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328 ATTO QUINTO
A scoprire il mio cor, lodar dovevi

L’arte discreta e le discrete mire.
Allor che amasti, e abbandonar pensavi
La tua bella Didone, hai tu svelato
Crudelmente il disegno, o pur cercasti
Differirle la pena, usando ogni arte
Per trattener le lagrime scorrenti? (Enea si agita
Ti ho toccato nel cuor; comprendi adesso
Se colpa è il simular, e vedi quanto
Maggior ragione a finger mi costrinse.
Fui gelosa di te, lo sono ancora,
E lo sarò finchè non dia Selene
Altrui la destra, e il mio timor sia spento.
Se sia ver quel ch’io narro, Acate il dica,
Acate cui tentai d’unir Selene.
Ma Selene, cui noto è il suo costume,
Sposo non ama agl’imenei forzato.
Finalmente m’aperse il Ciel cortese
A migliore speranza un nobii varco.
Quest’Ascanio, signore, in cui la terra
Fida l’alte speranze, e quando mai
Svilupperà que’ fortunati germi
Cui l’Italia sospira e Troia e il mondo?
E nel fior dell’età; di amor le vampe
Sente già nel suo cuor. Più degna sposa
Gli potresti tu dar? Potresti meglio
Compensar di Selene i mali estremi
Derivati da te, che darle un figlio
Parte del sangue tuo? Mancar ti puote
Nell’Italia feconda ampio terreno
Per stabilire alla tua prole un seggio?
Credi, non spiacerebbe al prode Ascanio
La vezzosa Selene, a lei non spiace
Il fervido garzon. Osserva in esso
Quel modesto rossor che parla e tace.