Eh! La vita/I soliloqui di Bicci
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I SOLILOQUI DI BICCI
Peccato che Bicci non fosse meno ignorante di quel che era! Con quella sua vivacissima immaginazione per cui un qualunque indizio si sviluppava rapidamente, diventava fatto concreto da commuoverlo, da rallegrarlo, da farlo disperare, quasi si fosse trattato di una innegabile realtà, con quella sua vivissima immaginazione, egli avrebbe potuto diventare un novelliere, un romanziere di prim’ordine.
Che gli mancava? Un po’ d’italiano, un po’ di grammatica, un po’ di stile, forse un po’ di... Ma no! Ma, no! Non gli mancava altro; e per ciò le sue novelle, i suoi romanzi rimanevano inediti, riserbati soltanto a lui che li rimuginava e non sapeva apprezzarli. Infatti, quando aveva vissuto — bisogna dire così — un’avventura che era proprio una novella o un romanzo, — e in questo caso si trattava di settimane di fantasticamento, — Bicci, invece di rallegrarsi con se stesso, invece di ammirarsi, si buttava in viso una violenta serie di ingiuriosi epiteti: — Stupido!... Imbecille!... Cretino!... Bestia!... Bestione!... — i quali però, da lì a qualche giorno, non gli impedivano di ricominciare daccapo.
Ed era la sua fortuna; perchè così non gli accadeva mai di annoiarsi. La sua vita passava in continui soliloqui.
Da due giorni ora stava sotto l’ossessione di una lettera di suo zio Tommaso Bicci.
— Viene per far testamento!... E perchè me lo annunzia? Vuol trovare un notaio onesto, come se i notai portassero l’etichetta: Guardatevi dalle contraffazioni! I notai sono tutti onesti fino al momento in cui i depositi dei clienti non li tentano di diventare l’opposto. Ma allora scappano, e non occorre informarsi della loro moralità negli affari... Già, mio zio è stato sempre un omo... un omo... come dire? — un po’.... forse più di un po’, di cervello balzano. È andato ad esiliarsi in campagna; chi sa perchè? Per economia, no di certo. Le grasse rendite se le gode fino all’ultimo centesimo, e spesso gli accade di dover fare qualche piccolo debito, una, due cambialette a tre, a sei mesi... tanto — assicurava una volta, ridendo — per provare l’emozione di mettere la propria firma su quella striscia di carta filigranata, e poi l’altra emozione più forte, dell’imminente scadenza e del pericolo del protesto. Bisogna provare tutto a questo mondo. Eh sì! La teorica è bella per chi può permettersi di cavarsi certi capricci, tutti i capricci, come è facile a lui che, regolarmente, ogni sei mesi... Ah! Dev’essere una gran delizia, tagliare i cuponi della rendita e intascare i quattrini con l’unico scomodo di presentarsi due volte all’anno al cassiere della Banca d’Italia!...
Ed ora vuol fare testamento! Se non avesse intenzione... Infine, io sono il suo più stretto parente. Ebbene.... Non capisco perchè far beccare al Notaio, al Ricevitore del Registro, allo Stato, per la tassa di successione, parecchie centinaia di lire, che potrebbero esser risparmiate a beneficio dell’erede, o degli eredi.... Quali? I parenti di terzo grado?... Vorrei vedere che c’entrassero anche loro. Che! Che! Altrimenti lo zio Tommaso non mi avrebbe annunziato: Vengo pel mio testamento!
Com’è stupido il codice riguardo ai testamenti! Se ne possono fare due, dieci, venti, uno diverso dall’altro; ed è soltanto l’ultimo quello che ha valore! Invece, testamenti e donazioni avrebbero dovuto essere tutt’una cosa. — Pensateci bene prima di far testamento; ma una volta fatto «quo scripse, scripse», come diceva quello. — Invece, uno sa, per esempio: Mio zio mi ha steso nel suo testamento; e, pur augurandogli cent’anni di vita — cento sono troppi: infatti non si avverano quasi mai — pensa, ripensa, fantastica, fa mille castelli in aria intorno a quell’eredità... E poi, quando lo zio se n’è andato all’altro mondo, scappa fuori un testamento che nessuno si aspettava! Oh, il codice è stupido! Significa che chi l’ha fatto non aveva nessun parente e nessuna eredità da attendersi, altrimenti ci avrebbe pensato due volte prima di permettersi la balordaggine...
— Tu parli da grullo, caro mio! E se l’ultimo testamento è il meglio? Se corregge uno sbaglio, una cantonata presa nel primo?
Sarà! Sarà! Ma io preferirei che mio zio, ora, mi dicesse: Tu porti il mio nome, sei destinato a continuare la lunga generazione dei Bicci autentici; gli innumerevoli Bicci sparsi pel mondo non contano niente... Ed ecco qui, da mano a mano, senza testamento, senza neppure un rigo di ricevuta — a che scopo la ricevuta? — prendi; queste sono le cartelle di rendita che dovresti ereditare alla mia morte. E siccome non si sa mai quando nè come si muore, e ci potrebbero essere degli indiscreti da frugare prima di te nei miei cassetti... Prendi! Comincia a godertele fin da ora!
Figuriamoci se mio zio Tommaso Bicci potrebbe indursi a un atto così semplice, diretto, con quel suo cervello balzano che non gli ha permesso di ricordarsi di me in tant’anni, neanche per cavarsi la curiosità di sapere se ero vivo, morto, scapolo, ammogliato, ricco, povero, galantuomo, farabutto, quasi il figlio di suo fratello non fosse mai esistito! Ora, tutt’a un tratto: — Vengo per fare testamento. Trovami un notaio onesto!
L’ho qui vicino, accanto al portone, uno studio notarile molto accreditato, a giudicare dalla folla dei clienti che entrano ed escono durante la giornata. Studio, perchè? A meno che la denominazione «studio» non voglia significare: Luogo dove si studia il miglior modo d’imbrogliare la gente. Conosco il notaio, vecchietto rubizzo, soltanto per saluto ogni volta che esco di casa, e lui arriva, alla stessa ora, regolarmente. — Buon giorno, signor notaio! — Buon giorno, signooor.... — Non c’è verso che mai si ricordi del mio nome. — Condurrò mio zio da lui.
Il guaio è che io non so dissimulare; tutto mi si legge sul viso come in un libro stampato. Ed ecco Marco Tanzi:
— Bicci... che c’è di nuovo? Ti sorridono gli occhi.
Posso rispondergli: — C’è il testamento dello zio in mio favore? Mi direbbe sùbito: — Bravo! Ora prenderai moglie! — Io, zitto. E lui: — Senti: se è vero che hai messo gli occhi addosso alla signorina Viola... — Sempre lo stesso discorso! A furia di ripetermelo, mi ha fatto davvero metter gli occhi addosso alla signorina Viola. Chi ci aveva mai pensato? Sì, la guardavo, dicevo, qualche volta, come tutti: — È carina, e pare che abbia una discreta dote. — Potrebbe darsi dunque che il suo sospetto provenga da ciò. Prima, mi domandavo: — Ma a lui che glien’importa? Faccio quel che mi pare e piace e non devo render conto delle mie azioni a nessuno. — Dopo, ho capito: la signorina Viola e la sua dote fanno gola a lui. E per questo l’insistenza di Marco m’irrita, m’indispone. Il bello è che la signorina se ne sta a casa sua, tranquilla, ignara di me e di Tanzi, forse col cuore interessato di qualcuno che nè io nè Tanzi sospettiamo, perchè all’ultimo accade così: tra due litiganti, il terzo gode. — Hai delle pretese? — dico io. — Fatti avanti! — Tu devi lasciarmi libero il posto! — Io non lascio libero niente: chi è più forte vince! — Se si trattasse di farla a pugni, il più forte sarebbe lui, che è un omaccione; ma ha un cuore di coniglio... È impertinente però; mi mette con le spalle al muro: devo dargli una lezione. Vedete? Un galantuomo si trova così nel rischio di ammazzare o di farsi ammazzare! Giacchè io non posso ingollarmi in santa pace le provocazioni di Marco Tanzi. E voglio dargli la prova che, se mi ci metto seriamente, riesco meglio di qualche altro, di lui sopratutti. Se la sente? E vada a presentarsi al signor Viola: — Vi chiedo la mano di vostra figlia! — Gli riderà in viso il signor Viola. Ma già, prima dovrebbe presentarsi alla signorina Ernesta. È inutile far la richiesta al babbo, se non si ha la certezza anticipata del consenso della figlia.
È il mio piano. Non già che io sia innamorato della signorina. Mi piace; è carina; dicono anche che sia istruita; via, si sa, istruzione da donne! Ha frequentato le stesse scuole che ho frequentato io. Sono istruito io? Tanzi, forse, ne sa più di me? Ingegno naturale si richiede; ma è un’altra questione. Carina, dunque, è innegabile. L’amore... ci vuol poco a farlo nascere. Uno si mette in testa una signorina, ci pensa, ci ripensa; la guarda, torna a guardarla, e, certe volte, — dicono quelli che sono stati innamorati — si ha appena il tempo di riflettere che già la signorina ha preso possesso del cuore. Finora, a me, non mi è accaduto. E, in verità, mi seccherebbe se dovessi trovarmi, che è, che non è, una signorina installata nel cuore, senza sapere come ci sia entrata. Per la signorina Viola, è un altro paio di maniche. Porta aperta. Ben venuta! Passi! Passi!... Per dispetto di Marco Tanzi. Quando uno c’è tirato pei capelli... e, sì: un duello, piuttosto che patire una soperchieria! Ernesta me ne sarà grata, ne sarà orgogliosa... — No! no! Non esporre la vita per me! — Lacrime, abbracci... E io, con bel gesto: — Devo dargli una lezione! — Tutto questo, s’intende, dopo dell’arrivo dello zio, e dopo che il testamento sarà in mano del notaio. Voglio andare a colpo sicuro.
Ah, quello zio! Se la è goduta la vita!... Quando si dice: gli stravizi della giovinezza! Ecco là il signor Tommaso Bicci, che ne ha fatto di tutti i colori, in Italia e fuori d’Italia, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo... — è stato anche in America, a far quattrini, pare. — Dovrebbe essere un carcame, una rovina... Invece, a settant’anni, sembra quasi un giovanotto... Si tinge molto bene; non s’indovina, bisogna saperlo. Quando si dice gli stravizi! Erano fabbricati meglio i nostri parenti di un secolo fa! Solidi, solidissimi. Non lo vedo da un pezzo; ma non sarà mutato, fisicamente. Moralmente, sì. — Vengo per far testamento. — È un’idea triste quella del testamento, e può significare un atto di prudenza, di preveggenza, e, anche, un presentimento di prossima fine.
Non sarà male intanto far qualche approccio verso la signorina Viola. La incontro spesso con la sua mamma. Vanno pei negozi ogni giorno; sempre con pacchi, pacchetti, pacchettini in mano: spendono troppo. — Eh, cara! Noi non possiamo continuare questo genere di vita! — Che vita? — Capisci che le nostre risorse... — E la mia dote? — Non buttarmela in faccia la tua dote. — Devo dunque privarmi... — Privarti di niente! Quel che è necessario. Il superfluo...
Ma fate intendere a una donna, a una moglie, che c’è al mondo anche il superfluo! Per la moglie il superfluo non esiste. Tutto è necessario, anzi, urgente. Devo continuare a bisticciarmi con Ernesta? Eppure, quando eravamo fidanzati sembrava così buona, così condiscendente, così remissiva! Incredibili, le donne! Come se dentro ognuna di esse ce ne fossero due, tre, una l’opposto dall’altra, che scattano fuori secondo le circostanze. Combattete con tutte e tre, se vi riesce!... E se non era per fare un dispetto a Marco Tanzi...!
Già, ne ragiono come se la cosa fosse bella e conclusa!... Al solito mio!... Mi sono arrabbiato, ho la bocca amara, quasi avessi davvero leticato con mia moglie... che non ho! Tutto dipende dal testamento dello zio: dipende che Tanzi non mi annoi più col dire: La signorina Viola qua, la signorina Viola là... O che non ci sono altre signorine a questo mondo? Troppe! Troppe! Dicono che ogni maschio potrebbe sposarne almeno tre in una volta... e rimarrebbero ancora delle zittellone da collocare.
In ogni modo, bisogna preparare il terreno: non lasciarsi cogliere alla sprovvista. Ma quel Tanzi! Se sapesse che è stato lui, proprio lui, a buttarmi tra le braccia della signorina Viola! Tra le braccia per modo di dire; perchè, devo confessarlo, la signorina Viola è divenuta ormai il mio sogno ad occhi aperti, e credo che, da qualche settimana in qua se non sono diventato il suo sogno anch’io, poco deve mancarci. Si tratta di occhiate, di sguardi insistenti. Certe volte mi sembra che ella si domandi: — Ma che vuole da me costui che mi guarda a quel modo? — Via signorina!... Finge di non aver capito? Se fosse vero, il fatto non farebbe onore alla sua intelligenza... — Certe volte, al contrario, sembra che lei mi risponda: — Ma parli al babbo! Che aspetta?
Un momento, signorina. Lasci che arrivi lo zio Tommaso, tra giorni. — Vengo per far testamento; cercami un notaio onesto. — Se la cosa non riguardasse me, perchè tutta questa premura di annunziarmi l’intenzione di far testamento? Mancano notai al suo paese? È vero: lui abita in campagna; ma potrebbe risparmiarsi il viaggio fino a qui; alla sua età è sempre uno scomodo anche viaggiare in prima classe o in sliping-car. Dunque c’è una nascosta ragione che lo fa muovere, che lo spinge a preavvisarmi: — Vengo per fare testamento; trovami un notaio onesto. — Per me, signorina, tutti i notai sono onesti, se devono ricevere un testamento in mio favore. Che onestà occorre per questo? Si detta il testamento davanti ai testimoni, si legge, si firma, e tutto è finito. È olografo? Si consegna in busta chiusa con cinque o più suggelli... Busta? No; un foglio di carta bollata. Mi sono informato bene.... Testatore, testimoni, notaio firmano l’involucro... e tutto è finito. Solamente, in questo caso, non si sa quel che il testatore ha scritto. È seccante. Chi sa che diamine ha combinato?
È una stupidaggine supporre che lo zio Tommaso voglia farsi beffa di me. Gli ho mai chiesto qualche cosa? Ho sempre detto soltanto, tra me e me, e non può essergli giunto all’orecchio: — Quel maiale dello zio Tommaso! — Esclamazione scherzosa, che lo avrebbe fatto sorridere se avesse potuto udirla. Per fortuna quel che si pensa rimane dentro di noi, e la parola può dire una cosa e l’altra parola, quella che ci parla sottovoce nella testa, dire, nello stesso momento, precisamente l’opposto.
Così, ora, se Marco Tanzi, quel gran seccatore, mi domanderà... — Figurati! — gli risponderò. Io penso alla signorina Viola come alla figlia del Gran Turco! — E intanto avrò lavorato sott’acqua, avrò fatta la mia brava dichiarazione, poi la mia solenne richiesta al babbo, e una mattina... Peggio di uno schiaffo! Peggio di un pugno su la bocca dello stomaco! E Tanzi dovrà star zitto, se non vorrà far ridere la gente. Non c’è persona più ridicola di un pretendente che si vede levato, per modo di dire, il boccone di bocca, e rimane a bocca aperta! Eh? Eh? —
Quasi una settimana di soliloqui, interrotti, ripresi, alla passeggiata, a colazione, a desinare in quel cantuccio appartato della trattoria dove faceva pensione, e nella camera mobiliata a un terzo piano, ch’egli si compiaceva di chiamare il suo nido; la mattina lavandosi, pettinandosi, spazzolando il vestito prima di avviarsi all’ufficio; la sera, fumando la pipa affacciato alla finestra, preparandosi ad andare a letto, e, infine, a letto, al buio, rivoltandosi da un fianco all’altro perchè si addormentava con qualche difficoltà, con tanti soliloqui da smaltire.
— E lo zio Tommaso che fa? Si è pentito? Non si degna neppure di avvisarmi che ha rimesso il viaggio a un altro giorno, a un’altra settimana, a un altro mese! Intanto...
Intanto, quell’acqua cheta di Marco Tanzi, zitto zitto, senza che Bicci si accorgesse di niente, aveva lavorato, lavorato: era entrato nelle grazie della signorina Viola, aveva fatto la richiesta al suo babbo che, non scorgendo nulla di meglio in vista, non si era fatto pregare molto. Le nozze erano già stabilite alla chetichella, quando un indiscreto disse al Bicci:
— Tanzi sposa la signorina Viola!
Diciamolo sinceramente in sua lode: Bicci fu ammirabile. Nonostante lo schiaffo, nonostante il pugno su la bocca dello stomaco, che questa volta toccarono a lui, si sforzò di sorridere e rispose:
— Me ne rallegro!... Sono una coppia bene assortita!
Non appena fu solo si sfogò:
— Stupido! Imbecille! Cretino! Ben ti stia! Bestia! Bestione!
Ci volle una settimana, prima di darsi pace e di ricominciare daccapo... un’altra novella, un altro romanzo....
Peccato! E dire che con un po’ d’italiano, un po’ di grammatica, un po’ di stile, pochino, egli sarebbe potuto diventare un novelliere, un romanziere di prim’ordine!