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parte quarta 267

reva di vedere Lucia, gli occhi spalancati e fiammeggianti, la bocca offerta ai baci: come lui si accostava, bramoso, assetato, come qualcuno traeva indietro Lucia, ed egli non si poteva più muovere, inchiodato al suo posto, volendo urlare, e non trovando fiato. Si destò di soprassalto, trabalzante — Lucia, Lucia — ripeteva, ricadendo nel suo torpore, procurando di sognare di nuovo, per rivederla, per cercare di baciarla. E la ritrovava nel sogno, egli sul balcone, ella nella via che gli tendeva le braccia — ed egli si precipitava dal balcone, lentamente, lentamente, non cessando mai di cadere, provando un’angoscia suprema. Era l’incubo che gli premeva lo stomaco, era il sonno affannato e travagliato. Quando si destò, completamente, aveva le palpebre grevi, la bocca pastosa, e il corpo indolenzito. Quell’eterno pomeriggio doveva essere finito. Aprì il balcone: il sole era ancora abbastanza alto. Erano le cinque, ci volevano altre due ore pel pranzo. Ma in lui, per quella luce gaia, per quel risveglio, rinasceva la speranza. Ecco, le avrebbe scritto, a Lucia, sopra un pezzetto di carta, che l’amava. Niente altro: bastava, si contentava di questo.

Diamine, non le avrebbe potuto dare quel pezzetto di carta? È cosa facile a farsi: sì, sì, era un’idea splendida. E venne nel salotto, contento della sua trovata. Vi trovò, per primo disinganno, Caterina in compagnia di Alberto. Lucia mancava. Dove era? Non osò chiederlo. Alberto fumava una sigaretta di quelle medicinali, per i polmoni deboli, e guardava attentamente il fumo: ora, dondolava la gamba diritta a cavalcioni