Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
parte quarta | 263 |
la discorrevano placidamente, dicendo che la pioggia aveva rinfrescata l’aria e che oramai si poteva passeggiare, anche al sole. Caterina aveva la sua aria raccolta e composta di donnina che si compiace del riposo, e Alberto girava i pollici, come un borghese immobile e ventruto che si sprofonda beatamente nel senso della propria nullità.
— Non ne faremo niente — borbottò Andrea.
— Che dici? — chiese Caterina, che aveva sempre l’orecchio teso.
— Che non faremo mai colazione. A momenti sono le undici e mezzo. Io muoio dalla fame.
— Vado, vado ad affrettare — mormorò lei, turbata da quell’accento feroce.
— Vengo anche io, signora Caterina — disse Alberto.
I due si scambiarono una rapida occhiata, già quasi vicini, già frementi. Ma sollevandosi, ad Alberto parve di sentire una puntura nel petto. Cominciò a tastarsi, a comprimersi la mano sulla costola, già spaventato. Caterina se n’era andata.
— Mi sembra d’avere un dolore qui — si lamentò lui.
— Io l’ho sempre — disse l’altra, tetramente, senza guardarlo.
— Dici sul serio? alla base del polmone?
— Sì: e anche alla cima. Ho dei dolori dappertutto.
— Ma perchè non lo dici? Perchè non farti curare? Vuoi darmi il dispiacere di vederti in letto ammalata? Io che ti voglio tanto bene!
Il tavolino ove Andrea scriveva, scricchiolò come se egli ci si fosse abbandonato sopra, con tutto il peso.