardato — disse — ma non la trovavo più. Era nel fondo del cassetto, sotto la carta bollata. È tanto tempo che tu non scrivi.

Dopo avere apparecchiato tranquillamente l’occorrente per scrivere a suo marito, si accostò a Lucia e le sedette accanto. Andrea, rabbioso di quella doppia sorveglianza, cominciò a scrivere frasi senza senso, rapidamente. Scriveva dei nomi, dei verbi, degli avverbi lunghissimi, a caso, per scrivere qualche cosa, sentendo che non poteva pensare ad altro salvo che a dire alla sua cara Lucia, il suo amore bello, che le voleva bene. Sogguardò verso i tre. Lucia, la testa arrovesciata, la faccia livida dal dispetto, le labbra secche, come tirate da un filo interno, lo guardava fra le palpebre socchiuse dietro il giornale. Egli si sarebbe alzato, sarebbe corso da lei, a dirle che l’amava: ma Alberto e Caterina se [p. 263 modifica]la discorrevano placidamente, dicendo che la pioggia aveva rinfrescata l’aria e che oramai si poteva passeggiare, anche al sole. Caterina aveva la sua aria raccolta e composta di donnina che si compiace del riposo, e Alberto girava i pollici, come un borghese immobile e ventruto che si sprofonda beatamente nel senso della propria nullità.

— Non ne faremo niente — borbottò Andrea.

— Che dici? — chiese Caterina, che aveva sempre l’orecchio teso.

— Che non faremo mai colazione. A momenti sono le undici e mezzo. Io muoio dalla fame.

— Vado, vado ad affrettare — mormorò lei, turbata da quell’accento feroce.

— Vengo anche io, signora Caterina — disse Alberto.

I due si scambiarono una rapida occhiata, già quasi vicini, già frementi. Ma sollevandosi, ad Alberto parve di sentire una puntura nel petto. Cominciò a tastarsi, a comprimersi la mano sulla costola, già spaventato. Caterina se n’era andata.

— Mi sembra d’avere un dolore qui — si lamentò lui.

— Io l’ho sempre — disse l’altra, tetramente, senza guardarlo.

— Dici sul serio? alla base del polmone?

— Sì: e anche alla cima. Ho dei dolori dappertutto.

— Ma perchè non lo dici? Perchè non farti curare? Vuoi darmi il dispiacere di vederti in letto ammalata? Io che ti voglio tanto bene!

Il tavolino ove Andrea scriveva, scricchiolò come se egli ci si fosse abbandonato sopra, con tutto il peso. [p. 264 modifica]Alberto, inginocchiato innanzi alla moglie, continuava a domandarle dove si sentisse male, se i dolori fossero nelle ossa, se fossero punture. La pregava, dimenticando i propri malanni, innamorato di quel volto duro e chiuso di sfinge, che si lasciava interrogare senza rispondere. Caterina li trovò in questa posizione: sorrise, additandoli a suo marito che le rispose con un riso di ironia, molto bizzarro su quella faccia bonaria e onesta. Ma la penetrazione della moglie non giungeva a distinguere un semplice sorriso da un ghigno sarcastico.

A tavola vi fu un silenzio penoso, ma breve: Lucia prese a chiacchierare volubilmente, nervosamente, scherzando col coltello, versando lei il vino ad Andrea, per capriccio. Ella non mangiava e beveva grandi bicchieri d’acqua gelata, la sua bevanda favorita. Mentre Caterina badava al servizio, l’occhio su Giulietta, parlandole talvolta sottovoce, toccando il campanello elettrico, Alberto toglieva dalla sua carne il grasso, i filamenti, i nervi, riducendola un bocconcino, Andrea fissava distratto un raggio di sole che batteva sopra un bicchiere d’acqua. Lucia seguitava a tener viva la conversazione, dicendo una quantità di stravaganze, eccitandosi, stringendo le mani, come quando l’assalivano le sue convulsioni isteriche. La solita questione venne in campo.

— Si esce oggi? — domandò Andrea.

— Io no — disse Alberto.

— E io neppure — disse Lucia.

— E io neppure — rinforzò Caterina. [p. 265 modifica]

— E che farete in casa? — chiese ancora Andrea?

— Io farò il giuoco solitario, con le carte — disse Alberto. — Ma può darsi che io non lo faccia. Per me, purché ci stia Lucia...

— Io lavorerò alla mia tappezzeria — disse lei, infiacchita d’un tratto.

— Ed io cucirò — completò Caterina.

— Vi divertirete un mondo — sghignazzò lui, levandosi — venite in carrozza, facciamo attaccare la daumont.

— No — disse subito Lucia, guardandolo.

Egli intese. A che serviva quella passeggiata? Sarebbero usciti, sempre in quattro, sempre vicini, i due uomini di fronte alle due donne: non avrebbe potuto dire a Lucia che l’amava.

— Quasi rimarrei qui per contare i vostri sbadigli — borbottò lui, diventato feroce.

— Se rimani sei un galantuomo — gli disse Alberto. — Vedrai come passiamo bene le ore del pomeriggio, nel salotto caldo, dove non si suda e dove non ci è vento.

Egli rimase. Sperava ancora, sperava sempre. Ma quando vide Alberto dinanzi al tavolino col suo giuoco di carte, Caterina presso il balcone col suo cesto di biancheria, Lucia sul divano con l’interminabile canavaccio in mano, tirando il filo lentamente, senza alzare gli occhi, egli pensò che nulla, nulla se ne sarebbe fatto, e uno sconforto e un abbattimento cupo lo vinsero. Quei due ostacoli, pacifici, benevoli, immobili, passivi, che sorridevano dicendo qualche rada parola, [p. 266 modifica]erano insormontabili. Mai, mai più, avrebbe potuto parlare a Lucia. Era finita. Non aveva la forza nè di uscire nè di restare in quella stanza chiusa.

— Me ne vado a dormire — disse, alzandosi come se compiesse un atto di coraggio.

— Che cosa stai ricamando oggi, Lucia? — chiese Alberto.

— Un cuore trafitto da una spada.

In camera sua Andrea chiuse le imposte e si buttò sul letto, preso da una stanchezza mortale, come mai non aveva sentito. Nella lotta con le cose era stato atterrato. La sua natura impetuosa, senza transazioni, non sapeva le lunghe perseveranze: egli non sapeva nè attendere nè calcolare. — Mai più, mai più — diceva fra sé, col viso sepellito nei cuscini.

Due volte venne Caterina in punta di piedi, si chinò su di lui, trattenendo il respiro per sentire se dormisse. Egli finse di dormire, reprimendo un moto di fastidio. Ora, non era libero neppure di chiudersi in una stanza e di sfogarsi, dando delle pugna nelle materasse? Ora doveva sopportare tutte queste premure, tutte queste noie? Ma Lucia ritornò nel suo pensiero, dominante, imperante; Lucia, di cui mormorava il nome, che lo empiva di dolcezza; Lucia, l’amore caro, l’amore grande, l’amore immenso, come il mare, come il sole. Si voltava e si rivoltava nel letto, smaniava nervoso, egli che non aveva mai avuto fastidio dai nervi, parendogli di essere da un secolo lì, arroventandosi su quella biancheria fresca di bucato. Si addormentò due o tre volte, leggermente, supino, e, sognando come gli pa[p. 267 modifica]reva di vedere Lucia, gli occhi spalancati e fiammeggianti, la bocca offerta ai baci: come lui si accostava, bramoso, assetato, come qualcuno traeva indietro Lucia, ed egli non si poteva più muovere, inchiodato al suo posto, volendo urlare, e non trovando fiato. Si destò di soprassalto, trabalzante — Lucia, Lucia — ripeteva, ricadendo nel suo torpore, procurando di sognare di nuovo, per rivederla, per cercare di baciarla. E la ritrovava nel sogno, egli sul balcone, ella nella via che gli tendeva le braccia — ed egli si precipitava dal balcone, lentamente, lentamente, non cessando mai di cadere, provando un’angoscia suprema. Era l’incubo che gli premeva lo stomaco, era il sonno affannato e travagliato. Quando si destò, completamente, aveva le palpebre grevi, la bocca pastosa, e il corpo indolenzito. Quell’eterno pomeriggio doveva essere finito. Aprì il balcone: il sole era ancora abbastanza alto. Erano le cinque, ci volevano altre due ore pel pranzo. Ma in lui, per quella luce gaia, per quel risveglio, rinasceva la speranza. Ecco, le avrebbe scritto, a Lucia, sopra un pezzetto di carta, che l’amava. Niente altro: bastava, si contentava di questo.

Diamine, non le avrebbe potuto dare quel pezzetto di carta? È cosa facile a farsi: sì, sì, era un’idea splendida. E venne nel salotto, contento della sua trovata. Vi trovò, per primo disinganno, Caterina in compagnia di Alberto. Lucia mancava. Dove era? Non osò chiederlo. Alberto fumava una sigaretta di quelle medicinali, per i polmoni deboli, e guardava attentamente il fumo: ora, dondolava la gamba diritta a cavalcioni [p. 268 modifica]della sinistra. Caterina aveva finito di mettere una balza ad una sottana e infilava la guaina della cintura. Lucia mancava. A chi domandarne?

— Hai dormito bene?

— Sì, Caterina: benissimo. Tu hai cucito sempre?

— No: è venuta la signora Marini a farci visita.

— Spero che l’avrete fatta entrare nel salone.

— Sì: è rimasta troppo a lungo.

Niente di Lucia. A chi chiederne? chi gli direbbe quello che faceva Lucia?

— ... e allora, Lucia che si annoia nella compagnia delle persone stupide — completò Alberto — si è sentita male e se n’è andata in camera sua: io sono stato pocanzi a vedere che faceva... Indovina, Andrea, che faceva?

— Che posso saperne?

— Indovina, indovina...

— Mi sembri un bambino.

— Giacché non sei buono a indovinare, te lo dico io. Era inginocchiata sul cuscino dell’inginocchiatoio e pregava: pregava fervidamente, con la testa fra le mani.

— Lucia sta troppo tempo inginocchiata: questo le procurerà qualche deliquio — osservò Caterina.

— Che volete farci? In materia di fede non soffre osservazioni. Anzi si lagna di me che ho dimenticati l’Avemmaria e il Pater noster. Appena io tossisco un poco, ella prega un’ora di più.

Andrea se n’era andato al tavolino, aveva tagliato un pezzettino di carta, e sopra, minutamente, di tra[p. 269 modifica]verso, in tutti i sensi, vi aveva scritto una trentina di volte: ti amo. Questo, mentre Caterina e Alberto parlavano ancora di Lucia — e gli pareva di aver commesso un grande atto di audacia a scrivere quelle parole sotto gli occhi di quei due. Non aveva finito che Lucia rientrava. Era più nervosa che mai, gli andò vicino, celiò sul suo sonno provinciale, su questa abitudine di uomo già maturo. Non gli mancava più che una partita di tresette la sera, una tabacchiera di rapè, e un fazzoletto di cotone a scacchi rossi e neri. Voleva giuocare alla scopa, con lei, dopo pranzo? E mentre gli altri ridevano, mentre la voce di lei strideva, due o tre volte mise la mano in tasca, come per cavare il fazzoletto: un pezzettino di carta ne spuntò. Allora egli, turbato, mise le dita nel taschino della sottoveste, e mostrò la punta del suo biglietto. L’uno aveva scritto all’altro.

Ma non poterono scambiarsi i due biglietti. Nella sala erano sempre o Caterina, o Alberto, o ambedue. L’uno andava, l’altra tornava: mai un minuto soli. Con le dita nel taschino, senza far mostra di nulla, Andrea aveva piegato il suo biglietto in due, in quattro, in otto; ne aveva fatto una pallottolina microscopica, che teneva in mano, per averla più pronta. Lucia lasciò cadere un gomitolo: Alberto lo raccolse. Andrea domandò il ventaglio a Lucia, ma fu Caterina l’intermediaria che glielo porse. Non era possibile. Quei due guardavano, ingenuamente, francamente, senza sospetto, quindi più temibili. Andrea tremava per Lucia: non per sè che era pronto ad arrischiare tutto. Ogni tanto [p. 270 modifica]un’idea strana e sfrontata gli passava pel capo, di dire a Lucia, ad alta voce: — Vi ho scritto una cosa sopra una carta. Ma dovete leggerla voi sola. — Chi sa, forse Alberto e Caterina non avrebbero capito nulla e l’atto audace poteva riuscire. Ma se avessero chiesto, scherzando, di vedere? Tutto sarebbe stato perduto, allora. La paura per Lucia lo vinse: finì per ricacciare la pallottolina di carta nel fondo del taschino.

In quanto a Lucia, essa aveva una collera concentrata e nervosa, che le intorbidiva gli occhi — e le affilava il naso, come se una mano tirasse le linee della sua faccia. Si muoveva disordinatamente, andando di qua e di là, toccando gli oggetti, distrattamente, raggiustandosi il nodo della cravatta, disfacendolo, rialzandosi le trecce sul collo, guardando il lavoro di Caterina, pigliando la sigaretta di Alberto e aspirandone due boccate, riempiendo la stanza di movimento, di chiacchierìo, di rumore. Non era possibile scambiarsi i biglietti. Lucia mise il suo nel fazzoletto e posò il fazzoletto sul divano: ma per arrivare al divano, Andrea doveva passare sul corpo di Alberto, che s’interponeva. Dopo cinque minuti Lucia riprese il fazzoletto portandolo alle labbra, come se lo mordesse. Poi corsero un vero pericolo.

Andrea aprì un volume di Balzac che era sopra una mensola e vi pose il biglietto, riponendo il libro. Dopo un poco:

— Datemi quel libro, Andrea.

— Ma che! — esclamò Alberto — vuoi leggere adesso? Si va a pranzo, sai.

— Veggo solo una pagina. [p. 271 modifica]

— Che pagina! Io odio il tuo Balzac, lungo e triste. Il libro lo sequestro io.

E fece per prenderlo. Andrea lo tirò a sè, naturalmente, pensando che tutto era perduto. Lucia chiuse gli occhi, come se morisse. Nulla accadde. Alberto non insistette per avere il libro. Dopo tutto, che gliene importava di Eugénie Grandet? Purchè sua moglie non leggesse e chiacchierasse così allegramente come prima! Andrea respirò lungamente, riprendendo il suo biglietto, non volendo darlo più, avendo provato uno spasimo ineffabile. Lucia sì riaveva, con la sua maravigliosa facoltà di passare da una impressione all’altra, rapidamente. Era finita anche pei biglietti. Invece il pranzo fu allegrissimo. Caso strano, ai pomelli di Lucia era salito un rossore ardente, due macchie di sangue: sulla gota, verso il mento una striscia rossa, simile a una graffiatura. Ella aveva caldo, si sventolava, odorava la sua boccettina di sali inglesi, scherzava con suo marito, scherzava con Caterina. Non aveva mostrato mai tanta allegria: ogni tanto uno stiramento nervoso le moveva la bocca, ma poteva sembrare una risata. Andrea beveva, beveva distratto. Lucia si chinava verso lui, gli sorrideva, gli parlava molto da vicino, mostrava i denti, gli offriva quasi le sue labbra garofanate. Allora Andrea, in quel calore della stanza da pranzo, con l’aria pesante dove si aggravava l’odore delle vivande e quello acuto delle frutta conservate e quello forte dell’aceto sparso sulla cacciagione, con quei riflessi caldi dei cristalli sulla tovaglia, con Lucia rossa in volto, la cravatta allargata, il collo bianco [p. 272 modifica]che appariva, Andrea fu preso da una voglia pazza di darle un bacio: uno solo, uno solo, sulle labbra. Ogni tanto si accostava per farlo, parendogli che gli altri lo avrebbero creduto ubbriaco, e che agli ubbriachi tutto si perdoni. Si accostava per baciare, tormentato da quel desiderio. Si rigettava indietro, sgomentato dalla faccia bianca e tranquilla di sua moglie, dal profilo osseo di uccellino di Alberto. Un momento, Lucia intese e diventò smorta come la cera. Vide ch’egli le guardava le labbra e le nascose con la mano. Ma che importava? Egli le vedeva, vivide, sbocciate, umide, col sapore del sangue fresco che lo aveva inebbriato, là, nel giardino inglese. Le voleva succhiare, per un minuto secondo. E l’occhio fisso, le sopracciglia aggrottate, il pugno chiuso sulla tovaglia, egli si ribadiva nella mente questa risoluzione, mentre gli altri seguitavano a discorrere di Napoli e delle feste invernali che si approssimavano.

Passarono in salone a prendere il caffè. Egli cercò di attirare Lucia dietro il pianoforte, per poterle dare un bacio: un’assurdità, perchè il pianoforte era troppo basso. Si accesero i lumi, Caterina si mise al pianoforte e suonò le sue solite cose, poco difficili veramente, ma suonate con un certo garbo: la rêverie di Schubert, il preludio della Traviata al quarto atto, la marcia delle rovine di Atene, un pezzo popolare di Beethoven. Lucia era distesa sulla poltrona americana, la testa abbandonata, i piedini nascosti sotto le pieghe dello strascico, sognando. Alberto, di fronte a lei, sfogliava l’album della guerra franco-prussiana, trovando [p. 273 modifica]che Moltke non rassomigliava a Crispi e che tutti i Prussiani si rassomigliavano fra loro.

Andrea dava le volte pel salone, venendo ogni tanto al pianoforte, dicendo qualche parola a Caterina, per farle mutare il pezzo o farle allargare il tempo. Ma era perseguitato dalle labbra di Lucia che vedeva dovunque, un fiore di melograno aperto, una vivezza di corallo boccheggiante: innanzi a sè, le vedeva ondeggiare, fluttuare, le seguiva, le raggiungeva, scomparivano. Libero per un istante: poi dallo specchio, da un candelabro di bronzo, da una giardiniera di legno, le vedeva trasparire, prima pallide, poi rosse, poi di carminio, come se pigliassero vita. Non poterle raggiungere mai! Uscì sul balcone, espose all’aria la sua testa infuocata, sperando che l’umidità della sera calmasse quel delirio.

Caterina pregò Lucia di suonare, ella non volle, non ne aveva la forza, disse che si sentiva estenuata. Alberto sonnecchiava. Le due amiche parlarono sottovoce, a lungo, fra loro, curvandosi sui tasti bianchi e neri, mentre dal balcone Andrea le guardava: ora le labbra di Lucia gli facevano l’orribile scherzo di accostarsi alla guancia di Caterina. Oh se Caterina si muovesse dal pianoforte! Ma niente, vi rimaneva, confitta, ascoltando quello che le mormorava Lucia.

Così le ore passarono, lente, lunghe, non mutando nulla in quel salone. Egli sentì calmarsi quell’acuzie di desiderio, in una desolazione crescente. A mezzanotte si salutarono, Andrea spossato, vacillante sulle ginocchia; ella trascinantesi a stento. Scambiarono un [p. 274 modifica]buonanotte arido, con la voce spezzata di chi non spera più nulla.

E solo, nell’oscurità, accanto a sua moglie che si addormentava, egli ebbe il tormento di rivivere quella giornata in cui aveva desiderato uno sguardo e non lo aveva avuto, una parola e non l’aveva potuta nè dire ne udire, un biglietto e non lo aveva potuto nè dare nè leggere, un bacio e non lo aveva dato: sfinite le forze in questa miserabile giornata, perduta per l’amore. Sì, tutto sarebbe andato sempre così, sempre, sempre. Ed era meglio morire.