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ENEA NEL LAZIO 329
Ah! se il consiglio mio d’applauso è degno,

Sposa lieta m’avrai... Ma ohimè, che dico?
Sposa tua più non son; rea mi dichiara
Il severo tuo labbro. Un lieve fallo
Tanto spiace ad Enea, che abborre il nome
Del più tenero amor. Calpesta i dritti
Della fè, dell’onore; imprime in fronte
A una figlia regal d’obbrobrio un segno.
Infelice Lavinia, ah! che mi resta
Fuor di morte a sperar? Pietade, amici.
Non la chiedo ad Enea, che il duolo e il pianto
Crederà una menzogna: a voi la chiedo;
Voi pregate per me. Vi è noto appieno
Il mio cuore qual sia. Barbaro amore,
Fosti tu la mia colpa. Ah! sei tu solo
Nell’afflitto mio cor la pena estrema.
Enea. Ah! Lavinia, non più; quel pianto amaro
Temer non posso e giudicar menzogna.
Se fingesti con pena, e se virtude
Parveti il simular, se onesto è il fine,
Scuso l’inganno, e ogni spiacer mi scordo.
Tu perdona, mia cara, al giusto, al santo
Amor di verità che m’arde in petto,
E di qualunque finzïon si sdegna.
Pur troppo, è ver, che per amor mi valsi
Di tal arte con Dido, e sdegno ho meco,
Ma in te d’amor la stessa colpa io scuso,
E t’amo e stimo, e sposa mia ti abbraccio.
Ascanio. Ciò non basta, signor; se altrui non leghi
Di Selene la man, Lavinia è inquieta.
Enea. Oh! saggio figlio, che provede al bene
E alla quiete d’altrui! Lo zelo intendo
Che il cor t’infiamma, e a parlar move il labbro;
Ma vuo’ render giustizia in un sol punto
A due figlie reali. Abbia Lavinia