Etica/Libro Primo/V
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V. — La derivazione delle cose da Dio.
1 Nell’ultima parte del 1° libro (prop. 21-36) Spinoza tratta di Dio in rapporto alle cose prodotte. Nelle prop. 21-23, 25 tratta della processione da Dio d’un mondo di essenze eterne ed infinite. Dagli attributi di Dio procede immediatamente un certo numero di essenze primitive, eterne ed infinite: da queste procedono altre essenze derivate, egualmente eterne ed infinite. Quali siano i modi eterni primitivi lo sappiamo dal cap. 9 del primo libro del Trattato breve. Dagli attributi del pensiero e dell’estensione procedono rispettivamente i due modi infiniti primitivi dell’intelletto e del movimento, i due Figli di Dio. Il modo primitivo eterno dell’intelletto è l’infinito intelletto divino, del quale tutti i pensieri determinati sono parti, momenti costitutivi. Esso deve venir distinto dal pensiero come attributo (che è la cogitatio assoluta); il pensiero come attributo è ancora l’unità, è il fondamento sostanziale di tutte le attività cogitanti, quale è nella sua unità originaria, in Dio; l’intelletto infinito è l’unità già riversantesi nella molteplicità, è il complesso di tutte le attività cogitanti, quali modi eterni, «La mente nostra, in quanto pensa, è un modo eterno del pensiero, che è determinato da un altro modo eterno del pensiero e questo da un altro e così all’infinito: così che tutti insieme costituiscono l’eterno ed infinito intelletto di D io» (Et., V, 40, scol.). E poiché l’intelletto divino, che comprende in sé tutti i pensieri e dal quale tutti si possono svolgere, è il pensiero che ha per oggetto la totalità, cioè Dio, così Spinoza lo chiama anche idea Dei. Tratt. breve, II, 22 (nota): «L’intelletto infinito che noi abbiamo chiamato il figlio di Dio, deve essere da tutta l’eternità nella Natura: perchè essendo Dio da tutta l’eternità, anche l’idea sua deve essere da tutta l’eternità nella cosa pensante». E nella Append. II, ib.: «La modificazione più immediata del l’attributo, che diciamo pensiero, contiene in sè, come oggetto, l’essenza formale di tutte le cose... E poiché Dio, o la Natura, è un essere, del quale possono venir predicate infinite proprietà e che contiene in sè le essenze di tutte le cose create, deve prodursi necessariamente nel pensiero un’idea infinita, che abbraccia in sè come oggetto l’intiera Natura, tale quale è realmente in sè... Perciò noi abbiamo chiamato quest’idea figlia di Dio o immediata creatura di Dio, perchè essa contiene in sè come oggetto l’essenza formale di tutte le cose, senza subire aumento nè diminuzione. E quest’idea è necessariamente una perchè tutte le essenze delle proprietà [cioè degli attributi] e delle determinazioni in esse comprese costituiscono l’essenza d’un unico, infinito essere». — Il secondo modo primitivo, corrispondente all’attributo dell’estensione, è il movimento, o meglio la somma totale dei movimenti del mondo esteso, che, sebbene si ripartisca in ogni istante in un modo diverso, rimane sempre la stessa. — Da queste essenze prime derivano poi i modi eterni derivati, cioè le essenze eterne delle cose, le res fixæ et æternæ, che nel Trattato dell’emendamento dell’intelletto Spinoza oppone alle cose singolari e mutevoli.
Nonostante questa distinzione, Dio è però sempre causa diretta ed esclusiva di tutte le cose, perchè, come causa immanente, anche nei modi eterni derivati è ed opera direttamente (Et., I, 28, scol.). Come causa immanente, Dio li costituisce con l’essenza propria: le essenze delle cose non sono sostanze che siano fuori di lui, ma affezioni, modi della sostanza divina (Et., I, 25, coroll.).
L’insieme di questi modi eterni ed infiniti procedenti dall’essenza divina costituisce ciò che Spinoza (con espressione scolastica, che risale ad Averroè e ricorre, fra altri, anche in Tommaso d’Aquino e in Bruno) chiama natura naturata, in opposizione a Dio, come unità e causa immanente di questi modi, che è la natura naturans.Per Natura naturante dobbiamo intendere ciò che è in sè ed è per sè concepito, cioè quegli attributi della sostanza che esprimono un’essenza eterna ed infinita o (ciò che è lo stesso) Dio considerato come causa libera. Per Natura naturata intendo tutto ciò che segue dalla necessità della natura divina ossia dagli attributi di Dio, cioè tutti i modi degli attributi divini, in quanto sono considerati come cose che sono in Dio e che senza Dio non possono nè essere, nè essere concepite. (Et., I, 29, scol.).
2) Ma se il mondo che procede dall’infinita ed eterna essenza di Dio è un mondo di essenze infinite ed eterne, donde il mondo delle cose finite? Quando io considero (con l’intelletto) una cosa particolare nella unità infinita di Dio, io non posso considerarla come isolata e determinata: anch’essa è un’essenza infinita ed eterna ed anche per essa (in quanto involge l’eterna e infinita essenza di Dio) l’esistenza si confonde con l’essenza. Ma se io considero una cosa particolare come recisa, per così dire, dal seno dell’unità infinita, io la trasformo in un essere finito e limitato: essa non ha più in sè e nella sua unità con Dio le ragioni del suo esistere: la sua essenza non involge più l’esistenza (prop. 24). Bisogna dunque distinguere tra i modi in quanto vengono considerati come esistenti in Dio e i modi in quanto vengono considerati come collegati soltanto con altri modi, cioè con altre cose particolari (ciò che opera in noi il senso, l’imaginatio): in questo secondo caso è naturale che il modo apparisca a noi (data la limitazione della nostra imaginatio) ora come presente, per virtù delle sue cause particolari, nell’orizzonte del nostro conoscere; ora come non presente, cioè ora come esistente, ora come non esistente. Non vi sono dunque in realtà modi finiti: vi sono due modi nostri di apprendere la realtà divina, con l’intelletto e con l’imaginatio. Il primo è costituito da conoscenze adequate ed apprende il mondo delle essenze eterne ed infinite così come veramente è in Dio; il secondo dà origine al mondo (apparente) dei modi finiti, dovuto all’ imperfezione della confusa e mutila visione nostra. Quindi si può parlare d’una duplice esistenza delle cose: l’esistenza nel tempo (cui corrispondono i modi finiti) e l’esistenza in Dio (cui corrispondono i modi eterni ed infiniti).
Noi possiamo concepire in due modi le cose come esistenti in atto: o in quanto le concepiamo come esistenti in relazione ad un certo tempo e luogo o in quanto le concepiamo come contenute in Dio e procedenti dalla necessità della natura divina. Quelle che noi concepiamo come vere e reali in questo secondo modo, le concepiamo sotto il punto di vista dell’eternità e le loro idee involgono l’eterna ed infinita essenza di Dio. (Et., V, 29, scol.).
Qui per esistenza non intendo la durata, cioè l’esistenza concepita isolatamente come una specie di quantità. Farlo della natura stessa dell’esistenza che viene riferita alle cose singolari in quanto dall’eterna necessità di Dio procedono infinite cose in infiniti modi. Parlo cioè della stessa esistenza delle cose singolari in quanto sono in Dio. Poiché sebbene ciascuna cosa sia determinata ad esistere in un certo modo da un’altra cosa singolare, la forza tuttavia per cui ciascuna cosa persevera nell’esistere procede dall’eterna necessità della natura divina. (Et., II, 45, scol.).
E così alla distinzione del mondo dei modi eterni e del mondo dei modi finiti corrisponde una duplice causalità: la causalità divina, per cui da Dio procede eternamente il mondo dei modi, delle essenze egualmente infinite ed eterne; e la causalità empirica, per cui ogni modo finito è ricondotto ad un altro modo finito, che è la condizione della sua esistenza nel tempo, questo ad un altro e così indefinitamente.
Prop. 28. Qualsiasi cosa particolare ossia qualunque cosa che è finita ed ha un’esistenza determinata non può esistere nè esser determinata ad operare se non venga determinata ad esistere e ad operare da un’altra causa, che anch’essa è finita ed ha un’esistenza determinata; ed alla sua volta questa causa non può esistere nè esser determinata ad operare se non venga determinata ad esistere e ad operare da un’altra, che anch’essa è finita ed ha un’esistenza determinata; e così all’infinito.
Dimostrazione. Tutto ciò che è determinato ad esistere e ad operare è stato da Dio così determinato (prop. 26 e prop. 24, coroll.). Ma ciò che è finito ed ha un’esistenza determinata non ha potuto essere prodotto dalla natura assoluta di qualcuno degli attributi di Dio: perchè tutto ciò che procede dalla natura assoluta di qualcuno degli attributi di Dio è infinito ed eterno (prop. 21). Dovette dunque procedere da Dio o da qualcuno dei suoi attributi in quanto è considerato come affetto da un certo modo: perchè nulla vi è fuori della sostanza e dei modi (ass. 1 e def. 3, 5) e i modi (prop. 25, coroll.) non sono altro che affezioni degli attributi di Dio. Ma nemmeno potè procedere da Dio o da alcuno dei suoi attributi in quanto è affetto da una modificazione eterna ed infinita (prop. 22). Dovette dunque procedere, ossia essere determinato ad esistere e ad operare da Dio o da qualche suo attributo in quanto affetto da una modificazione che è finita ed ha un’esistenza determinata. Inoltre anche questa causa o modo (per la stessa ragione che ha servito alla prima parte di questa dimostrazione) ha dovuto essere determinata da un’altra anch’essa finita ed avente una esistenza determinata: alla sua volta quest’ultima (per la stessa ragione) da un’altra e così all’infinito.3) Nelle prop. 26-27, 29-30, 32-36 Spinoza tratta dell’attività degli esseri in quanto dipendente e per l’essere e per l’esistere da Dio e trae la conseguenza che tutto, in quanto determinato da Dio, è necessario. Poiché Dio è causa immanente delle cose, esse sono necessariamente e rigorosamente determinate in ogni loro attività da Dio.
Prop. 26. Una cosa, che è determinata ad una certa operazione, è stata da Dio così determinata; e quella che non è stata determinata non può determinare se stessa ad operare.
Prop. 27. Una cosa che è stata determinata da Dio ad una certa operazione non può da sè rendersi indeterminata.
Il possibile e il contingente non fanno quindi parte della realtà: essi sono dovuti solo ad un’imperfezione del conoscere umano: nella realtà delle cose non v’è contingenza.
Prop. 29. Nella natura delle cose non vi è alcun contingente, ma tutto è determinato dalla necessità della natura divina ad esistere e ad operare in un certo modo.
Avendo così chiarissimamente mostrato che non vi è in senso assoluto nelle cose nulla per cui possano dirsi contingenti, voglio in poche parole spiegare che cosa dobbiamo intendere per contingente; e prima che cosa siano il necessario e l’impossibile. Una cosa è detta necessaria o sotto il rispetto dell’essenza o sotto il rispetto della causa. Perchè l’esistenza d’una cosa può procedere necessariamente o dalla sua essenza e definizione o da una data causa efficiente. Inoltre sotto gli stessi rispetti una cosa può esser detta impossibile: e cioè o perchè la sua essenza o definizione involge una contraddizione o perchè non vi è alcuna causa esterna determinata a produrre tale cosa. Ma una cosa non può esser detta contingente per nessun’altra ragione che in riguardo alla deficienza del nostro conoscere. Una cosa, di cui non sappiamo se l’essenza sua involga una contraddizione o, se anche ben sappiamo che l’essenza sua non involge contraddizione, — della cui esistenza non possiamo affermare nulla di certo, perchè non ci è nota la concatenazione delle cause — tale cosa non potrà apparirci nè come necessaria, nè come impossibile; perciò la diciamo contingente o possibile. (Et., I, 33, scol. 1).
Quindi Spinoza estende in modo particolare questa considerazione all’intelletto, che non può, diremo così, spaziare fuori del reale, non può che riflettere gli attributi di Dio e le loro modificazioni, senza poter creare ed introdurre nulla di nuovo e di proprio. L’errore e la finzione non sono che un parziale oscuramento: essi non colgono altro reale che quello che procede necessariamente da Dio. «L’errore non è nulla di positivo» (Princ. filos. cartes., I, 15). «La chimera, la finzione e l’ente di ragione non possono annoverarsi fra gli enti» (Cog. met., I, 1).
Prop. 30. L’intelletto, finito o infinito in atto, deve comprendere gli attributi e le affezioni di Dio e niente altro.
In secondo luogo Spinoza estende la stessa verità anche alla volontà, la quale non è una facoltà creatrice di alcunché di nuovo: anche la sua azione fa parte dell’azione risultante dall’azione divina e si inserisce in essa come un momento necessario.
Prop. 32. La volontà non può dirsi causa libera, ma soltanto necessaria.
Qui Spinoza accenna soltanto di passaggio al problema della libertà, sul quale si estenderà maggiormente più innanzi. — Nei corollari della prop. 32 e nelle prop. 33-36 egli applica queste conclusioni anche alla totalità della realtà in rapporto all’azione divina e si preoccupa di purificare il concetto dell’azione divina da ogni rappresentazione antropomorfica. Data la unità della sostanza e la necessità della processione delle cose dalla sostanza, è evidente che le cose non potrebbero procederne in altro modo o in altro ordine da quello in cui procedono (prop. 33). Perchè se si suppone che Dio potesse anche produrle altrimenti, si suppone con ciò che anche la volontà e l’intelletto di Dio, e così la sua essenza, potrebbero essere altri da quello che sono (ib., scol. 2). La potenza di Dio coincide quindi con la sua essenza e tutto ciò che è nella sua potenza esiste necessariamente (prop. 34-35). Come per converso l’essenza coincide con la potenza e perciò in Dio e in ciò che ne procede tutto è attività e creazione continua (prop. 36).
Prop. 33. Le cose non hanno potuto essere prodotte in altro modo od in altro ordine da quello secondo cui sono state prodotte.
Prop. 34. La potenza di Dio è la stessa sua essenza.
Prop. 35. Tutto ciò che concepiamo essere in potere di Dio, ciò è necessariamente.
Prop. 36. Nulla esiste, dalla cui natura non segua qualche effetto.
Segue chiaramente da ciò che precede che le cose sono state prodotte da Dio con una somma perfezione, perchè esse sono scaturite necessariamente da una data natura perfettissima. Nè ciò imputa a Dio alcuna imperfezione: anzi è la sua perfezione che ci costringe ad affermare questo. Ed è dalla affermazione contraria che sì dedurrebbe Dio non essere sommamente perfetto: perchè, se le cose fossero state prodotte in altro modo, bisognerebbe attribuire a Dio un’altra natura, diversa da quella che la considerazione dell’Essere perfettissimo ci costringe ad attribuirgli. Ma io temo che molti respingano come assurda questa mia opinione e non vogliano nemmeno esaminarla: e ciò solo perchè sono abituati ad attribuire a Dio un’altra libertà, ben diversa da quella che è stata da noi insegnata (def. 7) e cioè una libertà assoluta. Tuttavia credo che, se vogliono ponderare la cosa ed esaminare lealmente la serie delle mie dimostrazioni, anch’essi finiranno per respingere una tale libertà, quale essi attribuiscono a Dio, non solo come cosa futile, ma come un grande ostacolo alla scienza. Per essi io voglio ancora mostrare che, anche ammettendo che la volontà appartenga all’essenza di Dio, dalla sua perfezione segue nondimeno che le cose non hanno potuto essere create in altro modo ed in altro ordine: il che sarà facile a dimostrarsi, se consideriamo prima ciò che essi stessi concedono e cioè che dal solo decreto e volontà di Dio dipende che ciascuna cosa sia quello che essa è. Perchè altrimenti Dio non sarebbe causa di tutte le cose. E in secondo luogo se consideriamo che tutti i decreti di Dio furono da lui stabiliti ab æterno. Perchè altrimenti sarebbe un riferire a Dio l’imperfezione e l’instabilità. Ora, poiché nell’eternità non vi è nè quando, nè prima, nè poi, dalla sola perfezione di Dio, segue che egli non può, nè ha mai potuto decretare altrimenti; in altre parole segue che Dio non ha potuto esistere prima o senza i suoi decreti. Ma, diranno essi, anche supponendo che Dio avesse creato un’altra natura delle cose o che avesse ab æterno decretato altrimenti circa la natura e il suo ordine, non ne seguirebbe con ciò alcuna imperfezione in Dio. Però dire questo è come dire che Dio può mutare i suoi decreti. Poichè se Dio avesse decretato circa la natura e il suo ordine altrimenti di quel che ha fatto, cioè avesse voluto e pensato altro circa la natura, avrebbe avuto necessariamente un altro intelletto ed un’altra volontà da quelli che ha presentemente. E se è lecito attribuire a Dio un altro intelletto ed un’altra volontà senza alcun mutamento della sua essenza e della sua perfezione, perchè non potrebbe egli mutare i suoi decreti circa le cose create e pur restare egualmente perfetto? Perchè il suo intelletto e la sua volontà circa le cose create e il loro ordine sono sempre nello stesso rapporto con la sua essenza e perfezione nell’un caso e nell’altro. — D’altra parte tutti i filosofi che io conosco s’accordano in ciò che in Dio non v’è intelletto in potenza, ma solo in atto: ora poiché il suo intelletto e la sua volontà non si distinguono dalla sua essenza, come tutti parimenti concedono, ne segue che, se Dio avesse avuto un altro intelletto in atto ed un’altra volontà, la sua essenza sarebbe anch’essa stata diversa; e quindi, se le cose fossero state da Dio prodotte altrimenti da quel che sono, il suo intelletto e la sua volontà, cioè la sua essenza, avrebbero dovuto essere altri, il che è assurdo. (Et., I, 33, scol. 2).4) Il libro 1° finisce con una lunga appendice, nella quale Spinoza si applica a combattere una credenza molto diffusa e contraria alla dottrina sua della necessità universale: la dottrina cioè che Dio stesso agisce in vista di fini. Spinoza traccia la genesi di quest’illusione dalla cecità e dall’egoismo degli uomini.
Spinoza si propone in appresso di mostrare la vanità di questa concezione. Con essa si pone come più imperfetto ciò che Dio produce immediatamente (perchè non è che mezzo), mentre invece è più perfetto: si nega la stessa perfezione di Dio, perchè gli si attribuisce il bisogno d’un fine esterno; anche la distinzione scolastica tra il finis indigentiæ (finalità che procede da un vero bisogno, da un’imperfezione) e il finis assimilationis (finalità che procede dal desiderio di comunicare se stesso, di partecipare la propria perfezione) non serve a togliere al concetto di fine il carattere d’un bisogno, d’una vera deficienza.
In terzo luogo Spinoza mostra come da quest’illusione procedono tante altre nozioni (bene, male, ordine, disordine, ecc.), che servono all’uomo ad esplicarsi la natura e che non sono se non enti immaginari, in quanto non esprimono proprietà delle cose reali, ma impressioni nostre, desideri nostri, finzioni nostre in rapporto alle cose.
In questa teoria di Spinoza dobbiamo distinguere più aspetti. In quanto è condanna dell’antropomorfismo volgare, che attribuisce a Dio finalità ed attività sul tipo umano, essa ha perfettamente ragione: i vaniloqui della teodicea volgare spiegano e giustificano l’indignazione di Spinoza. Egli ha ancora ragione quando vuole sia esclusa dalla realtà assoluta ogni finalità. Credere che Dio produca il mondo per un puro beneplacito, per un atto di volontà, che poteva anche non essere, è assurdo: perchè tale volontà e il caso sono una cosa sola (lett. 54). Ma credere che Dio produca il mondo in vista d’un fine è più assurdo ancora: perchè è un sottoporre Dio ad una necessità esteriore, ad una specie di fato (Et., I, 33, scol. 2). L’azione di Dio è un processo eterno che è fine a sè. «L’essere che diciamo Dio o Natura agisce con la stessa necessità con cui esiste... Come dunque non esiste in virtù d’alcun fine, così non opera per alcun fine: esso non ha alcun fine o principio dell’esistere come dell’agire» (Et., IV, pref.).
Ma da questo non si deve concludere che non vi siano fini e che tutto sia perfetto anche in questo nostro mondo finito. Nel suo sdegno polemico contro le rappresentazioni superstiziose, Spinoza perde spesso di vista questa distinzione. Se tutto fosse perfetto e necessario, anche nella realtà finita, che differenza di valore vi sarebbe ancora tra chi segue la ragione e chi non la segue? Ma questo è un punto sul quale Spinoza dovrà tornare ancora più innanzi.